domenica 18 dicembre 2011

11 leoni


Per chi si cimenta nella lettura di queste righe, l'11 novembre 2011 non è che un ricordo. Passato prossimo, magari fuggito via senza neppure dare un'occhiata al calendario, o più semplicemente ad un display, sul quale si sarebbe letto «11/11/11». Se a qualcuno è capitato, può darsi che si sia perso in quella marea di «1» in fila per due, e se quel qualcuno è un calciofilo - come il sottoscritto - di certo un pensierino al suo «11» preferito l'avrà fatto. Segue una rassegna di «undici 11», selezionati non per meritocrazia ma perché degni d'essere raccontati.

Gigi Riva
«Rocco Sabato! Chi era costui?», avrebbe ruminato in poltrona Don Abbondio, se Manzoni fosse stato un nostro contemporaneo ed il prete in questione appassionato di calcio. Perché Rocco Sabato, onesto difensore oggi in forza al Sorrento, è stato l'ultimo calciatore del Cagliari ad avere l'onore d'indossare la maglia numero 11, quella che appartenne a «Giggirriva». Inspiegabilmente - perché la sua patria è la Sardegna - nato a Leggiuno, in Lombardia, la morte del padre Ugo lo porta in collegio: Varese, Viggù, persino Milano, ma lui non fa che scappare. Insegue qualcosa, ma cosa? La libertà, la libertà di far gol. La trova al Legnano, in Serie C, diciottenne: segna 6 gol, cui ne aggiunge 207 con la maglia del Cagliari. In azzurro, 35 marcature, due tibie ed un perone rotti. Evidentemente, l'unico numero mai avuto in comune con Rocco Sabato è stato l'11 della maglia.

Mágico González
«Più grande di Maradona», secondo Diego Armando Maradona. Che però diceva lo stesso dello sciagurato fratello Hugo. Miglior calciatore salvadoregno di ogni epoca. Nonostante sia ancora vivo e vegeto, l'«Estadio Nacional de la Flor Blanca» di San Salvador porta il suo nome. Ecco, Jorge Alberto González Barillas, «el Mago» a casa sua, «Mágico» al di qua dell'Atlantico, è questo. E molto, molto di più. In campo dispensa tunnel, rabone e colpi di tacco, fuori si rivela discreto tombeur de femmes. A Cadice, dove dispensa classe e mattane, è considerato una leggenda. Perché? Un paio di flash: Trofeo Ramón de Carranza, anni 80, il Barcellona vince 1-0 e di González non c'è traccia. Si palesa negli spogliatoi - visibilmente assonnato - all'intervallo, entra in campo e, con due gol e altrettanti assist, ribalta il risultato. Poi - siamo nel 1984 - il Barça lo porta in tournée negli Stati Uniti dopo la retrocessione del Cadice, ma nell'hotel californiano in cui alloggia la squadra scoppia un incendio. Maradona dà l'allarme, tutti fuori! Tranne uno: Mágico González, rimasto in camera. Ovviamente, in dolce compagnia.

Pavel Nedvěd
Un mistero biondo. Calcio e scienza difficilmente riusciranno a spiegare Pavel Nedvěd da Cheb, in riva al fiume Ohře. Non ha mai vinto la Coppa dei Campioni, eppure il suo palmarès trabocca di riconoscimenti, anche individuali (leggi: Pallone d'oro 2003): tanto basta per turbare i sonni dei più accaniti calciofili. La medicina, invece, ha secondo me indagato in maniera troppo poco approfondita sulle sue doti atletiche: personalmente, sospetto che Nedvěd possieda almeno un polmone supplementare, ed anni e anni di sgroppate sulla fascia non fanno che avvalorare la mia tesi. Ora occorre però tornare seri, per celebrare la grandezza di questo fuoriclasse, sceso persino in B per amore della Juventus, il cui sogno ricorrente ha e temo continuerà - purtroppo - ad avere delle grandi, grandissime orecchie ed un colorito argenteo.

Canhoteiro
Presente Garrincha? Bene. Ora immaginatevelo mancino, all'ala sinistra, con l'11 sulle spalle - ovvio, altrimenti non sarebbe menzionato - e le gambe di uguale lunghezza. Da Coroatá, stato del Maranhão, Nordeste, José Ribamar de Oliveira regala dribbling ed emozioni ai tifosi del San Paolo per 10 anni e 415 partite, cui 103 gol fanno da contorno. Idolo di un Pelé infante, non poté condividere con il celeberrimo ammiratore la gioia del trionfo in Coppa del Mondo nel 1958 perché scavalcato da Pepe e Zagallo, tatticamente più avveduto, nelle gerarchie del C.T. Vicente Feola. Muore, neppure quarantuaduenne, a San Paolo, il 16 agosto 1974. Come Garrincha, ma all'ala sinistra, e mai con la stessa maglia: neppure la Seleção ebbe mai l'onore di schierarli contemporaneamente sulle fasce.

Preben Elkjær
«Cavallo pazzo». Perché corre, all'ala sinistra e pure in macchina. Atterrisce Briegel sfrecciando in pieno centro a Verona, replica il 14 ottobre 1984 traumatizzando Pioli e Favero: quinta giornata del campionato che vedrà gli scaligeri trionfare, Preben s'invola sulla fascia e li fa secchi entrambi, rientra sul destro ed infila Tacconi. Con morbidezza: il cuoio viene baciato dal piede nudo di Elkjær, rimasto privo dello scarpino nel contrasto con Pioli. Uno scalmanato, dentro e fuori dal campo. Come potrebbe testimoniare il suo ex allenatore Hennes Weisweiler, se la morte non l'avesse privato del fiato: anni 70 agli sgoccioli, il Colonia acquista il danese dal Vanløse e lui dà un contributo marginale alla doppietta (Campionato e Coppa di Germania) del '78, ma un suo dialogo con Weisweiler va necessariamente riportato. All'allenatore giunge voce che Elkjær abbia trascorso la notte in un night, in compagnia di una donna ed una bottiglia di whiskey. «È così, Preben?», chiede Weisweiler. «Assolutamente no: la boccia conteneva vodka, e le donne erano due», è la serafica replica Elkjær.

Siniša Mihajlović
Il numero 11, per Siniša ed il suo ammaliante piede sinistro, divenne ben presto il retaggio di un dolce passato. In Jugoslavia, vestito di bianco e rosso (Vojvodina prima, Stella Rossa poi) quel numero l'accompagnava sulla fascia sinistra. Sedotto dalla Serie A, si ritrova a proteggere la difesa sotto gli ordini di Mazzone, e Boškov lo schiera addirittura terzino sinistro. Un destino calcisticamente benevolo si ricorda del figlio di Borovo Naselje, quando Eriksson lo inventa difensore centrale: Franceschetti è stato espulso in Coppitalia, e Siniša ha l'occasione di far valere le proprie doti in quest'inedito ruolo. Che non abbandonerà più. Nonostante la nuova collocazione tattica, però, Mihajlović non perde il vizio del gol: con la Lazio, alla prima da ex contro la Sampdoria, segna tre-gol-tre su calcio di punizione, la sua specialità. Alcuni ricercatori del Dipartimento di Fisica dell'Università di Belgrado si prendono la briga di esaminare il fenomeno, giungendo alla conclusione che il sinistro di Siniša raggiunge i 165 km/h. Come ci riesce? Be', non crederete mica che siano riusciti a scoprirlo.

Marc Overmars
Al cuor non si comanda. Non è così, Marc? Raccontarne i cross, gli infortuni e i dribbling sarebbe scontato, oltre che troppo semplice. Il ritorno in pista di un trentacinquenne Marc Overmars, tornato ad indossare la maglia del Go Ahead Eagles dopo un quadriennio di inattività per amore del gioco e della squadra, si merita invece ben più di qualche goccia d'inchiostro. Eccoci quindi proiettati nel passato: Amsterdam Arena, 26 luglio 2008, Jaap Stam conclude la propria carriera con la più classica delle partite a base di baci e abbracci. Però Overmars, che s'allena una volta a settimana con l'ex compagno Paul Bosvelt (Feyenoord e Manchester City nel suo passato), la prende più sul serio del previsto, e manda in bambola Ogăraru, ai tempi terzino dell'Ajax. Il mattino dopo squilla il telefono: ci torneresti a Deventer? Ma certo! Al cuor non si comanda.

Romário
Mille? Sì. No. Chissà. La matematica non è mai stata il mio forte, quindi le discussioni sui gol effettivamente segnati dal Baixinho le lascio agli appassionati di statistiche. L'unico numero che effettivamente m'interessa - indovinate un po' - è l'11. Che, in onore di Romário de Souza Faria, è stato ritirato dal Vasco da Gama, la società che l'ha visto nascere e morire in senso puramente calcistico. Al popolo vascaíno ha regalato magie ed emozioni, ad intervalli regolari - relativamente alla controversa carriera del personaggio - con tre ritorni alla casa madre, dopo aver consumato le reti d'Europa in Olanda (PSV Eindhoven) e Spagna (Barcellona e Valencia) e, mai sazio di gol, dato un assaggino finanche a quelle qatariote (Al-Sadd), statunitensi (Miami FC) ed australiane (Adelaide United). Sempre, o quasi, con l'11 stampato sulla maglia ed il piede - così come, spesso, anche la testa - più che caldo, incandescente.

Francisco Gento
Indossò il numero 11. Forse. Perché alla velocità con cui sfrecciava sulla fascia sinistra era pressoché impossibile leggere il numero scritto sulla sua maglia. Di color bianco Real Madrid, per 428 volte in diciott'anni. Volati via, come una galerna. Cos'è una galerna? Una tempesta che si abbatte, in primavera ed autunno, sulle coste della Cantabria. Chi è «la Galerna del Cantábrico», inteso come mar Cantábrico? Paco Gento, da Guarnizo, 9 chilometri da Santander. Lì semina i primi terzini, poi lo recluta il Madrid. Con le «Merengues», Gento disputa 9 finali europee, otto delle quali in Coppa dei Campioni, salotto buonissimo del calcio europeo che frequenta per quindici anni consecutive. Di queste otto finali, record condiviso con Paolo Maldini, ne vince sei: cinque filate, più quella del '66, da capitano del Real Madrid «Yé-yé».

Ryan Giggs
Undici. 11, uno-uno. Un nome, una squadra. Be', non proprio. Perché, sino ai quattordici anni, Ryan Joseph da Pentrebane (distretto situato nella parte occidentale di Cardiff) faceva di cognome Wilson e giocava nel Manchester City. Elencarne i trofei o i recenti scandali sarebbe troppo banale, meglio quindi approfondire il discorso sull'infanzia di Giggs. Che, venuto alla luce al St. David's Hospital di Cardiff, fu costretto a trasferirsi a Salford (contea del Greater Manchester) dal passaggio del padre Danny - cognome: Wilson, ruolo: mediano... d'apertura, 5 caps con il Galles - agli Swinton Lions. Primi calci nei Deans, allenati da uno scout del City, che fiuta l'occasione e recluta l'imberbe Ryan. Accade però che, il 29 novembre 1987, giorno del suo quattordicesimo compleanno, Alex Ferguson piomba a casa sua: l'offerta è di quelle che non si possono rifiutare. Il resto è storia.

Mario Corso
Mario Corso risponde al telefono, ed io mi presento: «Sono Antonio Giusto, e, per conto di Calcio 2000, sto scrivendo un articolo sui più grandi numeri 11 che noi appassionati di calcio abbiamo avuto la fortuna di ammirare...». Lui m'interrompe: «Ah sì? Ed io cosa c'entro?». Tanto grande quanto modesto, Mariolino. Poi, si parte con l'intervista.

Iniziamo con due parole su Skoglund e Rummenigge, grandi numeri 11 con cui lei ebbe a che fare in nerazzurro: compagno di squadra ed erede di «Nacka», fu allenatore di Kalle nel 1986.
«Skoglund fu un fantasista eccezionale, tra i più grandi del suo tempo. Rummenigge era una macchina da gol, avrebbe fatto comodo a qualsiasi squadra».

Dica, è vero che «Nacka» lanciava in aria una monetina, la colpiva col tacco e questa terminava la propria parabola nel taschino della sua giacca?
«Verissimo: gliel'ho visto fare, ed in più di una occasione».

Ora, veniamo a lei. Come nacque la celeberrima «foglia morta»?
«Da ragazzo, quando giocavo nel San Michele, c'era Nereo Marini ad allenarmi: aveva intuito le mie potenzialità, e così, al termine di ogni seduta, trascorrevo un'oretta in più sul campo per migliorare in questo fondamentale. Avevo un buon piede, ma ho anche lavorato moltissimo per conseguire tali risultati».

Restando in tema di foglie morte: 7 marzo 1971, Inter-Milan 2 a 0. Lei segna il secondo gol, ovviamente su calcio di punizione, e lo scudetto inizia a colorarsi di nerazzurro, dopo che il Milan era arrivato ad avere anche 7 punti di vantaggio in classifica. Questa la sua punizione-gol più importante?
«A pari merito con quella segnata nel ritorno della semifinale di Coppa dei Campioni del '65, contro il Liverpool. Dopo il 3-1 subito ad Anfield, nella partita di ritorno vincemmo 3-0: io aprii le marcature dopo 8 minuti».

Il gol che ricorda con maggiore affetto, però, presumo sia quello segnato contro l'Independiente nello spareggio dell'Intercontinentale '64. Sbaglio?
«No, non sbagli. A quel tempo, la Coppa Intercontinentale era un trofeo prestigiosissimo, e segnare il gol decisivo in finale era un evento di cui andar fieri».


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

domenica 11 dicembre 2011

Mi prendo una pausa

A causa di alcune cose lette, viste e sentite, la voglia di parlar di calcio è venuta meno. Pubblicherò un paio di articoli destinati a Calcio 2000 (uno sul numero in edicola, un altro su quello in uscita) e poi il blog chiuderà i battenti a tempo indeterminato.

giovedì 8 dicembre 2011

Calcio d'angolo - Quando conta l'esperienza

Champions League: Borussia Dortmund - Olympique Marseille, Ilkay Guendogan


Clamorosamente ricchi di sorprese (Manchester fuori, intesa come città) e polemiche - ah, la Dinamo Zagabria e i suoi occhiolini - si è conclusa ieri la fase a gironi della Champions League. Era ora. Anche se per i tanto agognati ottavi di finale ci tocca attendere la metà di febbraio. Io però, anziché lanciarmi in avventati pronostici sugli accoppiamenti, voglio porre l'attenzione su quelle che - a mio modestissimo parere - sono state le due più grandi delusioni di questa prima parte dell'annata calcistica europea. E no, non mi riferisco al declassamento in Europa League di Mancini e Ferguson, e neppure alla prematura eliminazione del Porto che fino a sei mesi fa incantava il continente con il suo calcio lussureggiante.

Parlo invece di Lilla e Borussia Dortmund, la «peggio» gioventù d'Europa. Un anno fa, di questi tempi, entrambe prendevano coscienza del fatto che l'idea di vincere il campionato non era poi così stramba: qualche mese più tardi, difatti, erano loro a far festa, addirittura doppia per i biancorossi, capaci di mettere in bacheca anche la Coppa di Francia. Sui giornali ed in televisione, largo alle imprese di Götze e Hazard, Gervinho e Şahin, ed al gran calcio espresso dalle squadre allenate da Klopp e Garcia. Inutile dire che in moltissimi - tra cui il sottoscritto - le pronosticavano tra le possibili sorprese della Champions League che sarebbe venuta.

Dopo un'ultima notte vissuta col fiato sospeso, alla ricerca di una rocambolesca combinazione d'eventi necessaria per superare il turno, eccole fuori. Dall'Europa: neppure capaci di agguantare il terzo posto, e con esso la consolazione dell'Europa League. Le ragioni? Qualcuno potrebbe parlare di una campagna estiva che ha privato entrambe di un gioiello: Şahin è finito al Real Madrid per un tozzo di pane, mentre Gervinho ha scelto l'Arsenal di Wenger. Gündoğan e Perišić, Payet e Joe Cole, hanno però rispettivamente sposato le cause di Borussia Dortmund e Lilla: non sempre «Two is megl che One», ma di sicuro è meglio di niente.

Motivo dell'eliminazione, secondo me, un'esperienza pressoché assente in entrambe le squadra, eppure necessaria a questi livelli. Rimonte su rimonte subite da un Lilla incapace di amministrare il vantaggio, una sola - ma tremenda - quella incassata dal BVB: contro il Marsiglia, nell'ultimo turno, si è passati dal 2-0 al 3-2, in casa propria, incassando due gol a cavallo tra l'85esimo e l'87esimo. Che l'esperienza conti, poi, lo hanno dimostrato anche le italiane: per una volta, siamo gli unici ad aver raggiunto i quarti con tutte le nostre rappresentanti. Che, all'inizio della competizione, occupavano primo (Milan), terzo (Inter) e quinto (Napoli) posto nella classifica delle squadre più vecchie presenti al via della Champions League. Intruse, l'APOEL Nicosia e lo Zenit San Pietroburgo, rispettivamente seconda e quarta: anche loro agli ottavi, a discapito delle favorite - almeno secondo il coefficiente UEFA - Porto e Shakhtar Donetsk.


Antonio Giusto

Fonte: Goal.com