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martedì 27 settembre 2011

Mattia Destro: gli bastano 6 minuti

Mattia Destro, 20 anni. Ansa


6 minuti. Pochi? Non per Mattia Destro, cui solitamente bastano per entrare nel cuore dei suoi nuovi tifosi. Oggi del Siena, ieri del Genoa, ma la solfa è sempre la medesima: l'allenatore - Gasperini in rossoblu, ora Sannino - gli regala fiducia e soprattutto una maglia da titolare, lui lo ricambia nell'unico modo che conosce. Facendo gol, ovviamente al sesto minuto.

Un anno fa, col grifone sul petto, tra l'esordio in Serie A e la prima esultanza trascorsero 360 secondi. Contro il Lecce, idem: squadre in campo, sei giri di lancetta ed eccolo incornare il cross di Gaetano D'Agostino e sfilarsi la maglietta. Sin qui, copione identico, poi le cose cambiano. Perché, a differenza di quanto accaduto nel giorno del debutto, arriva la vittoria: 3-0, con doppio sigillo - il secondo morbidissimo - di Calaiò.

Figlio d'arte, dal papà Flavio - che difese i colori, tra le altre, di Ascoli e Cesena - ha però ereditato ben poco: arcigno difensore il padre, goleador puro il rampollo. Che però non si limita a gonfiare le reti, come dimostrato a suon di dribbling (l'espulsione di Esposito porta la sua firma) e assist (Calaiò ringrazia) e corsa (Sannino sorride) contro il Lecce. Vent'anni compiuto a marzo, a Mattia Destro occorre tempo per affermarsi. E, almeno stavolta, non gli basteranno i consueti 6 minuti.

giovedì 22 settembre 2011

Germán Denis, nerazzurro vincente

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Genoa, Juventus, Udinese: 7 punti, poi il Napoli a 6. E l’Atalanta? Corsara al «Via del Mare» di Lecce, se la parola spettasse al campo si ritroverebbe in vetta alla classifica. Ma a tenere i bergamaschi con i piedi per terra ci sono i 6 punti di penalizzazione. Eppure Germán Denis, che logica e soprannome – «el Tanque»: avete mai visto un carro armato sollevarsi dal suolo? – ha fatto un piccolo strappo alla regola contro il Lecce, undici minuti dopo l’inizio della ripresa: calcio d’angolo, pallone prolungato sul secondo palo, sforbiciata e rete. Ad occhio e croce, credo proprio che Denis verrà perdonato per essersi librato in volo ed aver trafitto Júlio Sérgio. Per la seconda volta.

Basta una rapida occhiata alla classifica dei marcatori, e poi una più attenta a quella generale – occhio quindi all’asterisco che segue il nome dell’Atalanta – per capire che «el Tanque», trent’anni compiuti da neanche due settimane, ha finalmente trovato la propria dimensione italiana. Sfondareti oltre l’Atlantico, in Italia il suo rapporto con il gol era stato sinora parecchio controverso: polveri bagnate in C1 col Cesena, ormai quasi dieci anni fa, discontinuo a Napoli e poi panchinaro ad Udinese. La doppia cifra, miraggio sino a ieri, oggi diventa obiettivo concreto, anche perché sin qui il «19» nerazzurro viaggia al ritmo di un gol a partita.

Pupillo di Pierpaolo Marino, che lo portò a Napoli e ne ha sponsorizzato l’approdo a Bergamo, Denis mastica calcio più o meno da quando ha imparato a camminare: a tre anni appena, papà Gustavo e mamma Alicia lo portarono a segnare i primi gol nel San Martín. Calcisticamente molto precoce, a 16 anni appena arriva il debutto in prima squadra con il Talleres di Remedios de Escalada, con cui ha esordito anche Javier Zanetti ormai quasi vent’anni fa. E proprio con Zanetti condivide la posizione in classifica, ma Denis può bearsi del fatto di aver già regalato sei punti alla propria squadra.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

lunedì 19 settembre 2011

La parabola cromatica di Simone Barone



Far gol non è mai stato il suo mestiere. Eppure Simone Barone, affinché del suo ritorno al calcio si accorgessero anche i meno attenti, s'è infilato tra le larghe maglia della difesa stabiese ed ha infilato Colombi: tre a zero, condito dalla sua prima esultanza dopo quasi tre anni. Certo, il peso di questa marcatura sulla classifica del campionato (che vede il Livorno al sesto posto, con 10 punti) è minimo, ma sul morale di Barone avrà di certo una grandissima influenza.

Perché tutti sanno che tra i ventitré «berlinesi» quell'indimenticabile 9 luglio del 2006 c'era anche lui, ma nessuno o quasi è al corrente del fatto che, un anno fa circa, Barone inseguiva un ingaggio sudando assieme ai componenti del Crociati Noceto - Lega Pro Seconda Divisione, ovvero C2 - grazie all'amico Roberto Magnani, centrocampista parmense nato nel '77.

Noceto, diecimila e rotti abitanti in provincia di Parma, offre l'occasione di raccontare un curioso aneddoto legato all'infanzia di Barone. Che, nato a Nocera Inferiore mentre suo padre Michele (attaccante di Parma e Messina negli anni settanta) militava nella Nocerina, raccontava agli amici di esser nato a Noceto anziché Nocera, per rivendicare la propria appartenenza alla tanto amata Emilia. Dove ha mosso i primi passi, calcistici e non, ma che è stato costretto ad abbandonare per togliersi le maggiori soddisfazioni calcistiche.

A Palermo, dove esordisce in Nazionale nel febbraio 2004 sotto la guida di Trapattoni, si ritrova ad indossare la maglia rosanero nel luglio dello stesso anno: 5 milioni d'euro al Parma, in piena crisi, e l'occasione di gudagnarsi un biglietto aereo per la Germania dopo aver perso quello per il Portogallo. La missione riesce, ed Amburgo gli regala due spezzoni di gloria iridata, contro Repubblica Ceca ed Ucraina. Dal gialloblu ucraino al gialloblé stabiese, la parabola cromatica di Simone Barone.

martedì 13 settembre 2011

Devis si è Mangia-to l'Inter



L'integralismo di Gasperini, Sneijder in panca, Forlán all'esordio e Zárate a smarrirsi nel 3-4-3. Quante chiacchiere. L'unico interista - di tifo, non di maglia - che alle parole ha anteposto i fatti si chiama Devis Mangia, e siede sulla panchina del Palermo. Da una settimana, o poco più. Eppure Miccoli e la sua banda hanno già assimilato il credo tecnico del nuovo allenatore, cui Vincenzo Montella sottrae il titolo di più giovane della Serie A per dodici giorni appena: 4-4-2, squadra corta, pressing e pure i complimenti di Arrigo Sacchi. Mica male.

Nato a Cernusco sul Naviglio, come - rimanendo in ambito calcistico - Galbiati, Tricella ed il grande Gaetano Scirea, anziché ispirarsi a loro e cercar fortuna in difesa, s'infila i guantoni come suo papà. Ma col calcio giocato chiude presto, dopo aver indossato le maglie di Cernusco ed Enotria, perché ad attenderlo c'è l'università. Qualche esame di giurisprudenza, poi il ritorno sul campo, ma in veste di allenatore: si parte dall'Enotria, ultracentenaria società milanese affiliata all'Inter, e si prosegue con Voghera, Meda, Fiorenzuola e Varedo. Poi, la chiamata di Sean Sogliano sulla panchina del Varese, o, meglio, della Berretti, ma il salto in prima squadra lo porta ad ottenere - appena trentenne - la C2, dopo aver preso le redini della squadra in Eccellenza.

Tritium, Ivrea, Valenzana ed il ritorno a Varese, per allenare una squadra Primavera rimessa in piedi dopo 25 anni. Risultato? In finale, e campioni d'Italia sino al 93', quando Montini infila il 2-2 che porterà l'incontro ai supplementari, decisivi per il completamento della rimonta romanista. Inutile dire che Sogliano, dopo un simile exploit, non può che trascinarsi Mangia ed i suoi metodi - ad esempio, prima degli incontri somministra ai suoi i frammenti più roventi di film come «Il sapore della vittoria» ed «Ogni maledetta domenica» - a Palermo, dove si ritrova alla guida della prima squadra dopo l'esonero di Pioli. Ed ora Moratti, probabilmente, si chiede se non sarebbe stato meglio contattare Mangia anziché Gasperini, quando sulla panchina dell'Inter non voleva sedersi nessuno: oggi è una provocazione, domani chissà.

lunedì 16 maggio 2011

Il giro d'Italia di Jeda

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Il volto di Palombo, sfigurato dal più profondo dolore calcistico, è destinato a popolare gli incubi dei tifosi blucerchiati. La retrocessione della Sampdoria, impensabile all’alba di una stagione incominciata sulle note della Champions League, è senza dubbio l’evento di giornata. Al dramma doriano, però, fa da contraltare l’impresa del Lecce. Doppia, perché conquistare la salvezza in casa dell’odiato Bari è un’impresa da tramandare ai posteri; ed il gol del salentinissimo Miccoli è la ciliegina su una torta al gusto di Serie A.

Lo chef si chiama Jedaias Capucho Neves, ma sono sufficienti le prime quattro lettere per identificarlo. Impresa affatto ardua, eppure la difesa del Bari se l’è perso in due occasioni, che il brasiliano ha sfruttato nel migliore dei modi: di testa, poi con il destro e l’involontaria collaborazione di Andrea Masiello. Che, per uno strano intreccio del destino, è nato nella città in cui il calcio italiano ha scoperto Jeda: Viareggio.

Era il febbraio 2000, fine ventesimo secolo, e da Santarém (stato del Pará, Brasile settentrionale) questo ragazzo parte per cercare fortuna in Italia. Gioca nel Campinas, guidato da Careca che lo paragona a Romario, e segna cinque gol in un Torneo di Viareggio che vedrà la sua squadra terminare al terzo posto dopo aver sconfitto l’Inter nella finale di consolazione.

Inter, Juventus (che l’avrebbe prestato al Lecce) e Milan s’interessano concretamente al giocatore, salvo poi lasciar perdere. Evidentemente, hanno sentito puzza di bruciato: il passaporto comunitario di Jeda è infatti falso, lui si becca un anno – poi ridotto – di squalifica da scontare con il Vicenza. Dove inizia il suo personalissimo giro d’Italia, le cui tappe successive saranno: Siena, Palermo, Piacenza, Catania, Crotone, Rimini, Cagliari e dal 31 agosto 2010 Lecce. E mentre Contador vince in volata in al Giro con la «G» maiuscola, Jeda lo emula vincendo la volata salvezza.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

venerdì 13 maggio 2011

Tiribocchi e Calaiò: quando (non) giocavano nel Torino



Un incubo finito con tre giornate d'anticipo, ecco cos'è stato questo campionato di Serie B per il Siena e l'Atalanta. A svegliare le squadre sono stati due principi azzurri, Emanuele Calaiò e Simone Tiribocchi, che al classico bacio hanno preferito una più pratica doppietta. Due gol a testa, contro Torino e Portogruaro, per dire addio alla cadetteria e riabbracciare la Serie A. Dove questi due attaccanti s'incontrarono per la prima volta, ormai quasi dieci anni fa, prima di compiere il percorso inverso in gennaio: un prestito in B, e a mai più rivederci.

Procediamo cautamente nell'affascinante ed ingarbugliato mondo del Torino, di cui Calaiò e Tiribocchi facevano parte all'alba della stagione 2001-02. Romero presidente con Camolese in panchina e Sandro Mazzola nei quadri dirigenziali, 31 giocatori in rosa tra cui spiccavano Ferrante e Lucarelli, Asta e Galante, Bucci e Comotto, un giovanissimo Quagliarella e Vergassola, oggi capitano del Siena di Calaiò. In Serie A, ancora a 18 squadre, il Toro ottenne un onorevole undicesimo posto, mentre l'avventura in Coppa Italia si concluse dopo appena due partite. Momento cult della stagione, il derby d'andata: 14 ottobre 2001, la Juventus è in vantaggio 3-0 al 25', poi nella ripresa il Torino agguanta il pareggio con Lucarelli, Ferrante e Maspero, che beffa Salas scavando una buca all'altezza del dischetto e negandogli il 4-3 su rigore. Orgasmo granata. Ma quel giorno lì Calaiò e Tiribocchi non erano neppure in panchina: la loro avventura all'ombra della Mole era ormai prossima alla conclusione. Eppure era iniziata nel migliore dei modi.

Nella poi tristemente nota Cogne, sede della prima parte del ritiro granata, si gioca la più classica delle partitelle in famiglia, titolari contro riserve. Simone ed Emanuele fanno coppia in attacco nel Torino «B», ispirati dal brasiliano Pinga. Tiribocchi è reduce da una stagione a Siena, 8 gol in Serie B, mentre Calaiò ha contribuito al ritorno del Toro in A con due gol: hanno fame d'imporsi, e si vede. Finisce 4-2 per loro, tre gol di Simone ed uno di Emanuele, ma il calcio d'estate è più bugiardo di Pinocchio. Il campionato incomincia, e per questi due bomber in erba c'è spazio solo in panchina, sette spezzoni di gara in due. A gennaio il ritorno in cadetteria, Calaiò a Terni e Tiribocchi ad Ancona. In sei mesi al Torino giocano assieme una volta sola, in Coppa Italia contro la Sampdoria: al «Delle Alpi» finisce 2-2, Tiribocchi va anche a segno. Non faranno mai più coppia in attacco, ma almeno continuano con le doppiette, sia di gol che di promozioni.

mercoledì 4 maggio 2011

Lanzaro, l'anti-Mourinho

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Nel biennio trascorso in Italia, mai José Mourinho aveva conosciuto la sconfitta casalinga: 38 partite, vittoria o pareggio, nessun’altra opzione contemplata. Da Inter-Catania 2-1 del 13 settembre 2008 ad Inter-Chievo 4-3 del 9 maggio 2010 nessun calciatore italiano era stato capace di uscire da San Siro con i tre punti in saccoccia. Poi sulla panchina nerazzurra si è seduto Rafa Benítez, e l’imbattibilità casalinga è andata a farsi friggere nel derby d’andata, perso 1-0. Nel frattempo, José da Setúbal ha scelto Madrid e il Real Madrid. Ovviamente, la striscia d’imbattibilità è proseguita al Bernabéu: 14 partite e altrettante vittorie, fino al 2 aprile, quando Miguel de las Cuevas ed il suo Sporting Gijón la interrompono dopo oltre 9 anni e 150 partite (125 vittorie, 25 pareggi). Infranto il tabù, a Saragozza si son detti: e se ci provassimo anche noi? Ci hanno provato, e ci sono anche riusciti, guidati da Ángel Lafita: due gol ed un rigore procurato.

In campo per 64 minuti, prima di lasciare il posto a Pintér, c’era anche un italiano. Maurizio Lanzaro, il primo azzurro – anche se l’azzurro non l’ha mai assaggiato, limitandosi all’azzurrino delle varie selezioni giovanili – a vincere in casa di Mourinho. Al secondo tentativo, però: il 22 marzo 2009 guidava la difesa della Reggina, uscita sconfitta 3-0 da San Siro. Lui, che di Reggio Calabria è cittadino onorario dal 27 maggio 2007 in segno di riconoscimento per la clamorosa salvezza ottenuta nonostante gli 11 punti di penalizzazione nel 2006-07, è riuscito a togliersi questo sfizio. Col brivido, perché un suo intervento su Kaká stava per costare carissimo al Saragozza di Aguirre, un triennio sulla panchina dell’Atlético Madrid che avrà reso ancor più succulenta la vittoria. Per fortuna di entrambi, l’arbitro Ayza Gámez ha lasciato proseguire, e adesso sia Lanzaro che Aguirre che Matteo Contini, l’altro italiano d’Aragona, possono tirare un sospiro di sollievo guardando la classifica, che vede il Saragozza quasi salvo a quota 39.

Una salvezza che sarebbe l’ennesima in carriera per questo difensore nato ad Avellino il 14 marzo ’82, esattamente tre mesi prima che l’Italia incominciasse il proprio cammino nel mondiale spagnolo pareggiando 0-0 contro la Polonia al «Balaídos» di Vigo. E se al Celta, momentaneamente terzo in Segunda División, riuscirà il salto nella Liga, allora Lanzaro avrà l’occasione di giocare in quello stadio per un curioso intreccio del calcio e della vita.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 26 aprile 2011

Ave Cesare, Bovo verso la Roma

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Se non avesse avuto fortuna con il calcio, a quest’ora probabilmente Cesare Bovo sarebbe uno stimato sarto. Perché lo scudetto sulla maglia del Milan lo ha cucito lui, firmando il 2-1 di Palermo-Napoli: risultato prevedibile, dato che il derby delle Due Sicilie termina con questo punteggio da ormai quattro anni, però c’era bisogno di qualcuno che infilasse De Sanctis dal dischetto. E Bovo, già che c’era, ha pensato bene di unire l’utile al dilettevole, perché spiazzando il portiere avversario ha raggiunto quota 3 gol in campionato, record personale.

Ecco quindi un’altra giornata da ricordare per il difensore romano e romanista, che in questa stagione ha già tagliato un altro paio di traguardi importanti. Le cento partite con la maglia rosanero, festeggiate – anche se non nel migliore dei modi – il 10 aprile contro il Cesena, quando il Palermo riuscì a dilapidare il doppio vantaggio nei minuti di recupero. Sul finire del 2010, l’11 dicembre contro il Parma (vittoria 3-1 del Palermo), è arrivata la prima fascia di capitano, indossata in maniera rocambolesca: con Cassani squalificato e Migliaccio fuori per infortunio, ecco che al momento dell’uscita dal campo Miccoli si era diretto verso Liverani per consegnargli la fascia. Nella distinta presentata all’arbitro era però stato inserito Bovo come vicecapitano, e così eccolo ricevere la fascia ed avvolgerla al braccio sinistro.

Un presente ricco di soddisfazioni per Cesare Bovo, ed il futuro promette anche meglio. Il 10 maggio è in programma il ritorno della semifinale di Coppa Italia contro il Milan, che scenderà in campo al «Barbera» obbligato a vincere dopo il 2-2 maturato a San Siro nella gara d’andata. Al Palermo basta un pareggio (0 a 0 o 1 a 1) per guadagnarsi l’accesso alla finale di Roma, dove Bovo potrebbe rimanere anche dopo il 29 maggio: Mexès andrà al Milan, e la Roma «americana» di Thomas DiBenedetto pare intenzionata a mettere sul piatto 7 milioni di euro per riportare Bovo all’ovile giallorosso.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 19 aprile 2011

Marcolini merita la Serie A

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Ormai va di moda, in Champions League come al «Picchi» di Livorno, da Dejan Stankovic a Milan Djuric: un gol da lontanissimo è ormai parte della settimana calcistica italiana dall'inizio di aprile. E continuerà ad esserlo ancora per qualche giorno, grazie a Michele Marcolini. Che il 2 ottobre compirà 35 anni, tanti per un centrocampista, ma se rispetto agli esordi non c'è più tanto fiato, la vista è ancora ottima: «La palla arrivava lenta, e così ho dato un'occhiata a Viviano: era fuori dai pali, ci ho provato. È andata bene, benissimo», racconta al termine della partita, vinta con merito contro un Bologna incapace di sfruttare il secondo tempo vissuto in superiorità numerica.

Dare un'occhiata alla classifica è d'obbligo, a maggior ragione se alla fine del campionato mancano appena cinque partite. Il Chievo, che quasi agguanta gli avversari odierni, con i suoi 39 punti può ormai star tranquillo: il calcio è imprevedibile, ma anche quest'anno la retrocessione dovrebbe essere stata scampata. Manca solo la conferma dell'aritmetica, sin qui clemente anche con il Bari, la squadra che a Marcolini ha regalato l'esordio nella massima serie. Era il 23 novembre 1997, il protagonista veniva da un positivo triennio a Sora, ed in biancorosso era approdato su segnalazione di... suo padre Antonio, attaccante «di manovra» con i Galletti dal '72 al '74 (51 presenze e 2 gol in B) sotto la guida di Carlo Regalia, che nel frattempo era diventato direttore generale nel Bari del presidente Matarrese, sulla cui panchina sedeva Eugenio Fascetti, compagno di squadra di Marcolini senior nel Savona.

Bell'intreccio, ma quando papà Antonio telefonò a Regalia si limitò a dirgli di suo figlio che sudava in C dopo aver sfiorato lo scudetto Primavera 1994 con il Torino, e gli pose una semplice domanda: «Michele merita la Serie A?». Evidentemente sì, perché a quattordici anni dal debutto il suo piede sinistro continua a far magie.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 12 aprile 2011

Luca Toni, vendetta calda

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La vendetta è un piatto che va servito freddo. Ma non ditelo a Luca Toni. Perché all’Olimpico torinese si era ben oltre i 20 °C quando il centravanti bianconero infilava Eduardo (definito «fortissimo» nel ritiro estivo di Neustift) con la classica zampata da animale d’area di rigore, ma soprattutto perché tra la firma con la Juventus, di cui si è detto tifoso in tenera età, ed il gol segnato contro il Genoa sono passati appena 93 giorni. Pochi, anche per il frenetico mondo del calcio. Ma a Luca Toni da Stella, frazione di Serramazzoni, nato a Pavullo nel Frignano solo perché lì c’era l’ospedale più vicino, non deve importare molto della temperatura di questa sua rivalsa nei confronti di chi in lui aveva creduto in estate per poi ricredersi in inverno.
«Tre», come i gol segnati in campionato nel semestre genoano e come il voto per questo datogli dal presidente Preziosi, adesso diventeranno semplicemente parte integrante del risultato maturato nell’ultimo mezzogiorno calcistico: Juventus-Genoa 3-2. Eppure era stato proprio Enrico Preziosi a «fare una pazzia» per Toni in luglio, quando pur di strapparlo alla nutrita concorrenza gli aveva offerto un biennale da quattro milioni a stagione più uno di bonus. Il calciatore, dal canto suo, gongolava per la fiducia concessagli dopo la traumatica conclusione del rapporto con il Bayern Monaco di van Gaal (a spasso dopo l’1-1 con il Norimberga) ed uno scudetto sfiorato con la Roma: e via di promesse, da quella di puntare il quarto posto all’augurio alle ali di vivere la miglior stagione della carriera. Tra un complimento ai compagni, le coccole dei tifosi ed un elogio alla società, però, è arrivato il momento di incominciare il campionato.

Pareva giunto il momento, per Toni, di far ricredere i molti scettici: un contratto simile per un trentatreenne sembrava uno sproposito – difficile dal torto a chi la pensa così – ed il primo gol dopo tre giornate arrivava su rigore. Poi, contro il Bari, al quinto minuto di recupero ecco l’incornata del 2-1: era l’inizio di ottobre, il gigante pareva essersi svegliato. Invece il letargo è continuato, almeno in Serie A, perché in Coppa Italia sono arrivate due doppiette contro Vicenza e Grosseto, prima dell’ultima marcatura in rossoblu (Lecce-Genoa 1-3, quindicesima giornata) e le parole di fuoco di Preziosi. Quindi l’infortunio di Quagliarella e l’approdo di Toni alla corte di Delneri: sarà forse stato il tecnico friulano a fargli dimenticare il primo periodo dell’articolo?

Antonio Giusto

lunedì 4 aprile 2011

La primavera di Bertolacci

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Nonostante la maniche lunghe sfoggiate dal protagonista, siamo ormai in primavera. Ed in questo periodo dell’anno, mentre la natura si risveglia ed il sole splende gioioso, sui campi di calcio ci si improvvisa tutti matematici alle prese con calcoli minuziosi e frasi di circostanza: perché «ci sono da giocare sette finali» e «da qui alla fine può succedere di tutto». Poi arriva Andrea Bertolacci da Roma, con addosso la maglia giallorossa del Lecce (52 gol subiti, peggior difesa) e contro l’Udinese (miglior attacco alla pari con l’Inter, a segno 56 volte) firma la prima doppietta di una sin qui brevissima carriera fissando il risultato sul 2-0, tanto inaspettato quanto giusto.
Due gol e tre punti in ballo, eppure a questa partita erano legati i destini di alta e bassa classifica. Perché Brescia e Cesena, nonostante i quattro – comunque preziosissimi – punti complessivi racimolati nel fine settimana, si ritrovano a far compagnia al Bari sul treno per la B, e l’Udinese è passata in fretta dal sogno di fiatare sul collo dell’Inter all’incubo di vedersi raggiunta o scavalcata tra sette giorni da una tra Lazio e Roma, con Bertolacci affascinato dalla seconda ipotesi.
Cresciuto a Spinaceto, nei pressi dell’Eur, è un romano e romanista dal gennaio 2010 in Salento per farsi le ossa. Con la «Maggica», ché per la gente con quei colori nel cuore è davvero così, gli inizi però erano parsi tutt’altro che convincenti: con Scudieri, alla guida dei ’91 giallorossi dal 2003 al 2006, solo panchina. O quasi, perché quando riusciva a metter piede in campo Bertolacci dimostrava il proprio valore, pienamente riconosciuto dal successore di Scudieri, Andrea Stramaccioni, che avanza Petrucci e dà fiducia a Bertolacci. Che la ripaga, fino a guadagnarsi la fascia di capitano della Roma Primavera nel 2010, prima di fare rotta verso Lecce per assaggiare il calcio dei grandi. E, per dimostrare il proprio coraggio, ecco il 10 sulle spalle, saggiamente ceduto a Rubén Olivera dopo la promozione in A.
Insomma, ambizione e gol, con i piedi ben fissi per terra. C’è chi l’ha paragonato a Cambiasso (mancini entrambi) e chi a Ledesma, come il vice di De Canio Roberto Rizzo, ma per lui l’esempio da seguire rimane De Rossi: Daniele, specifichiamo, perché da suo padre Alberto è stato allenato ai tempi della Primavera.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

mercoledì 23 marzo 2011

Morgan De Sanctis, il Napoli ha un filosofo

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L’azzurro, per Morgan De Sanctis, è di due diverse tonalità. Perché tra l’«azzurro Napoli» e l’«azzurro Italia» c’è di mezzo la carta d’identità, chiarissima alla voce «nato il»: 26 marzo 1977, domenica prossima parerà da trentaquattrenne. Prandelli è stato categorico, punterà sui giovani e quindi spazio a Sirigu e Viviano, ma De Sanctis la prende con filosofia – ovvio: dopo la maturità scientifica s’iscrisse a Chieti per approfondire la conoscenza di Platone e Nietzsche – e si concentra sul suo Napoli, che domenica sera gli ha regalato l’ennesima gioia: Cagliari battuto, così come il record d’imbattibilità casalinga del «Giaguaro» Luciano Castellini (763 minuti nel campionato ’81-82). Per Morgan 799′ senza prendere gol tra i pali del San Paolo, dal 27 novembre scorso (4-1 al Bologna, in rete Meggiorini) alla segnatura di Acquafresca, senza contare le partite concluse a reti inviolate in Europa League e Coppa Italia.
Bell’impresa, ma Slovenia-Italia la seguirà in poltrona. Non una novità per l’estremo difensore, il cui rapporto con la Nazionale è sempre stato complesso nonostante un rendimento con pochi eguali in Serie A. Mai preso in considerazione da Trapattoni, l’esordio è arrivato a 28 anni contro l’Islanda, il 30 marzo 2005. Sulla panchina azzurra sedeva Lippi, cui De Sanctis deve l’esordio in A: Juventus-Lazio 0-1, 6 dicembre 1998, Peruzzi e Rampulla infortunati ed il tecnico viareggino regala al portiere della Primavera juventina la prima presenza nella massima serie.
Dalla Primavera alla prima squadra, un tragitto tortuoso già affrontato dal portiere di Guardiagrele quando vestiva la maglia del Pescara, dove era arrivato dopo che mamma Sara aveva rifiutato un’offerta del Vicenza perché troppo lontano da casa. Scelta azzeccata, dato che a 17 anni e 213 giorni, il più giovane nella storia della cadetteria tra chi indossa i guantoni, Morgan debutta in B sostituendo Gianpaolo Spagnulo. Che, infortunato come il collega Nello Cusin, lascia spazio a questo ragazzo impertinente anche la domenica successiva contro il Venezia, ed ecco che il portierino – per l’età, non per il fisico – para un rigore a Bobo Vieri e col pallone ancora tra le mani va a gridargli: «Se ne tiri altri dieci te li paro tutti!». Conquistato il posto in squadra e la fiducia dell’allenatore Rumignani, perde entrambi all’indomani di un 1-4 con la Salernitana datato 27 novembre. Poi sulla panchina del Pescara si siede Francesco Oddo, padre del Massimo in forza al Milan, che dà a De Sanctis la fiducia necessaria per esplodere: altri due campionati al Pescara, poi la Juve sgancia 10 miliardi per assicurarselo, quindi Udinese, l’esilio volontario in Spagna e Turchia ed il ritorno in Italia con la maglia del Napoli. Colorata dell’azzurro che più piace a Morgan De Sanctis, anche se un Francesco Oddo sulla panchina dell’Italia gli avrebbe fatto davvero molto piacere.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

giovedì 17 marzo 2011

Parola di Marco Parolo

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Dev’essere un ingordo, Marco Parolo. La sua ingordigia, però, è pienamente giustificata, perché dopo il duro pane della Serie C, mangiato per tanti – troppi – anni, in due stagioni ha sbranato la B ed azzannato la A. Cesare Prandelli, che il sabato sera l’ha trascorso al «Manuzzi» per decidere se offrirgli la maglia azzurra come dessert, credo abbia optato per il sì: dopotutto, c’è passato anche lui per la terza serie, anche se con trent’anni d’anticipo, quando indossava la maglia della Cremonese.
Marco Parolo è nato a Gallarate, come Ivan Basso. In comune, la passione per la bici, che al centrocampista del Cesena è stata trasmessa dal papà: entrambi ottimi scalatori. Ivan di montagne, Marco di classifiche. Perché quest’anno il Cesena sogna la salvezza, e se il campionato finisse oggi ci sarebbe anche riuscito, ma accadeva lo stesso un anno fa ed il cavalluccio marino bianconero da neopromosso in B spinse così tanto sui pedali da guadagnarsi la massima serie. In volata con il Brescia, ovviamente, decise Parolo: una sua rete, contro il Piacenza di Ficcadenti all’ultima giornata, regalò un’inaspettata promozione al Cesena.
Di gol l’anno scorso ne segnò altri quattro, due dei quali contro il Piacenza nella gara d’andata. Quest’anno, invece, l’ha messa dentro contro Napoli, Lazio, Sampdoria e Juventus, perché il blasone dell’avversario è un incentivo ad infilare il portiere. Per essere un centrocampista gli riesce parecchio bene, ed il ringraziamento in questo caso va a Stefano Borgonovo, che oggi lotta con la SLA, ma fino a qualche anno fa cercava d’insegnare ai ragazzini del Como come fregare il difensore e buttarla in porta. Parolo, da buono studente qual è stato (maturità scientifica conseguita presso il «Leonardo Da Vinci» di Gallarate) assimilava tutto alla perfezione.
Per metterlo in pratica c’era la prima squadra, nel 2004: colando a picco verso il fallimento, lo spazio per i giovani abbondava. Bravo nel cogliere l’opportunità, per Parolo quell’anno tre gol e tante buone cose, che gli valsero il passaggio alla Pistoiese – che non voleva più trovarselo contro: dei tre gol segnati l’anno prima, due erano arrivati contro gli arancioni. Due stagioni a Pistoia, quindi il Foligno e l’incontro con Bisoli, ritrovato a Cesena dopo un settimo posto con il Verona in quella che nel frattempo aveva cambiato nome in Lega Pro.
Dei giorni in bianconero ho già detto, ora tocca all’azzurro della Nazionale: questo paragrafo, però, deve scriverlo il protagonista, Marco Parolo.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

mercoledì 9 marzo 2011

La svolta di Massimo Volta

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Dimenticare è la parola d’ordine in casa Sampdoria. Dimenticare la sconfitta con il Cesena, l’esonero di Mimmo Di Carlo, le contestazioni nei confronti di Garrone, i gol dell’ex coppia più bella d’Italia Cassano-Pazzini. Dimenticare tutto, e concentrarsi sulle ultime dieci partite, da affrontare con Cavasin in panchina. Ma siamo sicuri che si tratti di un’impresa realizzabile? Per un giocatore almeno, per Massimo Volta da Desenzano del Garda, sarà impossibile dimenticare tutto: la sconfitta con il Cesena la porterà sempre con sé. Perché il primo gol in A non si scorda mai, soprattutto se arriva contro la squadra che finora ti ha regalato le emozioni più forti della tua pur breve carriera.
Breve, ma intensa. Perché da quando ha assaggiato il calcio nel settembre 2006 (Carpenedolo-Sanremese 1-1) è venuto a contatto con ogni tipo di realtà presente nel panorama italiano. Dalla C2 con i rossoneri del Carpenedolo, dove ha incominciato da bambino, alla Champions League con la Sampdoria, che ne ha rilevato metà del cartellino nel gennaio del 2007. In mezzo l’avventura a Foligno, con Bisoli – poi ritrovato a Cesena – in panchina ed un sogno chiamato Serie B svanito ai play-off contro il Cittadella. In cadetteria Volta ci arriva comunque, con la maglia del Vicenza.

L’anno dopo, che poi sarebbe l’anno scorso, ecco il Cesena: una neopromossa che punta a far bene, e fa benissimo. Promozione, diretta, senza passare per l’inferno dei play-off, e Max protagonista assoluto della stagione: 38 presenze, ed un gol. Contro il Brescia, di cui da bambino ammirava Baggio mentre – in veste di raccattapalle – assisteva alla partita e cui aveva segnato anche con la maglia del Vicenza. A fine stagione viene anche nominato miglior difensore centrale del campionato, e parte per una meritata vacanza ad Ibiza sognando la Samp e la Champions League.
Il sogno si avvera, perché al Weserstadion di Brema è in campo, anche se nell’inedita o quasi posizione di terzino destro. Vincono 3-1 i tedeschi, ma lui non sfigura: prende un giallo in apertura, ma poi si rimette in carreggiata e conclude l’incontro in crescendo. Inaspettatamente, dice qualcuno, perché Volta non ha ancora assaggiato la Serie A, con cui fa conoscenza in casa della Juventus alla seconda giornata.
Massimo, che ormai è un habitué della massima serie, di cui non perde una partita dal 16 gennaio (da allora sempre in campo) si è dato anche all’attacco: contro il Cesena un gol, con la complicità di Antonioli, e rigore procurato. La speranza di Cavasin, a questo punto, è che Volta sia l’uomo della svolta.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 1 marzo 2011

Le capriole di Oba Oba Martins

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Febbraio non è ancora terminato, eppure in Inghilterra è già stato assegnato il primo trofeo dell’anno. La League Cup, finita sorprendentemente nella bacheca del Birmingham City, che in campionato lotta per salvarsi, ma a Wembley, davanti ad 88,851 spettatori, è riuscito nell’impresa di negare all’Arsenal il primo successo dall’ormai calcisticamente lontanissimo 2005 (era il 21 maggio, FA Cup vinta ai rigori contro il Manchester United).

Sull’1-1 dopo 89 minuti di gioco, gol di Žigić e van Persie, ecco la clamorosa incomprensione tra Koscielny e Szczęsny, che si scontrano: pallone a zonzo per l’area di rigore e la porta sguarnita. Ad approfittarne è Obafemi Martins, vecchia conoscenza del calcio italiano, che insacca col sinistro e si produce nella classica serie di capriole.
Qui le abbiamo viste tante volte, da quando, nel settembre del 2000, «Oba Oba» è sbarcato in Italia su consiglio di Churchill Oliseh, fratello di Sunday (in Italia con le maglie di Juventus e Reggiana) e padre adottivo del centrocampista del CSKA Mosca Sekou. Churchill, che al tempo gestiva una scuola calcio con sede a Lagos (dove Martins è nato il 28 ottobre 1984) lo nota in strada e gli propone di unirsi alla sua squadra, affiliata alla Reggiana: che occhio! Obafemi mette in luce le proprie doti di velocista e goleador, e così a Reggio Emilia rimane solo qualche mese, perché l’Inter punta su di lui e sgancia 750 mila euro pur di vincere la concorrenza del Perugia di Gaucci. Soldi ben spesi, lo si capisce sin dall’inizio della sua avventura in nerazurro: la prima stagione, 2001-02, si conclude con la doppietta Scudetto Primavera-Coppa Carnevale, e Oba segna 23 gol.
Cúper, l’hombre vertical, gli fa assaggiare la prima squadra in precampionato, e – complice un’incredibile serie d’infortuni – si ritrova a puntare su di lui per accedere ai quarti di Champions League. In coppia d’attacco con Morfeo, alla BayArena di Leverkusen contro i vicecampioni d’Europa, infila Butt, si sfila la maglia e si cimenta in una serie di cinque capriole che mandano in visibilio il pubblico nerazzurro. Ha diciott’anni, Moratti lo considera l’Owen nerazzurro, e c’è chi è pronto a giurare che questo nigeriano esplosivo valga più di Rooney, al tempo promessa (lui sì, mantenuta) dell’Everton.
Oba, però, non riuscirà mai a compiere il decisivo salto di qualità. L’arrivo di Ibrahimović lo spinge al Newcastle, poi Wolfsburg e Rubin Kazan. In Russia delude, il Birmingham City lo ottiene in prestito in gennaio e lui ringrazia così, regalando ai «bluenoses», i tifosi del Birmingham, il secondo trofeo della storia.

Antonio Giusto

martedì 22 febbraio 2011

Paloschi il predestinato

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Tema caldo del giorno, l’atterraggio dell’«Aeroplanino» Montella sulla panchina della Roma. Ranieri, dopo quattro sconfitte consecutive, ha detto basta: la cocente rimonta subita contro il Genoa lo ha convinto a dimettersi. Un partita strana, stranissima, quella di Marassi, che ha sancito la conclusione dell’avventura – a tratti splendida – di Ranieri a Trigoria, ma ha pure visto il ritorno al gol di Alberto Paloschi. Che forse si sentirà un briciolo in colpa, però dopo aver trascorso il 2010 in infermeria più che in campo (colpa della crescita, 5 centimetri guadagnati fanno male sia ai portieri che alle giunture) sentiva il bisogno di buttarla dentro di nuovo. Per recuperare il tempo perso, poi, ha voluto strafare, siglando la prima doppietta in Serie A.
Che difficilmente scorderà: ha buona memoria, anzi ottima, al punto da ricordarsi persino la prima partita giocata. Bonate Sotto-Cividatese 10-0, lui aveva sei anni ma quella batosta non l’ha dimenticata. E, nel caso in cui la memoria dovesse fare cilecca, ecco pronto un altro rimedio: un tatuaggio, indelebile, in modo da prevenire qualsiasi amnesia. Sul bicipite sinistro il numero 17, in cinese, perché nella prima amichevole con il Milan lo aveva sulle spalle, poi tre stelle sulla pancia, a simboleggiare la tripletta rifilata al Genoa nella finale del campionato Allievi 2006-07.
Al tempo, Paloschi aveva appena 17 anni. Nato a Chiari il 4 gennaio 1990 e cresciuto a Cividate al Piano, qualche chilometro più ad ovest, il suo futuro era nel segno del gol. Eppure aveva iniziato all’ala, salvo poi essere convertito da uno dei suoi primi allenatori, Belloli, in centravanti. Gol a grappoli, ma l’Atalanta lo scarta. Il Milan no: ad undici anni supera un provino con i rossoneri, e la settimana dopo gioca contro il Piacenza segnando due reti.
Il gol all’esordio, piacevole consuetudine per Paloschi, che si ripete con la prima squadra: Coppa Italia, contro il Catania, e pallone in rete sul finire del 2007.
Anno nuovo, e replica sempre contro il Catania, sempre in Coppa Italia, ma la grande occasione arriva mentre Paloschi è impegnato con la Primavera in Coppa Carnevale, a Viareggio. Assieme a Davide Ancelotti, figlio di Carlo e suo compagno di stanza, sta seguendo Fiorentina-Milan: Gilardino viene ammonito e squalificato perché sotto diffida, Pato segna ma poi la caviglia sinistra fa crac, ed ecco la profezia del più giovane degli Ancelotti: «Vedrai, Alberto che papà ti chiama». Detto, fatto: Ancelotti senior convoca Paloschi e, contro il Siena, lo butta nella mischia al 18′ della ripresa, rassicurandolo: «Adesso entri e segni». Dote di famiglia, quella degli Ancelotti, di prevedere il futuro, perché dopo 18 secondi il pallone è in rete, e Paloschi festeggia il primo gol in A.
Tra il primo gol e la prima doppietta tre anni, per farne tre in una volta sola si augura di non dover aspettare così tanto. Crescita permettendo, l’impressione è che ci riuscirà.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 15 febbraio 2011

10 e Lodi

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Il numero dieci bianco in campo azzurro fa bella mostra di sé sulle spalle di Francesco Lodi, quando il fantasista napoletano si presenta al limite dell’area di rigore del Lecce per la battuta di un calcio di punizione. Tre passi, quanto basta per imprimere al pallone l’effetto desiderato e gonfiare la rete. Il pareggio, però, non basta, e cinque minuti più tardi c’è il replay: punizione dal limite, tre passi, tiro e corsa a perdifiato. Un sinistro talmente educato, quello di Ciccio Lodi, che se potesse chiederebbe scusa ai portieri dopo averli trafitti. Eppure, con questa doppietta al Lecce, è giunto a quota 3 gol in Serie A.

Storia di una promessa non mantenuta. Ultimo di otto fratelli, cresciuto inseguendo un pallone tra i mille vicoli di Napoli: era andato via di casa sognando di emulare Maradona ad appena 11 anni, destinazione Empoli. Accompagnato dal fratello Salvatore, che all’epoca faceva l’autista dal presidente Corsi ed assieme al quale gestisce oggi una scuola calcio a Frattamaggiore, si trasferisce in Toscana ed inizia a stupire. A quindici anni Rocca lo convoca in Under 17, onore concesso in precedenza solo a fuoriclasse come Totti e Pirlo, ed il 3 settembre 2000 esordisce in Serie B: prima giornata, complici le assenze di Maccarone e Di Natale l’allenatore Baldini lo butta nella mischia ad inizio ripresa al posto di Budan.
Le attenzioni nei suoi confronti si moltiplicano, chiedono informazioni su di lui Juventus e Milan, ma Lodi ed il suo sinistro scelgono di continuare con l’azzurro, Empoli o Nazionale che sia. Il mancino continua ad incantare, e poco importa se il destro gli serve solo per scendere dal letto: le ore trascorse con il piede «buono» legato alla rete di recinzione del campo dell’Oasis Club di Frattamaggiore (dove Lodi ha iniziato) nella speranza – vana – di migliorare il destro sono servite a poco. Intanto vince l’Europeo con l’Under 19 nel 2003, ed esordisce in A contro la Sampdoria nello stesso anno. Il calcio ormai è una professione, lautamente retribuita, e con i primi guadagni Francesco regala al padre la macchina dei suoi sogni: un modo per sdebitarsi, visti i tanti sacrifici fatti dal genitore che – pur di portare il pane in tavola – era arrivato a contrabbandare sigarette.
Con 6 gol in 27 partite contribuisce alla promozione dell’Empoli in Serie A nel 2005, ma nella massima serie non riesce ad imporsi. Pur di trovare spazio, accetta il prestito a Frosinone, dove segna 31 gol in due anni. Torna ad Empoli, ma si arrende al Brescia nei play-off, quindi l’Udinese in Serie A ed il mesto ritorno a Frosinone. Dal 31 gennaio il Catania, con la speranza di recuperare il tempo perduto. Magari a partire da domenica prossima, quando gli etnei saranno di scena al San Paolo di Napoli, lo stadio dei sogni di Francesco Lodi.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

mercoledì 9 febbraio 2011

Alessandro Matri: 10 giorni che valgono una carriera



30 gennaio: Alessandro Matri castiga il Bari con una doppietta, regalando tre punti al suo Cagliari. Il 31 gennaio firma con la Juventus, due giorni dopo scende in campo contro il Palermo, numero 32 sulle spalle e una gran voglia di spaccare tutto. Il pallone non entra, pazienza, perché sabato 5 febbraio torna al Sant’Elia e rifila due gol a quella che meno di una settimana prima era la sua squadra.

Neppure il tempo di ammirarsi sulle prime pagine dei quotidiani sportivi, ed ecco la chiamata di Prandelli: contro la Germania, al Westfalenstadion di Dortmund, ci sarà anche lui. Che ormai quasi cinque anni fa era incollato al teleschermo mentre Grosso scaricava in rete l’orgoglio dei futuri campioni del mondo e Del Piero arrotondava il risultato, magnificamente servito da Gilardino. Oggi con Grosso e Del Piero condivide lo spogliatoio, mentre a Gilardino – giudicato fuori forma dal cittì – ha soffiato il posto in azzurro.

Tutto questo in dieci giorni, senza dubbio i più intensi della carriera calcistica di Matri. Centravanti azzurro fresco di Matrimonio con la Vecchia Signora, sul campo di pallone ci si è ritrovato per caso, grazie ad una caduta dalla bicicletta. Dagli 8 ai 10 anni, infatti, corre in bici e non dietro una palla di cuoio: una trentina di corse nel Pedale Graffignanino, presieduto dal padre Luigi, con ben dieci vittorie.

Una brutta caduta, però, spinge il piccolo Alessandro ad optare per il calcio, ed è la Virtus Don Bosco di Graffignana a beneficiare dei suoi gol. Ne segna tanti, ed un dirigente del Fanfulla lo convince a cambiar maglia. La grande occasione arriva poco dopo, quando Ruben Buriani (146 presenze e 13 gol con la maglia del Milan) lo scova sui campetti della provincia di Lodi e lo veste di rossonero. Stringe un patto col Diavolo ad 11 anni, e si toglie anche la soddisfazione di esordire in prima squadra: è il 24 maggio 2003, i titolari vanno preservati in vista dell’imminente finale di Champions League contro la Juventus, e così Carlo Ancelotti punta sui componenti della Primavera. 71 minuti appena, e via a cercare gol e gloria in provincia: Prato, Lumezzane, Rimini. Gol tanti, ma gloria poca, almeno fino a dieci giorni fa.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

giovedì 3 febbraio 2011

Napoli, zitto e Mosca



Come Del Piero, ma col piede sinistro. Davide Moscardelli offre un indigesto babà al Napoli: il suo stupendo gol, sommato all’altrettanto bella segnatura di Sardo, interrompe la corsa di un Napoli lanciato all’inseguimento del Milan. Mentre il capocannoniere del campionato Cavani rimane a secco, lui raggiunge quota cinque gol. E che gol. Gli basta un quarto d’ora per segnare il primo, contro il Catania: debuttante nella massima serie a trent’anni compiuti, ma con la voglia di un ragazzino. Infatti dopo una settimana si ripete, contro il Genoa a Marassi, dando il via alla rimonta che permetterà ai «Mussi» di volare in cima alla classifica. Poi una pausa, più che un digiuno, ed il fragoroso ritorno al gol contro l’Inter campione di tutto: rimpiazza Pellissier al 24′ del secondo tempo e sigla il 2-0 che manda al tappeto i nerazzurri.

Moscardelli, tornato ad esultare dopo oltre due mesi, ha una fame da lupi. Anzi, da Lupa. Sulla «spiaggia» del Bentegodi divora anche la Roma, insaccando il pallone dell’1-2 (finirà 2-2). Poi si porta le mani al volto e fa mestamente ritorno verso il centro del campo: sa di averla fatta grossa.

Nato a Mons, in Belgio, il 3 febbraio 1980, Davide Moscardelli è cresciuto a Tor de’ Cenci come uomo e nelle giovanili della Roma come calciatore. Svezzato da Bruno Conti, la cui partita d’addio vide un piccolo Moscardelli per la prima volta sugli spalti dell’Olimpico, fu costretto a lasciare Trigoria perché giudicato troppo gracile. Lui non demorde, e nel 1997 inizia la scalata verso il calcio che conta da Maccarese, frazione di Fiumicino, la cui squadra milita nel Girone A della Promozione Laziale. Moscardelli è praticamente un bambino, ed i suoi due gol (in 13 partite) non bastano per evitare la retrocessione della squadra, ripescata però al termine del campionato. Due anni più tardi la Maccarese arriva seconda in campionato, alle spalle del Tanas Casalotti, e si guadagna un posto in Eccellenza. Per Moscardelli ci sono otto gol in 31 partite, e la chiamata dell’ambizioso Guidonia, che domina il campionato ma rischia di veder sfumare una promozione acquisita sul campo proprio a causa del neoacquisto, in campo per 14 partite pur dovendo ancora scontare una squalifica risalente alla precedente stagione: penalizzati di 14 punti, poi ridotti a 10, i giallorossi si ritrovano a disputare i play-off nazionali. Sentendosi responsabile dell’accaduto, Moscardelli si fa perdonare segnando una doppietta in finale contro gli umbri del Deruta, raggiungendo quota 22 gol e attirando su di sé l’attenzione di diversi club professionistici. La spunta la Sangiovannese, e Moscardelli ripaga la fiducia riposta in lui segnando 15 volte nel girone B della C2 2002-03. Altro doppio salto di categoria, e Serie B con le maglie di Triestina, Rimini, Cesena e Piacenza, dove arriva per espressa volontà di Pioli che – evidentemente soddisfatto del suo rendimento – lo richiede anche quando siede sulla panchina del Chievo.

Adesso Moscardelli corona il sogno di affrontare la «sua» Roma, punisce l’Inter pigliatutto e sgambetta un Napoli che insegue lo scudetto, godendosi un meritatissimo premio dopo anni ed anni di dura gavetta.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 1 febbraio 2011

Pazzo Inter amalo



Cosa potrà mai venir fuori dall’incontro tra un Pazzo (Giampaolo Pazzini) e la Pazza (Inter) se non una pazza partita? Palermo in doppio vantaggio a San Siro con Miccoli e Nocerino, poi Giampaolo Pazzini da Pescia (in provincia di Pistoia, dov’è nato il 2 agosto 1984) indossa la maglia numero 7 ed entra in campo. Rizzoli fischia l’inizio della ripresa, lui va a posizionarsi al centro dell’area di rigore e dopo 11 minuti riceve spalle alla porta, si gira ed infila Sirigu: 1-2. 73′ sul cronometro, e Pazzini incorna sul primo palo: parità, e pensare che Pastore si è appena fatto parare un rigore da Júlio César. Il 3-2, risultato da manicomio, lo firma Eto’o su rigore, procurato dall’incontenibile Pazzini. Chiamate la neuro!

Eppure Giampaolo Pazzini, cui quel soprannome è stato affibbiato per pura assonanza, è tutto fuorché pazzo. Posato, in campo e fuori, il suo nome compare più spesso nei tabellini alla voce «marcatori» che sui giornali di gossip, e le «cassanate» le ha sempre lasciate al suo – ormai ex – partner d’attacco in blucerchiato. Entrambi si ritrovano ora a Milano, su sponde opposte però: Cassano ha scelto il Milan, mentre Pazzini è tornato ad abbinare nero ed azzurro, come accadeva negli esordi atalantini. Da Monsummano Terme, e dal Margine Coperta, sua prima squadra, spicca il volo verso Bergamo a quattordici anni, con la benedizione di papà Romano (27 gol in C con la Pistoiese nel ’58-59) e mamma Manuela, fiduciosi che il minore dei tre fratelli Pazzini possa ripercorrere le orme del primogenito Patrizio, anche lui protagonista in C nei primi anni novanta con Poggibonsi e Siracusa.

Giampaolo, che concilia calcio e studio con ottimi risultati, al punto da diplomarsi in ragioneria con 96, assaggia anche l’azzurro, dimostrando subito una certa avversione nei confronti degli inglesi: il 22 aprile 2001, Europeo Under 16 disputato proprio in terra d’Albione, segna una doppietta contro i padroni di casa a Bramall Lane, casa dello Sheffield United. Prove generali di quanto accadrà sei anni più tardi, il 24 marzo 2007, quando Pazzini segna una tripletta nel nuovo Wembley con la maglia dell’Under 21 azzurra, marcando la prima rete dopo appena 28 secondi.

Tra questi due avvenimenti, quasi sei anni di tempo. Nel mezzo, la vittoria nell’Europeo Under 19 del 2003 (di quella squadra, allenata da Berrettini, facevano parte anche Chiellini e Aquilani), l’esordio con l’Atalanta (7 settembre 2003, Atalanta-Venezia 0-0), il primo gol tra i professionisti (contro l’Albinoleffe, nel derby bergamasco, a una settimana dal debutto), la promozione in Serie A, la Fiorentina nel gennaio 2005, la panchina dietro Toni e Gilardino, la Sampdoria (ancora a gennaio, nel 2009) e gli assist di Cassano, l’esordio con gol in Nazionale (28 marzo 2009, contro il Montenegro), i deludenti Mondiali sudafricani e la cocente esclusione dalla Champions League patita sul finire dell’estate. Ora c’è l’Inter, punto d’arrivo e di partenza: Pazzini vuole far impazzire di gioia i suoi nuovi tifosi, e se il buongiorno si vede dal mattino c’è da giurare che le cliniche psichiatriche milanesi faranno affari d’oro.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it