venerdì 9 novembre 2012

Sneijder e i colleghi calciaTwitter

 

Wesley Sneijder non cinguetta più: l'ha deciso l'Inter. Così scrive la sua consorte, Yolanthe, ovviamente su Twitter. Pare che la società non gradisca i tweet riguardanti ciò che avviene in campo, lontano dalle telecamere, e per questo ha impedito ai propri tesserati - non solo l'olandese, stessa sorte anche per Alvarez e Guarin - di esternare pensieri vari riguardante l'ambiente nerazzurro sul popolare social network.

Siam sicuri che Sneijder, anziché lamentarsi, non farebbe meglio a ringraziare la società? Di multe e squalifiche nate sul web ce n'è una al giorno, ed il rischio che Wesley (durante la cui assenza l'Inter ha infilato 10 vittorie consecutive) fosse il prossimo era concreto. Fortunatamente per il calciatore, non sarà così, ma di colleghi più o meno illustri finiti nei guai a causa di Twitter ce ne sono parecchi. Di seguito, un paio di casi curiosi.

Iniesta, Villa, Puyol, Valdes e Arbeloa
I cinque spagnoli, campioni d'Europa-del Mondo-d'Europa, a metà ottobre sono finiti nei guai per pubblicità occulta: han pubblicizzato una nota birra spagnola, ricavando una cifra indefinita tra i 3 ed i 20mila euro per cinguettio.

Macheda
L'ex laziale, in marzo, si è buscato una multa da 15mila sterline per commenti omofobi su Twitter, destinati ad uno sgradito interlocutore accusato di essere uno «stupid gay». Linea difensiva adottata: «Volevo scrivere "guy" (ragazzo)».

Antonio Giusto 

Fonte: Calcissimo

martedì 6 novembre 2012

I peggiori acquisti del Brasileirão: quanti «italiani»

 

Placar, popolare mensile brasiliano gravitante attorno al futebol, lancia in queste ore un sondaggio in cui nessuno vorrebbe primeggiare: quello di peggior acquisto del Brasileirão che va concludendosi.

Tra i candidati, tre volti noti del calcio italiano: il favoritissimo Adriano, reduce dall'ennesima bravata ed ora intenzionato a tornare in campo nel 2013, quel Mancini che trasferendosi da Roma a Milano ha smesso di vincere in campo per iniziare a farlo in panchina, come l'omonimo allenatore ed oggi fa disperare i tifosi del Bahia, e Juan. Sì, anche l'ex difensore della Roma compare nella lista dei votabili, a causa dello scarso rendimento tenuto nei primi mesi all'Internacional.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

Russia: nuove leggi contro le partite truccate

 

Un'estate segnata dal calcioscommesse, quella italiana. Da noi, c'è chi ancora mugugna, in Russia invece si son dati da fare inasprendo le pene per tale genere di reati: fino a 7 anni di reclusione, che non son bruscolini, e pene pecuniarie che potranno ammontare sino ad un milione di rubli (24 mila euro, circa).

Le nuove norme, asserisce Vitaly Mutko - odierno ministro dello sport russo - dovrebbero entrare in vigore entro la fine del 2012. Il fenomeno delle partite truccate, con risultati e marcatori decisi a tavolino, non si estinguerà di certo in questa maniera. Ma - almeno spero - i colpevoli pagheranno quanto devono.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

mercoledì 17 ottobre 2012

Editoriale - Pirlo affresca, l'Italia gioisce. Col dubbio-Cassano

 

Un paio di minuti in meno, per la precisione quelli consecutivi seppure separati da un quarto d'ora d'intervallo, e si sarebbe trattato di una passeggiata: nessun gol di Kvist, e Italia in undici uomini per l'intero incontro, anziché per appena metà di esso. Del 3-1 finale, però, non ci si può lamentare affatto.

L'uomo del giorno, più del Balotelli che - tacco prima, punta poi - illumina la scena, o del Montolivo a segno con un tiro esemplare per preparazione e successiva esecuzione, si chiama - a mio avviso - Andrea. Pirlo, che contro la Danimarca è stato michelangiolesco: San Siro è la sua personalissima Cappella Sistina, cui stasera ha regalato un altro paio di pennellate (De Rossi e Balotelli ringraziano) dopo le mille e più stese con indosso la maglia del Milan, più che con quella dell'Inter che per prima la sfoggiò sul più celebre prato meneghino.

Considerazioni su Osvaldo: sei partite ed altrettanti gol in questa stagione, tre in azzurro e tre in giallorosso. Ma anche due cartellini rossi, roba che neppure il peggior Montero. Oggi s'è fatto buttar fuori per un'inutile manata, appena rientrato in campo dagli spogliatoi: follia! Se Zeman l'ha portato con sé in panchina contro l'Atalanta, un motivo dovrà pur esserci.

Tatticamente, bene, ma non benone: troppa Danimarca in avvio. Nulla di esclatante, ma fino al gol di Montolivo ci han dato fastidio. Poi, complice il raddoppio, gli abbiamo lasciato il pallino del gioco: rete di Kvist a parte, i danesi sono andati in clamorosa difficoltà quand'è stato il loro turno di far gioco. Prevedibile. Così come le reazioni piccate di qualcuno alle parole di Cassano, ma è un classico, e non voglio certo parlare di questo. Di Cassano, mi perplime l'astinenza dall'azzurro: non certo una novità, anche in periodi di gran forma per lui, ma di certo un inedito prandelliano, con nel barese ha creduto sempre, andando spesso controcorrente. Eppure oggi, dopo quattro gol e due assist in un avvio di campionato mai così positivo, Totò l'Italia è costretto a gardarla in televisione.
   
Antonio Giusto 
 
Fonte: Calcissimo 

venerdì 12 ottobre 2012

Dal Portogallo: Jesé Rodríguez nel mirino dell'Inter

 

Milito, Palacio, Cassano, Coutinho e Livaja, eppure l'Inter - dicono i portoghesi di «A Bola» - pare intenzionata a rimpinguare il parco attaccanti a gennaio. Jesé Rodríguez, accostato anche al Benfica, è il nome caldo: non lo conoscente? Comprensibile: nemmeno vent'anni (li compirà il 26 febbraio) ed un quarto d'ora appena nel Real Madrid di Mourinho. In compenso, siamo già a sei gol in otto partite in Segunda División: con il Castilla l'anno passato ne segnò 10, in 39 apparizioni però.

C'è chi lo paragona a Cristiano Ronaldo per movenze e ruolo: sicuri che Mourinho se lo lasci soffiare dal suo ex presidente?

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

Davids torna in pista: allenatore-giocatore del Barnet

 

Edgar Davids, «il pitbull», non smette di ringhiare. Ad un paso dagli «anta» - il 13 marzo 2013 è dietro l'angolo - il mediano olandese torna in pista, in League Two, con il Barnet: affiancherà Mark Robson in panchina, pur continuando a dare il proprio, prezioso contributo in mezzo al campo.

Per Davids, leggenda juventina svezzata dall'Ajax, si tratta della prima esperienza da allenatore.
Antonio Giusto 
Fonte: Calcissimo

sabato 22 settembre 2012

Schalke 04 - Bayern Monaco 0-2: Müller incanta

 
 
Entrambe reduci da un successo in Champions League, 2-1 lo Schalke in casa dell'Olympiacos martedì, 2-1 il Bayern Monaco in casa propria contro il Valencia il giorno dopo, le due squadre - entrambe sin qui imbattute in Bundesliga - si affrontano a  Gelsenkirchen in un incontro valevole per la quarta giornata di campionato.

PARTITA Il primo tempo scivola via placidamente, con le due squadre che si rimbalzano il pallino del gioco, senza però concludere alcunché. L'unica occasione degna di nota è quella creta da Farfán: al trentacinquesimo si libera in area, e scarica un siluro che Neuer devia in angolo. Poco altro da annotare: un colpo di testa di Mandžukić su cross di Kroos (...) al 25', oltre la traversa, ed il prevedibilissimo diluvio di fischi riservati dalla curva dello Schalke a Neuer, che un tempo in quello spicchio di stadio intonava cori in favore dei propri beniamini vestiti di blu.

Il secondo tempo ci regala, dopo cinque minuti di gioco, la prova di quanto Draxler sia ancora immaturo: ruba palla ad un ingenuo Boateng sulla trequarti difensiva del Bayern, ed anziché servire ad Huntelaar il pallone dell'1-0, ne mantiene il possesso e finisce per farsi rimontare. Gli uomini di Heynckes, memori del detto «gol sbagliato, gol subito», danno immediatamente motivo di ulteriore rammarico al gioiellino dello Schalke: prima Kroos infila Unnerstall dopo una triangolazione con  Müller. Siamo al 55', tre minuti più tardi è il numero 25 a regalarci un'opera d'arte pallonara: prende la linea di fondo come il miglior Kobe Bryant,  beffa con un tunnel il malcapitato Fuchs e deposita il pallone nell'angolino basso alla destra di Unnerstall con un colpo da biliardo. E centoventi secondi più tardi Müller ci riprova, ma stavolta deve accontentarsi di un calcio d'angolo. Afellay subentra a Draxler, ma la musica non cambia: lo Schalke, cui l'uno-due del Bayern ha tagliato le gambe, attacca disordinatamente, scoprendo il fianco alle ripartenze avversarie. Fortunatamente, Unnerstall  fa buona guardia ed i gol al passivo sono due appena.

STEVENS Deve arrendersi alle individualità del Bayern. Giusto sostituire Draxler dopo un'ora ed un grave peccato d'egoismo.

HEYNCKES Il rombo offensivo ruota che è un piacere: nessun riferimento per i difensori avversari, e due gol.

ARBITRO Direzione senza macchia, quella di Kircher.

TOP PLAYER: Müller - Uno splendido gol, e l'assist per Kroos. Cosa volete di più?

BASS PLAYER:  Draxler - Paga l'inesperienza, ma le qualità ci sono. Ed anche il temo per maturare.

TABELLINO

SCHALKE 04 - BAYERN MONACO 0-2

MARCATORI: 55' Kroos, 58 'Müller.

SCHALKE 04 (4-2-3-1): Unnerstall - Höwedes, K. Papadopoulos, Matip, Fuchs - J. Jones (78' Hoeger), Neustädter - Farfan, Holtby (62' Barnetta), Draxler (63' Afellay) - Huntelaar. All.: Stevens.

BAYERN MONACO (4-2-3-1): Neuer - Lahm, Boateng, Dante, Badstuber - Luiz Gustavo, Schweinsteiger (89' Tymoshchuk) - Robben (84' Shaqiri), Kroos, T. Müller - Mandzukic (70' Martinez). All.: Heynckes.

ARBITRO: Kircher.

AMMONITI: Fuchs (76'), Matip (79').
 
Antonio Giusto 
 
Fonte: Calcissimo 

giovedì 20 settembre 2012

Inter - Rubin Kazan 2-2: Nagatomo salva l'Inter






Quarta partita casalinga per l'Inter, ancora alla ricerca di una vittoria a San Siro in questa stagione. L'obiettivo è quello di ottenerla contro il Rubin Kazan di Berdyev: squadra tignosa, che si difende con ordine e fa male in contropiede.

PARTITA Così come contro il Torino, Stramaccioni impone al perno centrale del centrocampo (Cambiasso, poi Gargano) di retrocedere tra Ranocchia e Samuel per impostare l'azione: come il Messico di La Volpe a Germania 2006 ed il Barça di Guardiola qualche anno più tardi. La manovra nerazzurra parte quindi da lontano, come di consueto, e si basa sua una trama più o meno fitta di passaggi, che però danno poche grane ad un attento Rubin Kazan, cui un generosissimo Jonathan offre su un piatto d'argento l'occasione di portarsi in vantaggio falciando Karadeniz ai confini dell'area di rigore: Deniz Aytekin, l'arbitro tedesco di evidenti origine turche, non può far altro che fischiare. Natcho calcia centralmente, Handanovič respinge e Ryazantsev la infila in rete. L'Inter, scossa dal quarto svantaggio in altrettante gare casalinghe, offre il fianco ai russi in un paio d'occasioni: Roman Eremenko, visto in Italia con le maglie di Udinese e Siena, sfiora in palo al 34esimo con un destro in diagonale, poi Jonathan si pappa il gol del pareggio ma - nel prosieguo dell'azione - Cassano e Livaja fanno le prove generali di un gol che arriverà poco dopo. Siamo al 39': il barese dà prova d'indiscussa genialità, Cambiasso legge il gioco in maniera alquanto misteriosa, esaudendo il desiderio del 99 e facendosi trovare pronto a crossare per un Livaja abile nell'insaccare il pallone in rete con la capoccia. Prima che l'arbitro fischi due volte, Ryazantsev flirta con la doppietta: prende un palo, e si va negli spogliatoi dopo un minuto di recupero.

Al rientro in campo, con Guarín al posto di un impresentabile Jonathan, ecco che i ruoli s'invertono: a far la partita, adesso, è il Rubin Kazan, con l'Inter che riesce a rendersi pericolosa in contropiede, ma il destro ad incrociare di Livaja - imbeccato da Cassano - termina alto sopra la traversa della porta difesa da Ryzhikov. Ben dieci minuti occorrono all'Inter per ristabilire le gerarchie territoriali, e Stramaccioni a questo punto opta per Milito: lo butta in campo, nella speranza che sia lui a buttarla in rete. Tra un dribbling e l'altro di Coutinho, ispirato ma poco incisivo, ecco che - un'ora di gioco sul cronometro - le squadre si allungano, e Natcho ci prova dalla distanza. Ma la palla non centra lo specchio, e qualche minuto dopo Berdyev si cautela, sostituendo il positivo Ryazantsev con Orbaiz: fuori un esterno con spiccate propensioni offensive e dentro un medianaccio, significa accontentarsi. Ma la frenesia dell'Inter, ottima sino alla trequarti, poi improvvisamente vana, consentono a Roman Eremenko di estrarre dal suo personalissimo cilindro un grazioso coniglio, che Salomón Rondón spolpa avidamente. La difesa nerazzurra, in occasione del gol è evidentemente impreparata: passi per l'indecisione causata dal colpo di genio di Eremenko, ma Ranocchia avrebbe potuto e dovuto far meglio, dopo il primo e non irresistibile controllo di Rondón. Terrorizzati dall'idea di veder violato San Siro anche stasera, Stramaccioni ed i suoi si producono in un tatticamente insensato ultimo assalto: ne vien fuori un Nagatomo regista, Samuel che ci dà dentro con la fantasia e con il tacco al limite dell'area, e Milito in formato ala destra a pennellar cross. Per chi? Per Nagatomo, naturalmente, che con un destro al volo stilisticamente impeccabile buca Ryzhikov. La follia nipponica chiude la spumeggiante partita.

STRAMACCIONI Atteso da un triplice impegno in campionato nella settimana che verrà, «Strama» risparmia Sneijder, Milito, Guarín e Pereira, dando spazio all'esuberanza di Coutinho e Livaja. Ma anche al disastroso Jonathan, cui giustamente impedisce di rientrare in campo per disputare il secondo tempo. La squadra è sintonizzata sulla sua lunghezza d'onda, quella del fraseggio, non sempre ragionato però: errori di misura, dettati da fretta e stanchezza, se ne son visti troppi stasera. E l'intesa, soprattutto quando c'è da gabbare la linea difensiva altrui, va migliorata.

BERDYEV Sempre il solito Rubin Kazan: ordinati in difesa, istruiti sul come agire in contropiede, ma ancorati al genio di Eremenko se bisogna inventarsi qualcosa con gli avversari ordinatamente disposti dinanzi alla propria porta. Quando inserisce Orbaiz si dichiara - in pratica - soddisfatto del pari, che quasi si trasforma in vittoria.

ARBITRO Il trentaquattrenne Deniz Aytekin, un po' fiscale certo, si guadagna la sufficienza. E, anzi, anche mezzo voto in più.

TOP PLAYER: Roman Eremenko - Sulla trequarti del Rubin Kazan c'è un faro che illumina la manovra: il suo nome è Roman Eremenko. Calcia, lancia, massaggia delicatamente il pallone e ne fa dono ai compagni, Rondon in primis. Transitato ad Udine, il motivo è presto detto. Strano, anzi, che i Pozzo se lo siano lasciati sfuggire.

BASS PLAYER: Jonathan - Abominevole. Difensivamente impresentabile, l'intervento che costa il rigore è raccapricciante: intervenire in quel modo su un avversario che si trova spalle alla porta in area di rigore è pura pazzia. Aggiungiamoci un gol sciupato e la poca propositività sulla fascia di competenza, sommata ai numerosi di misura, ed ecco spiegato il mio voto: 4.

TABELLINO

INTER - RUBIN KAZAN 2-2

MARCATORI: 17' Ryazantsev, 39' Livaja, 39' s.t. Rondon, 47' s.t. Nagatomo.

INTER: 1 Handanovic 6,5; 42 Jonathan 4 (1' s.t. Guarin 6), 23 Ranocchia 6,5, 25 Samuel 5,5, 55 Nagatomo 6,5; 19 Cambiasso 6,5, 4 Zanetti 6, 21 Gargano 6; 7 Coutinho 6; 99 Cassano 6,5 (22' s.t. Pereira 6), 88 Livaja 6,5 (16' s.t. Milito 6,5). All.: Andrea Stramaccioni 6.

RUBIN KAZAN: 1 Ryzhikov 6; 76 Sharonov 6, 4 Cesar Navas 6,5, 2 Kuzmin 6, 25 Marcano 6,5; 27 Bocchetti 6 (36' s.t. Kaleshin s.v.), 66 Natcho 6, 8 Ryazantsev 6,5 (25' s.t. Orbaiz 5,5), 61 Karadeniz 5,5; 23 R. Eremenko 7; 99 Rondon 6. All.: Kurban Berdyev 6,5.

ARBITRO: Deniz Aytekin (GER) Assistenti: Lupp- Walk (GER) Assistenti aggiunti: Fritz-Hartmann (GER). Quarto uomo: Henschel (GER).

AMMONITI: 35' Bocchetti, 29' s.t. Marcano, 31' s.t. Orbaiz, 44' s.t. Guarin.

NOTE: Recupero: 1', 3'. Spettatori: 28.472.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

Gilson Kleina, obiettivo: salvare il Palmeiras

 
È il quarantaquattrenne Gilson Kleina l'uomo scelto dal Palmeiras per cercare di agguantare una salvezza distante otto punti. Il Verdão, che chiude la classifica a braccetto con l'Atlético Goianiense, ha raggranellato la miseria di 5 vittorie ed altrettanti pareggi in 25 partite: Scolari è stato esonerato dopo il 3-1 rimediato al São Januário contro il Vasco da Gama, ed ora tocca a Kleina - che lo scorso anno ha riportato la Ponte Preta nella massima divisione dopo sei anni d'assenza - evitare che si ripeta quanto accaduto nel 2002.

Quel Brasileirão vide rivelarsi al mondo del calcio un Santos di promesse non del tutto mantenute - Diego, Robinho, l'Alex oggi al PSG, ma anche Elano e Renato - ma anche la discesa agli inferi di Palmeiras, Botafogo e Portuguesa: per queste tre grandi storiche del calcio brasiliano si trattò della prima retrocessione mai patita nella loro gloriosa storia. Gilson Kleina si augura di evitare un infausto bis.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

Jack Wilshere torna in campo

 
Dopo quattordici, interminabili mesi, Jack Wilshere è finalmente tornato in campo. Non per una partita, s'intende, ma semplicemente per allenarsi. Be', semplicemente: questo patrimonio del calcio non indossava gli scarpini dal 31 luglio 2011, quando si procurò una frattura da stress alla caviglia destra in un'amichevole precampionato con i New York Red Bulls.

Di lì in poi, un calvario che ha costretto Wilshere ha saltare l'intera stagione 2011-12, Europei e Olimpiadi casalinghe inclusi. Ora che è tornato, ad attenderlo c'è la prestigiosa maglia numero 10, ereditata da Robin van Persie: speriamo di vedergliela indossare al più presto.
Antonio Giusto 
Fonte: Calcissimo 

Anche Ballack in Australia?

 
 
Del Piero al Sydney FC, Heskey ai Newcastle Jets, ed ora Michael Ballack. La A-League rischia d'arricchire il proprio parco giocatori con l'ex centrocampista di Bayer Leverkusen e Bayern Monaco, ad un passo dall'accordo con i Western Sydney Wanderers.

Ballack, che compirà 36 anni il 26 settembre, firmerebbe un contratto annuale con i Wanderers: 800mila euro, oltre un milione di dollari australiani, per essere la stella della neonata squadra che si appresta a disputare il primo campionato della propria storia.

Se l'affare dovesse andare in porto, come assai probabile, per vedere Ballack e Del Piero affrontarsi sul campo di gioco non dovremo attendere a lungo: il 20 ottobre, infatti, la terza giornata della A-League 2012-13 propone un interessantissimo derby di Sydney.

Antonio Giusto 
 
Fonte: Calcissimo 

Demolito quindi anni fa lo stadio Sarrià, ospitò Italia - Brasile 3-2

 
Oggi son quindici anni, che lo stadio Sarrià non c'è più. Progettato dall'architetto Matías Colmenares, fu inaugurato il 18 febbraio 1923. Da allora, sino al 21 giugno 1997, l'Espanyol ha abitato qui: l'ultima partita, un 3-2 sul Valencia, vide in campo Mauricio Pochettino, che oggi siede invece in panchina. Demolito tre mesi più tardi, il 20 settembre, qui l'Espanyol disputò la gara d'andata della finale di Coppa UEFA 1987-88, vincendo 3-0 contro il Bayer Leverkusen cui poi riuscirà l'imponderabile rimonta nel match di ritorno.

Ma quando salta fuori il nome del Sarrià alle nostre latitudini, la memoria torna inevitabilmente a quel magico 5 luglio 1982. Italia - Brasile finisce 3-2, l'esaltante tripletta di Pablito Rossi e l'eroica parata di Zoff sul colpo di testa di Oscar. L'inaspettato, e perciò ancor più gustoso successo, ci garantsce un posto in semifinale: sappiamo tutti - il nostro Collovati ancor meglio, dato che era in campo - com'è andata a finire.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

Editoriale - I giovani in Champions League? Da Oscar!

 
 
Chiariamo: queste righe le ho progettate sbirciando le formazioni di Real Madrid - Manchester City, la conturbante doppietta di Oscar è secondaria, sia per cronologia che importanza. Il numero undici del Chelsea, indossato sino al maggio scorso dall'erculeo Drogba, è scivolato - per una trentina di milioni d'euro - sulle spalle del fuscello brasiliano: 21 anni appena compiuti, due in più di Matija Nastasić e Raphaël Varane. E qui il discorso si riallaccia al Mourinho - Mancini di martedì sera, con i due giovanissimi difensori in campo dal primo minuto, in una partita dal peso specifico ben superiore alla media dell'esordio stagionale in Champions League, come ben testimoniato dall'incontenibile esultanza di Zé Mario.

Ma di esempi simili quest'Europa ritrovata ce ne regala una marea, anche - semplicemente - scartabellando il tabellino dei marcatori. Il primo gol della fase a gironi l'ha segnato Francisco Román Alarcón Suárez. Chi? Isco, 21 aprile 1992, che - non soddisfatto - si è ripetuto a un quarto d'ora dal termine: Zenit annichilito. Procedendo in ordine cronologico, salta fuori Younès Belhanda: esordio assoluto per lui ed il Montpellier (di cui indossa i colori dal 2003) in Champions League, eppure il coraggio di scucchiaiare non gli manca, contro l'Arsenal per giunta. 25 febbraio 1990. L'annata, la stessa del Mondiale italiano, è anche quella di Toni Kroos - che gol contro il Valencia!, ma ci siamo abituati - e Rômulo, non il laterale della Fiorentina, bensì il mediano dello Spartak Mosca che violato la porta del Barça. A togliere le castagne dal fuoco ci ha pensato Cristian Tello, classe 1991, un gol e un assist per Leo Messi.

Le italiane? Maluccio. «Uccio» solo perché De Sciglio, titolare anche contro l'Anderlecht - in cui Massimo Bruno, 19 anni compiuti tre giorni fa, trova posto in campo dal primo minuto - si rivela il migliore dei suoi. Ma affinché il deludentissimo Boateng lasci il campo, occorre attendere un'ora di gioco: Stephan El Shaarawy, rimasto a marcire in panchina sino ad allora, non delude di certo. Ma, nel poco tempo a disposizione, è incapace di sbloccare il risultato. Chissà, fosse in campo dall'inizio...

Capitolo Juventus: Quaglierella regala ai bianconeri un punto prezioso più per il morale che per la classifica, ma se il Chelsea mette in mostra Oscar e Hazard - classe '91 anche lui, spettatore non pagante contro QPR e Juve, eppure sino ad allora di gran lunga il migliore dei suoi - i bianconeri rispondono con la tribuna di Pogba (1993) e portando in panchina Marrone e Lúcio. Il che porta a riflettere: non sempre è possibile costruirsi in casa i giovani alla maniera del Barcellona, ma quando ciò accade come nel caso di Luca Marrone - '90, ha ventidue anni - gli si dovrebbe dar fiducia. E invece la Juventus si «cautela» ingaggiando Lúcio, che di anni ne ha 34 e percepisce due milioni d'euro d'ingaggio in più rispetto a Marrone. Per rimanere in panchina. E se il brasiliano garantisce esperienza, Marrone - che può indistintamente giocare sia a centrocampo che in difesa - ha la fame degli emergenti. Eppure è lì in panchina, ad appiattirsi le natiche invidiando Varane e Nastasić.
 
Antonio Giusto 
 
Fonte: Calcissimo 

mercoledì 19 settembre 2012

Il calcio con gli occhi a mandorla

 
È obbligatorio citare la seconda regia di Bellocchio, quando il discorso orbita attorno alla Cina? No, ma visti i presupposti - partite truccate, arbitri in manette, ingaggi con troppi zeri e nomi illustri sia in campo che in panchina - pare proprio il caso di farlo: la Cina è vicina. Calcisticamente, almeno.
Un decennio fa, Beppe Materazzi, padre del Marco in gol a Berlino, faceva una capatina presso la Grande Muraglia: la sua missione, allenare il Tianjin Teda. Oggi, anno di - dubbia - gloria calcistica 2012, il canuto C.T. che quel 9 luglio 2006 sbaciucchiava la Coppa del Mondo assieme al più tatuato dei Materazzi si ritrova alla guida del Guangzhou Evergrande. Il motivo? Non uno, ma 10 milioni. Di euro. L'anno. E così, tra brasiliani panciuti e presunti fuoriclasse con gli occhi a mandorla, ecco anche il nostro Marcellone Lippi. Predicatore nel deserto? Be', non esattamente: diciamo che qualche oasi c'è, costata uno sproposito, ma c'è. Darío Conca, 900mila euro al mese per neppure centosettanta centimetri d'altezza ed un sinistro da far girare la testa, incanta le platee in Guangdong e viene quotidianamente rimpianto dai tifosi del Fluminense, con cui nel 2010 ha trionfato nel Brasileirão. Attorno a questa sorgente di limpidissima classe argentina, orbitano compagni che non sfigurerebbero nel Vecchio Continente. La punta Muriqui, brasilianissimo in gol 16 volte nello scorso campionato e destinato a migliorarsi, ha 26 anni ed è tutt'altro che da rottamare. Medesimo passaporto - non tutti i brasiliani d'oriente sono in conflitto con la bilancia - per Cléo, da Guarapuava (Paraná), che sino a un anno fa sgollava e sgomitava in Serbia, tra Stella Rossa e Partizan Belgrado. «Made in China», invece, Zheng Zhi: difensore evolutosi in mediano, numero 10 sulle spalle e fascia di capitano al braccio, ha assaggiato il calcio britannico con le maglie di Charlton Athletic (tre stagioni) e Celtic. L'ultimo acquisto - mentre scrivo - è Lucas Barrios, vagabondo in Sud America, un triennio e due Meisterschale vinte con il Borussia Dortmund, chiuso da Lewandowski, ha deciso di rimpinguare il proprio conto in banca con un'ondata di yen. Inutile girarci attorno, la stragrande maggioranza di questi contratti vengono firmati solo ed esclusivamente perché ad un'occasione economica del genere è impossibile rinunciare, e non ricapiterà di certo. Già, ma chi paga? Xu Jiayin, immobiliarista, bilionario - sì, «bi» - affamato di calcio e di vittorie. Il Guangzhou Evergrande lo finanzia lui, che s'ispira a Roman Abramovich ed ambisce a conquistare la Champions League d'Asia entro il 2015.
Gli yen piovono anche sull'altra sponda di Canton, quella del Guangzhou R&F, che si è appena assicurato Yakubu Aiyegbeni, erculeo centrattacco nigeriano autore di diciotto gol nell'ultima, sfortunata stagione disputata con la maglia del Blackburn, mestamente retrocesso.
Shanghai, affolatissima - 23 milioni di abitanti, la seconda città più popolosa del pianeta arriva terza - metropoli d'oriente, divisa in Pudong a est e Puxi a ovest dal fiume Huangpu, è stata scelta da Didier Drogba come prossima residenza. O, per meglio dire, Zhu Jun, fantastilionario, fondatore della The9 - il cui nome fa riferimento al fatto che i videogiochi siano la nona arte: credo di non dovervi spiegare in quale settore operi - e proprietario dello  Shanghai Shenhua, gli ha fatto un'offerta che l'ivoriano non ha potuto rifiutare. Pur essendo stato il miglior giocatore dell'ultima edizione della Champions League, rocambolescamente vinta con la maglia del Chelsea. Chelsea in cui, sino a gennaio, Drogba condivideva lo spogliatoio con Anelka, trasferitosi in Cina con forse troppo anticipo - va detto, il rapporto con Villas Boas era ormai putrescente - ma di certo economicamente soddisfatto della decisione presa. Ad ispirare questa coppia francofona, ecco Giovani Moreno, colombiano classe '86, fino a ieri numero 10 del Racing Club di Avellaneda. Ah, li allena Sergio Batista, che l'anno scorso spiegava a Messi e connazionali come muoversi in campo, appollaiato sulla panchina dell'Albiceleste.
Se Guangzhou Evergrande e Shanghai Shenhua fanno incetta di strapagati fuoriclasse, le altre componenti della Super League cinese non sono certo da meno. E così, ecco sbarcare in oriente attempati campioni, alla ricerca di un ultimo, remunerativo contratto. Seydou Keita, partito Guardiola, ha salutato il Barça ed il tiqui-taca, con cui aveva sensibilmente ingrassato il proprio palmarès, per andare ad ingrassare il portafogli nel Liaoning, lautamente stipendiato dal Dalian Aerbin. Ha invece scelto il Beijing Guoan, la squadra della capitale, Frédéric Kanouté, dopo aver concluso la propria, indimenticabile esperienza a Siviglia. Un altro calciatore africano, Christopher Katongo, milita invece nell'Henan Construction dal luglio 2011. «E chi sarebbe?», si domanderà qualcuno: «Il miglior giocatore dell'ultima Coppa d'Africa», rispondono gli almanacchi. Altro nome che, ai più, potrebbe non dir molto, è quello di Joffre Guerrón. Esterno ecuadoriano, sfavillante in Coppa Libertadores nel 2008, stella più brillante del torneo, vinto con la LDU di Quito in finale contro il Fluminense di Conca. E Thiago Silva, e Washington, e Thiago Neves... Classe 1985, si accasa anch'egli al Beijing Guoan, e chissà quanti cross sfornerà per il capoccione di Kanouté. Merita infine una citazione Fábio Rochemback, volante a proprio agio in Europa per quasi un decennio, con Barcellona, Sporting Lisbona e Middlesbrough, oggi in forza al Dalian Aerbin.
Enumerate le virtù tecniche del campionato con gli occhi a mandorla, e ribadito come motivazioni e condizione atletica potrebbero scarseggiare, è giunto il momento di illustrarvi le altre similitudini che accomunano il calcio cinese a quello occidentale. Sì, perché piaghe purulente come Calciopoli e le scommesse non sono toccate esclusivamente alla Serie A.
In manette, di recente, son finiti Xie Yalong e Nan Yong, suo predecessore a capo del centro amministrativo dell'associazione calcistica cinese: dieci anni (e mezzo) a testa, per aver accettato tangenti per centinaia di migliaia di dollari. In gattabuia anche diversi calciatori, quattro dei quali vantano anche un bel gruzzolo di presenze in nazionale: Shen Si, Qi Hong, Jiang Jin e Li Ming, quest'ultimo solo omonimo del recordman di presenze con la Cina (141, per l'altro Li Ming). Stessa sorte anche per quattro arbitri, e qui spicca il nome di Lu Jun, chiamato a fischiare in Corea e Giappone nel 2002, oltre che all'Olimpiade australiana d'inizio millennio. Sì, la Cina s'è avvicinata. Forse, un po' troppo.

TSU CHU, L'ANTENATO CINESE DEL CALCIO

Che il calcio, così come lo pratichiamo - e amiamo - oggi, sia nato in terra d'Albione, è fuor di discussione. Un lunedì d'ottobre del 1863, il 26 ad esser precisi, si ritrovano alla Freemasons' Tavern, sita in Great Queen Street, a Londra, i rappresentanti di alcune società calcistiche della zona: viene stilata una lista, contenente le prime quattordici regole del nostro adorato gioco. Al signor Francis Maule Campbell, tesoriere della neonata Football Association, nonché rappresentante del Blackheath F.C., la nona, la decima e pure la quattordicesima non garbano: fortuna!, nel 1871 il suo Blackheath  darà vita alla Rugby Football Union, assieme ad altri venti club, regalandoci un meraviglioso sport.
L'idea di sollazzarsi con la sfera, però, non è certo così recente. Nella lussureggiante Firenze dei Medici, piazza Santa Croce fungeva da «teatro del Calcio»: era questo il primo «capitolo» del regolamento del calcio fiorentino, redatto da Giovanni Bardi nel 1580 e composto di 33 articoli. Ventisette uomini per parte: quindici corridori suddivisi in tre quadriglie, cinque sconciatori e sette datori, quattro dei quali «innanzi» ed i restanti tre «addietro». L'obiettivo, era quello di depositare il pallone nella rete posta a fondo campo, segnando la cosiddetta «caccia». Sempre nella penisola italica, l'harpastum spopolava un paio di millenni fa. Il nome altro non è che la latinizzazione del termine greco ἁρπαστόν (harpaston), il cui significato è all'incirca quello di «strappar via»: somigliava più al rugby che al calcio, a giudicare dalle poche testimonianze, ed era evidentemente ispirato all'ellenico episkyros, che si giocava in dodici contro dodici (o 14 contro 14) ed aveva come obiettivo quello di fare meta, o l'equivalente dell'epoca.
Dopo aver passato in rassegna gli antenati europei del nostro calcio, ecco che spuntan fuori i cinesi. Che con la palla s'iniziarono a dilettare - sembra - un tremila anni fa circa. L'invenzione viene attribuita a Huang Di, il celebre «Imperatore Giallo», ma di leggende sul suo conto ce ne son più di troppe, e allora ecco il nome del gioco: tsu chu, con il primo termine che sta a significare «colpire con il piede» ed il secondo che designa la sfera, rigonfia d'aria o di piume. Di certo praticato durante gli anni contrassegnati dalla dinastia Han, cioè dal 206 avanti Cristo in poi, il gioco, originariamente praticato dai soldati per migliorare le proprie doti atletiche, si diffuse tra i civili, donne comprese. Con la dinastia Song, regnante in Cina dal 960 al 1279, ecco il professionismo: il tsu chu aveva contagiato la popolazione, dall'imperatore al servo, ed era possibile vivere di ciò. Competitivi anzichenò, i nostri amici cinesi esportarono il tsu chu nelle regioni adiacenti: in Giappone, ma anche in Vietnam e Corea. I nipponici, che lo ribattezzarono «kemari» furono anche protagonisti di avvincenti incontri con i cinesi. Chissà, forse anche loro - come gli inglesi un bel po' di lustri più tardi - sfoggiavano l'epiteto di «maestri».

Antonio Giusto
 
Fonte: Calcio 2000

Zenden: imminente la firma col Bayer Leverkusen

 


«Bolo» Zenden torna in pista, e s'inventa terzino sinistro. L'olandese, nato nel giorno di Ferragosto del 1976, ha giocato l'ultima partita ufficiale il 22 maggio 2011, andando tra l'altro a segno nel 3-0 rifilato dal Sunderland - di cui all'epoca difendeva i colori - al West Ham.

Dopo una settimana di prova con il Bayer Leverkusen, allenato dal suo amico ed ex compagno di squadra (un biennio assieme, nel Liverpool) Hyypiä, che vede in Zenden la soluzione ai suoi problemi: ceduto Oczipka all'Eintracht Francoforte, Kadlec rimane l'unica alternativa nel ruolo di esterno basso a sinistra. E, visto il disastroso periodo di forma del difensore ceco, la sensazione è che la firma di Zenden arriverà nel giro di qualche ora.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

lunedì 17 settembre 2012

Pablo Pintos: occhio alla maglia!


Il nome di Pablo Pintos, difensore in forza al Kasımpaşa, non dovrebbe suonare nuovo alle orecchie dei tifosi laziali: nell'estate 2010, infatti, la compagine capitolina acquistò il cartellino di questo promettente uruguaiano, senza però poterlo depositare in Lega Calcio e rendere effettivo il trasferimento a causa della restrizione sul tesseramento degli extracomunitari.

Eccolo quindi vestire la maglia del Getafe, segue un ritorno in patria al Defensor Sporting prima di ricomparire sui radar europei: al Kasımpaşa, appunto. Momentaneamente secondo in classifica con 9 punti, alle spalle del solo Galatasaray, il club annovera tra le proprie fila - oltre al già citato Pintos - alcuni nomi relativamente noti: Isaksson e Viudez, ectoplasmi in Serie A, ma anche il capitano Fabian Ernst, una vita in Bundesliga, e la punta nigeriana Kalu Uche.

Ma torniamo a Pintos: abile nell'infilare il Gaziantepspor al termine di una solitaria fuga in contropiede, l'esultanza per il primo gol in terra turca gli crea qualche grattacapo.

Antonio Giusto

Editoriale - Io sto con Zeman

 

Roma bifronte, come il mitologico Giano. La colpa: di Zdeněk Zeman, chi altri? «Parla troppo» lui, o parlan troppo i molti - anzi: i troppi - che lo criticano? Io propendo per la seconda ipotesi. I gialorossi, incantevoli nel primo tempo, hanno scalato un paio di marce nella ripresa: ci sta, se il vantaggio è doppio. Peccato che, per un minuto appena, la luce si sia spenta: nulla d'imputabile all'organizzazione tattica, in entrambe le occasioni a peccare sono stati i singoli. Piris e Burdisso sbandano vistosamente, con l'ex interista che omaggia un redivivo Gilardino (pronostico del sottoscritto: abbondante doppia cifra stagionale, per il centravanti biellese) anche in occasione del 2-3, e la colpa ricade inevitabilmente sul taciturno boemo appollaiato in panchina. 

Giuste le critiche, perché una rimonta del genere è francamente inaccettabile, ma di porre un briciolo d'attenzione sull'opera di Zeman - i cui frutti, si sa, per esser maturi necessitano di ben più di tre giornate - e valutarne l'efficacia mi pare il caso. In particolare dopo un fine settimana del genere. 

S'inizia al venerdì, dal Parc des Princes. Parigi è testimone della classe di Verratti, che per diletto affresca calcio: il PSG ruota attorno a lui. Zlatan, interrogato in merito all'accaduto, commenta: «È un grandissimo». Zdeněk tace: ma, ne sono certo, ad ammutolirlo non è la sorpresa. Il sabato pomeriggio eccoci invece a Manchester, per ammirare la goleada dello United. Il Wigan, vittima designata, mette mano al pallottoliere: quattro gol incassati, e settecentisima allacciata di scarpini per Paul Scholes. Che la insaporisce con un gol; emulato, mezz'ora più tardi, dall'esordiente Nick Powell. Occhio al calendario: Powell è nato il 23 marzo 1994, un giorno e sei mesi più tardi Scholes esordiva in Premier League, a Portman Road, segnando un gol contro l'Ipswich Town. A Roma c'è Francesco Totti, svezzato da Zeman e fatto esordire in Serie A da Vujadin Boškov il 28 marzo '93. Due anni e spiccioli dopo la nascita di Florenzi, cui Totti ha già regalato un paio di gol, e poco più di sei mesi prima che Nico López emettesse il primo gemito (1° ottobre 1993). 

E se il figlio di Montevideo ha trovato il primo gol in A al debutto, Marco Sau - di cui Zeman è il padre calcistico - non è stato da meno: contro il Palermo, una sua inzuccata ha regalato al Cagliari un punto prezioso. Insigne, che di Zeman è un fedelissimo, non è mica rimasto a guardare: l'esordio infrasettimanale in azzurro, e contro il Parma ecco la prima marcatura nella massima serie. Chiude la carrellata Caprari, quattro gol in carriera, di cui tre alla Sampdoria. E se questo è il primo in A, gli ultimi due siglati in B avevano regalato al Pescara la certezza aritmetica della promozione. Per la cronaca, quel 20 maggio finì 3-1 per gli uomini di Zeman: andò a segno anche Immobile, al ventottesimo ed ultimo gol della sua strabiliante stagione. La gioia del primo centro in A, Ciruzzo l'ha provata anche lui all'esordio, contro il Cagliari: ieri, si è «semplicemente» ripetuto, facendo una paura dannata alla Juventus che l'ha cresciuto. Anche se a far gol tra i grandi, ha imparato con Zdeněk. 

Antonio Giusto 

Fonte: Calcissimo

sabato 15 settembre 2012

QPR - Chelsea 0-0: a Loftus Road vince la noia



Un rigore di Helguson, le espulsioni di Bosingwa (che oggi gioca nel QPR) e Drogba nel primo tempo, un diluvio di cartellini gialli - nove, in totale - e la delusione di Villas Boas. È trascorso quasi un anno da quel QPR - Chelsea, e le strade dei quattro protagonisti sin qui citati si son divise: c'è chi ha cambiato quartiere di Londra (AVB, Bosingwa), chi nazione (Helguson) e chi addirittura continente, perché Didierone è finito in Cina. Ad incrociarsi nuovamente sono però John Terry ed Anton Ferdinand, e chissà se si stringeranno la mano: è noto a tutti che il più giovane dei fratelli Ferdinand abbia portato JT in tribunale, in luglio, per chiarire quanto accaduto il 23 ottobre scorso. Perché nel giorno in cui il City ne segnava sei all'Old Trafford, il capitano del Chelsea avrebbe - «avrebbe»: condizionale - così apostrofato Ferdinand: «fucking black cunt», che non vi sto qui a tradurre. Assolto per insufficienza di prove dal giudice Howard Riddle, Terry si ritrova ad affrontare il suo accusatore sul terreno di gioco. Ah, quasi dimenticavo: il Chelsea, che tra le altre cose è campione d'Europa in carica, mercoledì darà il bentornato in Champions League alla Juventus.

PARTITA Come ampiamente prevedibile, Anton Ferdinand tiene fede alla propria parola, rifiutando di stringere la mano sia a Terry che a Cole. Bene, ora si può - finalmente - parlare di calcio. E la prima occasione - in una Londra baciata dal sole - ce la offre Júlio César, che al quarto minuto si produce in una felina reazione sul sinistro di Hazard, impedendo al Chelsea di coronare con un gol l'ottimo contropiede imbastito. Poi, sino al quarto d'ora, le squadre si limitano ad un poco produttivo palleggio. A ravvivare la situazione ci pensa Torres, che impegna l'estremo difensore avversario con il mancino e si rende anche protagonista dell'uscita dal campo di Fábio, rimpiazzato da Onuoha: Bosingwa cambia fascia. C'è ben poco da segnalare, sino al secondo cambio dell'incontro, effettuato anche stavolta da Hughes: Johnson s'infortuna, lo sostituisce l'ambizioso Jamie Mackie, che in settimana ha dichiarato di voler ripetere l'impresa compiuta lo scorso anno, portando nuovamente a casa lo scalpo dei Blues. Gli ultimi quindici minuti scivolano placidamente via, contraddistinti dalla sterilità del possesso palla e dall'assenza di occasioni da gol.
In avvio di ripresa, le due compagini c'illudono d'aver voglia di correre e divertire: il ritmo si alza, Hazard ci regala una rabona - fine a se stessa, ma stilisticamente perfetta - e Park Ji-Sung mette a nudo le lacune difensive del Chelsea, pescato - solissimo - nel cuore dell'area da un lancio di Granero. Ma Čech blocca, sicuro, e Di Matteo inserisce il nuovo arrivato Moses al posto di Bertrand: un po' di spinta sulla sinistra ci vuole, accidenti! Da lì nasce infatti un cross che Ivanović, appostato sul secondo palo, non riesce a tramutare in gol. Di occasioni, vere, le due squadre però non riescono a crearne, ed occorre uno scellerato retropassaggio di Mikel per regalare qualche emozione al pubblico pagante: Zamora sciupa, complice l'esemplare uscita di Čech, e sul capovolgimento di fronte Moses impegna Júlio César, impeccabile anche in quest'occasione. Nonostante gli ingressi in campo di Cissé e Sturridge, il gol non arriva, e l'ultima occasione capita - all'ottantasettesimo - sui pregiati piedi di Hazard. Ma, complice un maligno rimbalzo della sfera, il talentuoso belga scaglia il pallone in curva: la partita, agonizzante, muore dopo tre minuti di recupero.

HUGHES Il suo QPR, disposto secondo un inglesissimo 4-4-2, presente un'idea di gioco concreta, anche se ancora non del tutto compresa dai giocatori: il gioco va sviluppato sulle corsie, cercando anche il ribaltamento per sbilanciare la difesa avversaria e pungerla sul lato debole, ottenendo come risultato finale un cross per la coppia di attaccanti (oggi, se ne son viste tre). Un pareggio contro i campioni d'Europa, visto il tutt'altro che entusiasmante avvio di stagione, non può che farlo sorridere.

DI MATTEO Ramires, mezzala, gioca esterno destro; Bertrand, terzino, presidia l'altra corsia: non sarà un eccesso di prudenza, contro il modesto QPR? La squadra, poi, si affida esclusivamente all'iniziativa del singolo, ed i risultati - vista la giornata di scarsa vena di Hazard, Torres e Lampard - non sono dei più soddisfacenti. Primi punti persi in campionato. Se vuol rifarsi in Europa, deve osare di più: l'avversario non è sempre il Barça.

ARBITRO Andre Marriner fischia poco, ma quando lo fa - solitamente - l'emissione sonora è seguita dall'estrazione di un cartellino, in particolar modo nella prima frazione. Partita condotta in maniera positiva: la sufficienza, e qualcosa in più, per lui in pagella.

TOP PLAYER: Júlio César -  Svetta nella mediocrità di un incontro alla camomilla, domando Hazard ed il suo Chelsea. Ma era prevedibile: Júlio, tra i pali, è una garanzia con pochi eguali al mondo.

BASS PLAYER: Hazard - Da lui ci aspetta ben più di una rabona. A maggior ragione dopo le roboanti dichiarazioni rilasciate in settimana.

TABELLINO

QUEENS PARK RANGERS - 0-0

QUEENS PARK RANGERS (4-4-2): Julio Cesar 7; Bosingwa 6,5, Nelsen 6, Ferdinand 6, Fabio s.v. (dal 20' Onuoha 6); Wright-Phillips 6 (dal 70' Cissé 4,5), Granero 6, Faurlin 6, Park 6; Zamora 5, Johnson s.v. (dal 32' Mackie 5,5). All.: Hughes 6.

CHELSEA (4-2-3-1): Cech 6; Ivanovic 6, David Luiz 5,5, Terry 6, Cole 5,5; Mikel 5,5, Lampard 6; Ramires 5,5, Hazard 4,5, Bertrand 5 (dal 59' Moses 6); Torres 4,5 (dall'81' Sturridge s.v.). All.: Di Matteo 5.

ARBITRO: Marriner 6,5.

AMMONITI: Ramires (14'), Bertrand (27').

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

sabato 16 giugno 2012

Gli altri mister: tra sconosciuti e mostri sacri


Dopo aver mancato la qualificazione all'Europeo austrosvizzero, Oleh Blochin aveva rassegnato le dimissioni. Un salto a Mosca, sulla panchina dell'FK, ed il ritorno alla guida dell'Ucraina: il C.T. dell'unica squadra debuttante sarà lui. L'altra padrona di casa, la Polonia, punta sull'esperienza di Franciszek Smuda. Gavetta in Germania e Turchia, testato su praticamente ogni panchina polacca, prima volta con una Nazionale. Dick Advocaat, invece, è a quota cinque: Olanda, Emirati Arabi Uniti, Corea del Sud, Belgio e - oggi - Russia. Il «nonno» della panchina è il nostro Trap, di cui parliamo altrove, con 73 primavere alle spalle, cui fanno da contraltare i 43 anni che Paulo Bento (C.T. del Portogallo) compirà il 20 giugno, nel bel mezzo della manifestazione. In entrambi i casi, rischio derby: sulla panchina della Grecia siede Fernando Santos, portoghese, mentre la sfida tutta italiana tra Prandelli ed il suo ex allenatore Trapattoni (Juventus, erano gli anni ottanta) è già stata decisa dall'urna, il 18 giugno. Vicente del Bosque e Bert van Marwijk sono reduci dalla finalissima sudafricana, che solo un'incornata di Puyol negò a Joachim Löw: su loro tre c'è poco da scrivere. Tutti da scoprire invece Michal Bílek ed Erik Hamrén. L'ultimo risultato ottenuto dal cittì ceco sulla panchina di un club è il quinto posto nella Superliga slovacca '08-09 con il Ružomberok, mentre Hamrén è reduce da tre campionati vinti consecutivamente: uno con l'Aalborg (2008) e due con il Rosenborg ('09 e '10). Storie tese tra Laurent Blanc e Slaven Bilić: Francia '98, in semifinale i Bleus fanno fuori la Croazia con una doppietta di Thuram, ma un fallo di Blanc su Bilić costa al transalpino il rosso e - di conseguenza - la finalissima. Per un chiarimento ci son voluti 13 anni: un'amichevole (terminata 0-0) a fine marzo, pace fatta. Infine, Stuart Pearce: mentre scrivo, è lui il titolare della panchina inglese. Ma c'è Harry Redknapp in agguato.

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

mercoledì 16 maggio 2012

Auguri Paròn


 

Con un poetico intruglio di italiano e triestino, ecco che il Paròn ci avrebbe lasciati di stucco, commentando in chissà quale maniera le cento candeline schierate su una torta che - il 20 di maggio - non potrà gustare. Perché un secolo fa, il 20 maggio 1912, a Trieste nasceva Nereo Rocco. Nipote di Ludwig, cambiavalute viennese emigrato in Italia per amore di una cavallerizza spagnola, e figlio del macellaio Giusto, Nereo fa di cognome Rock sino al '25. Quando, divenuta obbligatoria la tessera del fascio per rifornire di carne le navi del porto, un distratto impiegato dell'anagrafe lo tramuta in Rocco, anziché in Rocchi, come invece avrebbe dovuto. 

IL PICCOLO NEREO
Al calcio Nereo si appassiona, infante, per questioni geografiche: trasferitosi in Rione del Re dopo essere venuto alla luce a San Giacomo, casa sua dista da al campo di Montebello - dove gioca la Triestina - appena qualche centinaio di metri. Discreta mezzala, entra nelle giovanili dell'Unione grazie all'insistenza di Piero Pasinati, campione del mondo nel '38, nato nello stesso condominio di Rocco un paio d'anni prima. Esordisce in A diciassettenne, matura nella sua Trieste e prova anche l'ebbrezza dell'azzurro. Doppio. Vittorio Pozzo, commissario tecnico di un'Italia che pochi mesi più tardi avrebbe vinto il primo titolo mondiale della sua storia, gli offre un'occasione: contro la Grecia, il 25 marzo 1934 in quel di Milano, Rocco gioca appena 45 minuti, prima di venir sostituito da Giovanni Ferrari all'intervallo.

ROCCO AZZURRO
L'altro azzurro è quello del Napoli. Per assicurarselo, Achille Lauro, il «Comandante» appena insediatosi alla presidenza, scuce 160 mila lire, facendo della ventinovenne mezzala sinistra triestina il calciatore più pagato del mercato partenopeo. Alle pendici del Vesuvio trascorre un positivo triennio, quindi accetta l'offerta del Padova, in Serie B. In panchina trova József Bánás, che ha trascorso gli ultimi tre campionati alla guida del Milan(o, denominazione assunta nel febbraio '39 e mantenuta sino al termine della guerra), e - con Bortoletti, già compagno di squadra a Trieste che da Bánás era stato allenato a Milano - gli fa una proposta indecente: un uomo in più in difesa, il terzino Ubaldo Passalacqua. E Rocco, mezzala, s'inventa mediano, per consentire al mediano di rimpiazzare Passalacqua, ormai battitore libero.

MISTER ROCCO
Quello che sta diventando «el Paròn» pensa ormai da allenatore e, tornato nell'amata Trieste, mette in pratica le proprie idee, come allenatore-giocatore del Circolo Sportivo Cacciatore prima e della Libertas Trieste poi, nel ruolo di libero. A 33 anni appende definitivamente gli scarponi - perché tali erano all'epoca - al chiodo, pochi mesi più tardi rimpiazza Mario Varglien alla guida della Triestina, ultimissima nel 1946-47 e ripescata d'ufficio «per motivi patriottici»: un bella gatta da pelare, a cui si aggiunge il fatto che per i primi due mesi Rocco non percepisce neppure una lira. Il Paròn si rimbocca le maniche, e conduce la squadra al secondo posto (49 punti, come il Milan e la Juventus) alle spalle del Grande Torino, che quell'anno segna 125 gol e totalizza 39 punti dei 40 disponibili in casa, frutto di 19 vittorie ed un solo pareggio al Filadelfia. Essendo il calcio uno dei migliori per dimenticarsi di una maledetta guerra, in città non si parla d'altro, e Rocco viene addirittura eletto consigliere comunale nelle liste della D.C.!

ROCCO PADOVANO
L'idillio dura un paio di stagioni, poi l'addio. Il Paròn, che poi vuol dir «padrone», giura di non voler più allenare, scottato dalla burrascosa vicenda. Ci ripensa quando il Treviso, neopromosso in B, gli offre la panchina, su cui trascorre tre campionati, prima di far ritorno a  Trieste: pochi mesi, prima che un poker di Gunnar Nordahl (Triestina-Milan 0-6, 21 febbraio 1954) lo condanni all'esonero. Ecco però Bruno Pollazzi, commerciante d'automobili nonché presidente del Padova, il quale lo riporta dove aveva concluso la carriera. Con risultati sfavillanti: Rocco pesca i biancoscudati nei bassifondi della cadetteria, li salva e nella stagione seguente li conduce alla promozione. In otto anni a Padova, Rocco diventa un'istituzione: Scagnellato, Blason, Azzini e Moro sono i mattoni di un invalicabile muro difensivo, mentre Kurt Hamrin, l'«Uccellino», viene svezzato in quel 1957-1958 che vede il Padova piazzarsi terzo, alle spalle di Fiorentina e Juventus (per i bianconeri, è lo scudetto della prima stella).

LA POESIA DI NEREO
Ma non c'è solo il calcio per il burbero Rocco, che appare tale pur senza esserlo in realtà, la sua vita s'interseca infatti anche con l'arte: cinema e poesia, cronologicamente invertiti, oltre alle - incredibile a dirsi - lezioni di piano impostegli dal babbo, che per lui sognava un futuro da concertista. Anzitutto, la lirica: domenica 15 ottobre 1933 l'Ambrosiana-Inter è di scena a Trieste, Meazza sbaglia un rigore, Rocco bisticcia col mediano nerazzurro Alfredo Pitto e la partita finisce zero a zero. A far notizia non è l'errore del Peppino, che pure è rigorista infallibile, bensì un'inconsueta presenza sugli spalti: Umberto Saba, lì per caso, grazie ad un biglietto cedutogli da un amico impossibilitato a recarsi allo stadio. «Tre momenti», una delle «Cinque poesie per il gioco del calcio», nasce quel giorno, ed il quart'ultimo verso - «Nessun'offesa varcava la porta» - è un chiaro riferimento all'occhialuto punteggio. Rocco e Saba, purtroppo, non si parlarono mai, anche se il Paròn ammise di aver incrociato il poeta in più d'una occasione in un caffè cittadino. Con Fellini, che sognava di scritturarlo per «Amarcord», ci fu invece un gustoso pranzo in un ristorante bolognese, a base di tortelli e lambrusco: Rocco, però, fu costretto a declinare l'offerta. Il padre di Titta verrà quindi interpretato da Armando Brancia, mentre il Paròn, come direttore tecnico del Milan, vince Coppa Italia e Coppa delle Coppe.
Questo è stato Nereo Rocco, prima di vincere tutto sulla panchina del Milan. Che è storia nota ben più di quella sin qui narrata, e - mi auguro - per questo meno intrigante. Auguri, Paròn.

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

domenica 25 marzo 2012

Cronache di Zemanlandia 2



Cronache di Zemanlandia 2, firmato Adelmo Monachese, ripercorre la seconda avventura del boemo sulla panchina del Foggia. Costa 89 centesimi, ne vale molti di più: dategli un'occhiata.

mercoledì 7 marzo 2012

E se Joan non avesse avuto «le palle»?


E se Joan non avesse avuto «le palle»? Be', credo che la storia più recente del calcio avrebbe ben altra fisionomia. Ma facciamo chiarezza: Joan di cognome fa Laporta, e nel luglio del 2008 riceve Guardiola nel proprio ufficio per discutere di una certa questione. Chiede il presidente: «Dì un po', Pep, te la sentiresti di rimpiazzare Rijkaard?». Risponde Pep: «Io sì, sei tu che non hai le palle per farlo».

Così Josep Guardiola i Sala da Santpedor si ritrova nuovamente alla guida del Barça, non più nel fulcro del gioco e con la fascia al braccio ma seduto in panchina. Vince tutto, e soprattutto subito. Sei-su-sei al primo colpo: campionato, Coppa del Re, Champions League, Supercoppa di Spagna e d'Europa, e pure la Coppa del Mondo per club. «Solo» questo? No, perché Guardiola vince e convince: propone un calcio lussureggiante, ricco di passaggi e movimento, estrema e perfetta sintesi di quanto appreso in carriera. Cruijff e van Gaal, Mazzone e Capello, persino l'amico Juan Manuel Lillo in Messico, l'han guidato in prima persona, mentre lui studiava Menotti, Bielsa e La Volpe.

In numeri, il primo Pep in versione allenatore ci offre un 4-3-3. Orgasmo calcistico. E così arriva, oltre a vittorie e spettacolo, anche la voglia di sperimentare. Il feticcio Busquets, con i suoi piedi malandati, inizia a scalare in difesa per consentire l'avanzata ai terzini: profumo di 3-4-3. Intanto, Eto'o e Messi si scambiano sempre più spesso la posizione: Leo si evolve in centravanti. Ibra stona. Oggi, omaggio al Dream Team: fino ad 8 centrocampisti contemporaneamente in campo e 3-4-3 che diventa una consuetudine. Domanda: Guardiola ha finito di stupire? Risposta: non credo proprio.


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

mercoledì 18 gennaio 2012

Il Grande Torino


"I campioni d'Italia. Bàcigàlupo V., Ball...", legge il mio nipotino Gianpaolo, come ipnotizzato dalla lapide che commemora il Grande Torino, perito a Superga il il 4 maggio del '49.
"Bàcigalùpo, Gianpolo. Si dice Bàcigalùpo."
Il piccolo sta imparando cos'è il Toro. Ed io, nonno dal cuore granata, sto cercando di spiegarglielo, sperando che non abbia preso da sua mamma: figlia unica, come la delusione che mi diede il giorno in cui mi confessò che ne aveva abbastanza del dannato pallone. Fortunatamente, a Gianpaolo il calcio - per ora - piace. È bello grosso per avere otto anni, gioca in difesa e dice d'ispirarsi ad Ogbonna, anche se il sinistro non lo usa neppure per scendere dal letto. Per evitare che segua le orme di sua mamma, che proprio a quell'età mi rivelò che si emozionava leggendo i libri, mica accompagnandomi allo stadio «per vedere ventidue signori che inseguono una palla con i calzoni corti anche a gennaio», ho deciso di portarlo su a Superga per una lezione di storia granata. Abituato com'è alla Serie B, ai valzer di panchine ed alle delusioni, ha il diritto - anzi, il dovere - di conoscere chi ha reso grande il Toro.
"Sta' tranquillo, comunque, il tuo è un errore comune. Anzi, è già tanto che ti sia limitato a sguinzagliare gli accenti: in molti, quel cognome neppure riuscivano a pronunciarlo. Uno su tutti? Vittorio Pozzo, o almeno così sosteneva Bacigalupo, che..."
"Nonno, nonno! Chi era questo Vittorio Pozzo? Un calciatore?"
"Giocò nel Grasshoppers, in Svizzera, ma corse dietro al pallone anche in Francia ed Inghilterra. La storia, però, l'ha fatta sedendo in panchina: è, e probabilmente resterà ancora a lungo, l'unico commissario tecnico capace di vincere due campionati del mondo, nel '34 e nel '38. Ma noi del Toro lo ricordiamo perché, oltre a dir la sua nel momento della fondazione della squadra, indossò la maglia granata per cinque stagioni. Una volta appesi gli scarpini, anche se sarebbe più corretto dire scarponi, al chiodo, fu direttore tecnico dei nostri per dieci anni, dal 1912 al 1922."
"Oh!", esclama sorpreso Gianpaolo. Di trasformare la sua sorpresa in tristezza non ho affatto voglia, quindi glisso sul fatto che l'ultima azione granata di Vittorio Pozzo fu il riconoscimento dei corpi dilaniati dopo lo schianto. Riprendo allora a parlare di Bacigalupo.
"Parlavamo del portierone, no? Che poi portierone non era, perché si era fermato a un metro e settantasei, ma l'agilità gli consentiva di far passare in secondo piano quest'aspetto. Dicevo, il buon 'Baci', ché di solito lo chiamavano così per far più presto, si era convinto che la sua più grande delusione calcistica fosse dovuta proprio alla complessità del suo cognome. L'11 maggio del '47 si gioca Italia-Ungheria, ed in campo scendono dieci calciatori del Torino ed uno - il portiere Lucidio Sentimenti - della Juventus: Baci sosteneva che Pozzo fosse entrato in campo poco prima del calcio d'inizio per richiamare Sentimenti IV (aveva altri quattro fratelli, tutti divenuti calciatori in A) e schierare lui in porta, ma dopo un paio di tentativi andati a vuoto di pronunciarne il cognome, aveva optato per la conferma di Sentimenti."
"Dieci giocatori del Toro! Accidenti, oggi c'è solo Ogbonna..."
Ogbonna, che pure ha un radioso futuro davanti, speriamo con la maglia granata ed in Serie A, è il suo idolo, l'ho già detto. Quindi, meglio evitare infelici confronti e proseguire nella narrazione.
"Sì, dieci. E nell'Ungheria, quel giorno, ce n'erano nove dell'Újpest di Budapest. Ma un 'estraneo', Puskás, che gioca nell'Honvéd e diventerà leggenda con l'Aranycsapat ed il Real Madrid..."
"Aranycosa?"
"Aranycsapat, la 'Squadra d'oro' ungherese. Magari questa storia te la racconto un'altra volta. Dicevo, Puskás pareggia su rigore al 76', segnando l'ottavo gol nelle sue prime sette partite con l'Ungheria, ma soprattutto incrocia Valentino Mazzola. Quasi vent'anni più tardi, sconfitto in finale di Coppa dei Campioni da una doppietta di Sandro, figlio di Valentino, gli farà dono della sua maglia, accompagnandola con le parole: 'Tienila, perché sei degno di tuo padre'".
"Sandro Mazzola, il signore della tivù?"
"Sì, Sandro Mazzola, il signore della tivù che ha giocato 565 partite e segnato 160 gol con l'Inter, e vinto quattro scudetti, due Coppe dei Campioni ed altrettante Coppe Intercontinentali indossando sempre e solo la maglia nerazzurra. Suo padre ne sarebbe stato orgoglioso."
"Ma suo papà era più forte, vero?"
"Gianpaolo, noi siamo del Toro. Per noi Valentino Mazzola è stato il Capitano, con la 'c' maiuscola, per noi Valentino Mazzola è stato più grande di Pelé e Maradona, di Cruijff e Di Stefano."
"Stefano?"
"Alfredo Di Stefano, un fuoriclasse argentino. Duettava con Puskás nel Real Madrid che negli anni cinquanta vinse cinque Coppe dei Campioni di fila. Dicono sia stato il primo centrocampista universale, ma tu non dargli retta: è una bugia, il primo fu il grande Valentino."
Gianpaolo annuisce, con sguardo serio: non ha mai visto un singolo fotogramma di quest'uomo di cui gli parlo, eppure ne ha intuito l'indiscussa grandezza. Proseguo: "Sai, avevo la tua età quando Mazzola fu acquistato dal Torino. Eravamo nel '41-42, in quella stagione arrivammo secondi sia in campionato che in Coppa Italia per colpa del Venezia. In quella squadra giocava, oltre a Valentino, Ezio Loik: mezzala di Fiume, diede un sensibile contributo alla maiuscolizzazione dell'aggettivo 'grande' che accompagnerà per sempre il loro Torino. Questi due, giocatori da sogno, erano però destinati alla Juventus, pensa un po'. Succede però che, nel maggio 1942, il Toro va al 'Penzo' di Venezia e si porta in vantaggio con Petron, poi i padroni di casa ribaltano il risultato, ispirati dal favoloso duo di mezzali: Ferruccio Novo, il nostro presidente, ricco grazie al cuoio e con un passato da mediocre difensore nelle giovanili granata, fa irruzione negli spogliatoi e stacca un assegno da 1 milione e 200 mila lire. Più Petron e Mezzadri: Mazzola e Loik, strappati ai cuginastri, vestiranno granata. Ecco anche Grezar, dalla Triestina, ma l'avvio è balbettante, con due sconfitte, a Milano con l'Inter ed in casa col Livorno. Alla terza giornata, però, ecco il derby: vinciamo 5-2, Loik e Mazzola firmano rispettivamente il quarto ed il quinto gol. È la svolta. Trionferemo in campionato, superando il Livorno di un punto, ed in Coppa Italia, con un perentorio 4-0 sul Venezia orfano dei suoi gioielli. Siamo i primi a fare doppietta, e - ti giuro - ci fosse stata anche la Coppa Campioni non si sarebbe dovuto aspettare il 2010 per vedere un'italiana trionfare su tre fronti nella stessa stagione."
"Etciù!", m'interrompe Gianpaolo con un poderoso starnuto. Io sorrido, e cerco di dribblare la guerra, perché lui, che ha la fortuna di non viverla in prima persona com'è capitato a me, non deve angosciarsi per colpa dei miei racconti. Quindi, largo al Toro: "Nel '45, finita la seconda guerra mondiale, il calcio si propone come antidoto per la depressione. Un popolo intero, messo in ginocchio, cerca di rialzarsi aggrappandosi alle imprese del Torino, che trionfa nell'arzigogolata Divisione Nazionale grazie anche a tre nuovi innesti: Bacigalupo, di cui hai da poco appreso la pronuncia, il terzino Ballarin e Castigliano, che pur essendo un mediano segna 13 gol in 14 partite nel girone finale che assegna lo scudetto."
"Come..." fa Gianpaolo, ed io lo interrompo prontamente: "Come nessun giocatore che tu abbia mai visto in campo all'Olimpico". Ed incomincio a raccontargli del '46-47: "Anche stavolta, partiamo maluccio, con cinque punti in cinque partite. Poi, sul finire d'ottobre, ci svegliamo a Roma: vinciamo 3-1 contro i giallorossi, e poi infiliamo nove successi ed un pareggio nelle successive dieci partite. Dieci, come i punti di distacco rifilati alla Juve." E guardo gli angoli della bocca del mio nipotino abbassarsi inesorabilmente. So cosa pensa: lui, che per questioni anagrafiche non è riuscito a godersi neppure la stagione in cui in A c'eravamo noi e la Juve soffriva tra Rimini e Frosinone, 10 punti di vantaggio sui bianconeri non li ha mai avuti.
Per risollveargli il morale, snocciolo un po' di cifre, le uniche che conosco a memoria oltre al mio numero di telefono: "65 punti, 125 gol fatti, 39 punti su 40 al Filadelfia, frutto di 19 vittorie in 20 partite, tra cui un memorabile 10-0 rifilato all'Alessandria. Questa è la storia del quarto scudetto, vinto con cinque giornate d'anticipo: devo aggiungere altro?" Gianpaolo fa segno di no con la testa.
"Il campionato successivo, quello del 1948-49, è l'ultimo del Grande Torino. Che si congeda dalla Serie A pareggiando 0-0 sul campo dell'Inter, dove c'ero anch'io per la mia prima trasferta. Quell'Inter, diretta concorrente per il titolo, era staccata di quattro punti: se fossero usciti imbattuti da San Siro, il presidente Novo avrebbe concesso ai nostri una trasferta a Lisbona, per giocare contro il Benfica di Xico Ferreira, amico di Mazzola. Non torneranno mai più." Una lacrima riga il volto di mio nipote.



IL GRANDE TORINO: UN SISTEMA INFALLIBILE
Il Grande Torino giocava benissimo, questo è assodato. Ma come giocava? Numericamente, si potrebbe parlare di un 3-4-3, anzi - a voler essere precisi - di un 3-2-2-3: il centrocampo, anziché in linea come ai giorni nostri, presentava una quadrilatero composto da due mediani (a protezione delle difesa) ed altrettante mezze ali, deputate all'ispirazione degli attaccanti. Questo particolare modulo di gioco, in Italia conosciuto con il nome di sistema, fu ideato dall'allenatore inglese Herbert Chapman, geniale nell'arretrare il centromediano sulla linea dei terzini - dando così vita allo stopper - in risposta alla modifica della regola del fuorigioco da parte dell'International Football Association Board. L'Arsenal di Chapman, utilizzando il WM (dalla disposizione dei calciatori in campo, che ricorda una W sovrapposta ad una M) conquista trofei d'ogni sorta, e ciò convince l'attaccante Felice Borel - appena giunto dalla Juventus, cui tornerà al termine del campionato - e l'allenatore András Kuttik a proporne l'attuazione al presidente Novo, che approva. E i risultati gli danno ragione, perché il Torino si guadagna sul campo l'epiteto di "Grande". Il sistema granata, però, è assai meno rigido di quanto si possa credere, dato che la levatura degli interpreti consente di sperimentare varie soluzioni: ad esempio, spesso capita - in fase di non possesso - di vedere il mediano Grezar scalare in difesa al fianco di Rigamonti, con Ballarin e Maroso sulle corsie esterne, per comporre una innovativa linea a quattro. Ciò, ovviamente, comporta la perdita di un uomo a centrocampo, cui l'ala sinistra Pietro Ferraris sopperisce arretrando in mediana. Quel Torino fu tanto grande quanto innovativo.



IL RICORDO DI ZACCARELLI
Sentir parlare del Grande Torino da chi il Torino l'ha fatto grande per ultima volta, vincendo lo scudetto nel 1976, era doveroso. La chiacchierata con Renato Zaccarelli (28 presenze e 4 gol in quel campionato) è stata quindi occasione per scoprire l'impatto col mondo del Toro di un ragazzo nato ad Ancona, transitato per Catania e torinesizzatosi nel vivaio granata: giunto all'ombra della Mole vent'anni dopo la tragedia di Superga, Zaccarelli racconta che «per apprendere cosa fosse stato il Grande Torino non bastava certo un giorno. Io fui agevolato, perché facendo parte delle giovanili ebbi la fortuna di allenarmi al Filadelfia, ma per comprendere pienamente cos'avesse rappresentato quella squadra per il calcio ed il Paese mi furono necessari anni di vita granata». Di cui il giorno più bello - sono pronto a metterci la mano sul fuoco - fu il 16 maggio '76: Torino-Cesena termina 1-1, i granata tornano a vincere lo scudetto ventisette anni dopo l'orribile schianto. Per Zaccarelli si trattò, oltre che «di una grandissima emozione: passare dal settore giovanile alla vittoria del campionato con indosso la stessa maglia è meraviglioso» anche di «una vittoria dello sport, perché il ritorno al successo del Toro dopo la tragedia fu motivo di gioia anche per chi non faceva il tifo per i granata».


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000