domenica 28 febbraio 2010

Udinese-Inter 2-3: Super-Mario = Super-Inter... ma che sofferenza!



All'Inter basta un convincente primo tempo per aver ragione dell'Udinese, pericolosissima nella ripresa ma incapace di rimontare due reti. Nonostante il successo del Milan, i nerazzurri mantengono invariato il vantaggio ed allungano addirittura sulla Roma, bloccata a Napoli da Hamsik e Denis. L'Udinese ringrazia il Siena: se il Livorno avesse fatto bottino pieno nel derby toscano, adesso avrebbero un solo punto di margine sulla zona retrocessione.

In campo - A causa delle innumerevoli assenze, Mourinho è costretto ad inventarsi Thiago Motta difensore centrale: allo sfavillante Lucio delle ultime settimane il compito di guidarlo. A Stankovic e Mariga toccherà erigere una solida diga dinanzi alla difesa per consentire all'ispiratore Sneijder ed al trio d'attacco composto da Milito, Balotelli e Pandev di agire in libertà. Eto'o, affaticato, parte dalla panchina. Marino risponde con un intraprendente 3-4-3: Pepe, Sanchez e Di Natale compongono un trio d'attacco «undersized», a centrocampo Sammarco viene preferito a Kwadwo Asamoah e Cuadrado rileva l'acciaccato Isla. Terza linea: Zapata, Coda e Lukovic.

Si gioca - La fortuna aiuta gli audaci, o almeno così dice il detto, puntualmente rispettatto dall'Udinese: neppure 90", ed un break del colombiano Cuadrado consente a Di Natale d'inventare un gustosissimo pallone filtrante che Pepe raccoglie e deposita alle spalle di Julio Cesar. Maicon, non esente da colpe (anziché seguire l'uomo, in occasione del gol si «alza» alla ricerca del fuorigioco), trova il modo per riscattarsi parzialemente: al 5' serve un pallone antipatico a Balotelli, ma il «45» se ne infischia e, dopo averlo addomesticato con la suola, lo scaraventa in porta... un gol straordiMario! La redenzione del «Colosso» si completa al 20', quando avvia e conclude un'azione stupenda: Milito per Pandev, che serve di prima l'accorrente terzino, gelido nel fulminare Handanovic con un siluro diretto sotto la traversa. L'Udinese palesa evidenti limiti di gioco, affidandosi più alle iniziative individuali che non al gioco di squadra. L'Inter, dal canto suo, fa l'esatto opposto: ognuno gioca per il compagno, e il gioco ne trae enorme giovamento, soprattutto quando si ha l'opportunità di andare in campo aperto. Nel finale della prima frazione, l'Inter legittima ulteriormente il proprio vantaggio: Milito prende il tempo al mediocre Lukovic ed indirizza in porta un cross da sinistra pennellato da Balotelli.

Complici i comuni impegni infrasettimanali, le squadre finiscono per allungarsi. Il che significa maglie più larghe e spazi in abbondanza, proprio ciò di cui ha bisogno l'Udinese per riaprire la partita. Dopo un roboante avvio, il gol arriva su rigore al 7': Di Natale calcia sul palo alla destra di Julio Cesar, poi il pallone rotola in rete per il 3-2. Polemiche friulane: in seguito al fallo di mano in barriera di Balotelli c'aveva pensato Pepe a ribadire in rete il pallone, ma Bergonzi aveva già fischiato. Il prosieguo è a tinte bianconere, con l'Udinese protesa in avanti alla ricerca di un pareggio che, a conti fatti, non sarebbe stato immeritato, anzi. Marino sbilancia la squadra in avanti inserendo Asamoah (al posto di Pasquale, 64') e Geijo (per Sammarco, all'80'), Mou si copre con Materazzi (al posto di Balotelli, il cui ingresso consente a Motta di tornare a centrocampo) e regala qualche minuto a Khrin, oltre a buttare nella mischia un Eto'o apparso bisognoso di riposo. Nonostante i cambi, la poca concretezza sotto porta e la sfortuna (anche l'arbitro, per un indemoniato Pepe), negano il punto all'Udinese, il cui urlo di gioia viene strozzato in gola dalla traversa colpita da Inler a tempo ormai praticamente scaduto.

La chiave - La transizione offensiva dell'Inter è fenomenale. Congiunta alla fame di vittoria, costituisce una formula infallibile per il successo. Quando possono andare in campo aperto, i piedi fatati dei nerazzurri regalano spettacolo a chi guarda e guai a chi li subisce.

La chicca - Il gol di Maicon manda in visibilio il pubblico di fede nerazzurra. L'azione, avviata proprio dal brasiliano, è una gioia per gli occhi: tutto di prima, tutto al volo. E la fucilata con cui il «Colosso» la chiude in porta è roba per palati fini. Chapeau.

Top&Flop - Balotelli, ispiratissimo nel primo tempo, cala nella ripresa ma marchia a fuoco il match: gol splendido e assist per Milito. Maicon corre e segna, anche se spesso gli manca lucidità. Lucio, come consuetudine di recente, è insuperabile. Udinese: Cuadrado è una vera spina nel fianco per la difesa nerazzurra; Pepe superbo: corre e segna; Di Natale, invece, è sempre il solito goleador, bravo nel mantenere invariato il distacco da Milito in classifica cannonieri. Male l'intera difesa bianconera, poco partecipi Sammarco e Inler. Tra i nerazzurri sottotono Pandev, mentre Mariga si limita al compitino, così come Zanetti, ma il capitano è giustificato: la fasciatura alla coscia è troppo evidente per passar inosservata. Eto'o ha bisogno di rifiatare.

Antonio Giusto

IL TABELLINO

UDINESE-INTER 2-3

MARCATORI: 2' Pepe (U), 6' Balotelli (I), 20' Maicon (I), 45' Milito (I), 52' Di Natale (rig., U).

UDINESE (3-4-3): Handanovic 6; Zapata 5,5, Coda 5, Lukovic 5; Cuadrado 7, Inler 5,5, Sammarco 5 (80' Geijo s.v.), Pasquale 6 (64' Asamoah 6); Sanchez 6, Di Natale 6,5, Pepe 7. Allenatore: Marino 6.

INTER (4-2-1-3): Julio Cesar 6,5; Maicon 6,5, Lucio 7, Thiago Motta 6, Zanetti 6; Mariga 6, Stankovic 6,5; Sneijder 6 (92' Khrin); Pandev 5,5 (72' Eto'o 5), Balotelli 7 (82' Materazzi), Milito 6,5. Allenatore: Baresi 6.

ARBITRO: Bergonzi 5,5

AMMONITI: Coda, Sammarco, Asamoah (U), Zanetti, Balotelli, Stankovic (I).

Fonte: Goal.com

venerdì 26 febbraio 2010

Collaborazione con Calcio 2000



Sono fiero di comunicarvi il mio approdo su carta stampata: da questo mese, infatti, faccio ufficialmente parte della «squadra» di collaboratori di Calcio 2000, il mensile calcistico più venduto in Italia.

martedì 23 febbraio 2010

Mourinho lo stratega

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Che stratega, José Mourinho. E pensare che coloro che tanto lo criticano si stanno trasformando nei suoi principali alleati. Senza saperlo, tra l'altro. Tagliavento per primo, applicando alla perfezione il regolamento, ha offerto al tecnico nerazzurro la possibilità di mettere in pratica il suo diabolico piano. È bastato un gesto, abbastanza equivoco per giunta, per sobillare San Siro - quello che, fino a poco tempo, lo stesso protoghese aveva definito «troppo freddo» in maniera lungimirante. Gli è stato sufficiente mimare delle manette, e 40000 persone almeno hanno improvvisato una pañolada a base di carta igienica: non un bel vedere, ma sufficiente per trasformare il «Meazza» in una bolgia dantesca. La reazione in campo è stata direttamente proporzionale al subbuglio venutosi a creare nei pressi del terreno di gioco: i nerazzurri, infischiandosene della doppia inferiorità numerica, hanno messo in soggezione la Sampdoria, rischiando addirittura di portare a casa i tre punti. Un battaglia vinta per Mou, che dovrà ripetersi contro il Chelsea mercoledì se vuole vincere la guerra e portarsi a casa la Coppa dei Campioni.
Ecco, il Chelsea. È dietro l'angolo, e la seconda parte del piano di Zé è ormai prossima alla prova del nove. Come suo solito, il tecnico portoghese ha esagitato gli animi. Stavolta, però, c'è stato bisogno di fare gli straordinari: per esorcizzare la paura dell'Europa, attecchita sin troppo bene alla Pinetina, c'era bisogno di mettersi contro tutti, ma proprio tutti. «Tutti», ovviamente ben felici di poter dare addosso al presuntuoso signore portoghese, non hanno avuto remore nell'attaccarlo, incoscienti del fatto che fosse proprio ciò che Mourinho voleva da loro. Anche Moratti ha fatto la sua parte: telefonatina ad Abete prima, commento piccato poi («sentenza ridicola») in riferimento alle decisioni del giudice sportivo Tosel, insolitamente pronte già al martedì, guarda caso la vigilia della supersfida Champions.
Descritta la situazione, ora bisogna spiegare perché Mou si è andato a cercare tutta questa ostilità. Per destabilizzare l'ambiente, ghignerà qualcuno. Invece no, l'intento di Mourinho è diametralmente opposto: cementificare il gruppo, come già fatto ad Oporto ed a Londra, naturalmente con risultati lusinghieri. Al momento di scendere in campo contro i Blues, almeno nelle intenzioni del suo allenatore, l'Inter dovrà ripensare a quanto accaduto in questi giorni: alle critiche, alle perfidie, alle - presunte - ingiustizie, ed incanalare questa rabbia nel gioco, dimenticando le apprensioni tipiche delle ultime campagne europee della Beneamata.
Se così sarà, molti dovranno chinare il capo e porgere le proprie scuse al tanto criticato «Special One». In caso contrario, si inizierà a discutere del suo successore.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 22 febbraio 2010

Ladislao Mazurkiewicz, il numero uno più temuto da Pelé...

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Estadio Jalisco, Guadalajara. È il 17 giugno 1970, Brasile ed Uruguay si stanno dando battaglia per un posto in finale. Secondo tempo, siamo due a uno per il Brasile, Tostão inventa un sinistro filtrante per Pelé: Mazurkiewicz, portiere uruguagio, esce dai pali. «O Rey» lo manda col culo per terra: finta di corpo a sinistra, deragliamento a destra. Il tutto senza sfiorare la sfera, agguantata ad un passo dalla linea di fondo e scagliata verso la porta. Fuori di un centimetro, è il «non gol» più bello della storia. Fosse entrata, si sarebbe comunque trattato di un evento: di fronte a sé Pelé non aveva un portiere qualsiasi, aveva Ladislao Mazurkiewicz. «El arquero nero», meglio di Jascin, meglio di tutti per Pelé, che ne aveva fatto la conoscenza cinque anni prima in una sciagurata semifinale di Coppa Libertadores: fuori il Santos, con l'allora giovanissimo «Mazurka» indiscusso protagonista.
Ma riavvolgiamo il nastro della storia, e andiamo a scoprire le origini di quello che sarebbe poi diventato il più grande portiere nella storia della «Celeste», la Nazionale di calcio uruguagia. Nato a Piriapolis il 14 gennaio 1945 da padre polacco e madre spagnola, il piccolo Ladislao s'era innomorato della palla sbagliata: quella a spicchi. Di statura media (179 centimentri, appena sufficienti per un portiere) e tecnica approssimativa, la pallacanestro non faceva per lui. Poi, un bel giorno, un osservatore del Racing Club di Montevideo notò questo tredicenne dai riflessi felini: da lì alla prima squadra fu un attimo. Ad appena 16 anni l'esordio, quindi due promozioni e la prestigiosa chiamata del Penãrol, con cui fronteggerà per la prima volta Pelé. Causa l'indisponibilità del titolare Maidana, Mazurkiewicz si ritrova in campo contro il Santos: è il 31 marzo 1965, semifinale di Coppa Libertadores. Lui para tutto, il Penãrol va in finale. Gli «Aurinegros» soccombono all'Independiente, ma si rifanno nell'edizione successiva contro il River Plate: Libertadores in bacheca, medesimo destino per l'Intercontinentale, vinta ai danni del Real Madrid nel '67. Manco a dirlo, contro le Merengues il nostro è uno dei migliori in campo, ma al Real non se ne accorge nessuno: gli vengono preferiti Araquistain e Betancourt. «Mazurka» ha appena ventidue anni, eppure ha già vinto e parato praticamente tutto, oltre ad aver fatto sfoggio della propria classe ai Mondiali inglesi del 1966: mantiene clamorosamente inviolata la propria porta all'esordio contro i padroni di casa, ed a fine torneo viene votato come terzo miglior portiere della manifestazione.
E siamo all'immaginifico dribbling di Pelé, che diventerà un abituale avversario del fuoriclasse uruguagio: nel 1971 Mazurkiewicz si trasferisce in Brasile, all'Atletico Mineiro, con cui vince immediatamente il «Primeiro Campeonato Nacional de Clubes», prima edizione del campionato brasiliano a livello nazionale. Tre anni al «Galo», poi il Mondiale 1974 e la brevissima avventura europea: una stagione al Granada, miracolosamente salvato dalla Segunda Division. Quindi il ritorno in Sud America con Cobreloa, America di Cali e di nuovo Penãrol nel 1981. In panchina c'è Luis Cubilla, storico leader della selezione uruguagia, che facendo appello al suo grande carisma lo convince a far da chioccia alla giovane promessa Fernando Alvez. Per un solo anno però, visto che «Mazurka» preferisce appendere i guantoni al chiodo per riciclarsi come preparatore dei portieri: sa bene di essere ancora troppo forte per marcire in panchina.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

domenica 21 febbraio 2010

Promossi&Bocciati di Inter-Sampdoria: Mou 'vince' anche in nove. Cambiasso super, Pazzini ingenuo

Le proteste di capitan Zanetti nei confronti di Tagliavento dopo l'espulsione di Samuel durante Inter-Sampdoria (Getty Images)

Cambiasso: L'Inter va sotto di due uomini, ma lui non perde la calma, pare non ne sia capace. Fortunatamente è l'unica cosa che non sa fare: trequartista in Argentina, mediano in Spagna, anche difensore in Italia. Non sbaglia niente, è lui il migliore in campo. Voto 7,5

Pozzi: Non è un attaccante da 20 goal a campionato, neppure da 10 se è per questo. Ma quando è in campo la sua presenza conta, eccome se conta: due espulsioni procurate ed un colpo di testa che per poco non faceva secco Julio Cesar. Poco altro, però. Voto 6,5

Tagliavento: La stragrande maggioranza delle decisioni prese sono ineccepibili. Il rosso a Samuel ci sta tutto, meno quello a Cordoba, estratto forse con troppa foga. Giusta l'ammonizione comminata ad Eto'o per simulazione. Sbaglia, semmai, nel lasciare che la partita s'accenda: troppi calci, a questi livelli, non possono essere tollerati. Voto 5

Milito: Encomiabile. La squadra è sotto di due uomini, lui corre per gli assenti: gioca spalle alla porta, lotta contro il difensore avversario, fa salire la squadra e guadagna pure qualche corner, che in simili situazioni non guasta mai. Gli interisti si augurano giochi così anche contro il Chelsea, allora sì che il passaggio del turno smetterà di essere un'utopia. Voto 7

Pazzini: Pazzo di nome, ma stavolta anche di fatto. Entrambi i cartellini rimediati sono dovuti ad evitabili escandescenze: il calcetto a Lucio è una sciocchezza, così come l'intervento su Stankovic che gli costa l'espulsione. Mezzo voto in più per il bel pallone servito a Poli nella prima frazione, unica giocata degna di nota nella sua partita. Voto 4,5

Stankovic: Ritorno in campo dopo quasi due mesi, ma non se ne accorge nessuno. Parte mezzala, conclude mediano: corre per chi non c'è. In campo 90 minuti, si capisce a fine partita che ne avrebbe fatto volentieri a meno: rosso come un peperone, ma contento per il prezioso punto ottenuto. Voto 6,5

Storari: Il portiere blucerchiato compie il suo dovere, regalandosi qualche applauso in occasione del colpo di testa a sventare l'azione dell'Inter «creato» nel primo tempo. Su Eto'o, poi, si supera: senza quell'intervento, a quest'ora staremmo parlando di una clamorosa sconfitta per la Samp, incapace di sfruttare un doppio vantaggio numerico. Voto 7

Mourinho: Coraggioso nell'arretrare Cambiasso sulla linea difensiva in seguito all'espulsione di Cordoba, viene ripagato dal «Cuchu». Guida i suoi in una partita di difficilissima interpretazione, conclusa a reti bianche ma importante come una vittoria. Voto 7

Del Neri: Si ostina a tener fuori Cassano, la cui genialità avrebbe indubbiamente giovato alla spenta Sampdoria di stasera. Non convince l'approccio mentale dei suoi alla ripresa: ci si sarebbe aspettata una fame
maggiore da una squadra cui si presenta l'opportunità di andare a vincere a San Siro. Il pari, comunque, gli va tutt'altro che stretto, come dimostrano le indicazioni date ai suoi nel finale di gara. Voto 5,5

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

Inter-Sampdoria 0-0: Finisce in nove contro dieci, Tagliavento protagonista

L'arbitro Tagliavento mostra il rosso a Cordoba durante Inter-Sampdoria (Getty Images)

Nonostante l'inferiorità numerica (doppia per oltre 35 minuti), l'Inter riesce a salvare la pellaccia. Mourinho, dal canto suo, si gode - anche se non lo dà a vedere - gli otto anni di imbattibilità casalinga: l'ultima sconfitta interna per lo «Special One» risale al 23 febbraio 2002, una vita fa. Del Neri ha invece ottime ragioni per prendersela con i suoi: non si può dilapidare un doppio vantaggio numerico, neppure contro la corazzata nerazzurra.

In campo - Complice l'assenza di Santon (affaticamento muscolare), Javier Zanetti scala sulla linea dei difensori. A centrocampo si rivede Stankovic dopo quasi due mesi, mentre Cordoba parte al fianco di Samuel per far rifiatare Lucio, atteso dall'ostico duello infrasettimanale con Drogba. Davanti, Eto'o torna a far coppia con Milito. Sampdoria: Cassano ancora fuori, al suo posto Pozzi. Guberti preferito a Mannini sulla fascia sinistra. Terzini Zauri e Ziegler.

Si gioca - Delneri, ben conscio della superiorità tecnica dell'Inter, prova a vincere la battaglia con i nerazzurri sul piano tattico: Pozzi va a far pressione su Cambiasso in fase di non possesso, Sneijder è obbligato a rinculare nella propria metà campo per ricevere palla a causa dell'asfissiante pressione esercitata su di lui dalla premiata ditta Palombo&Poli; infine gli esterni, Guberti e Semioli, giocano più stretti al fine di arginare le iniziative delle mezzali nerazzurre Stankovic e Muntari. L'Inter la mette sul piano del gioco, facendo intravedere buone trame, mai però in grado di sbloccare il risultato. Alla mezz'ora la
partita cambia volto: fallo da ultimo uomo di Samuel (già ammonito, tra l'altro) su Pozzi, espulsione ineccepibile. Gli animi però prendono fuoco facilmente, e questa scintilla basta e avanza: urla, spintoni, calcetti (Pazzini su Lucio, subentrato a Muntari). E al 38' va fuori anche Cordoba: ammonito in occasione della punizione successiva all'espulsione di Samuel, il colombiano commette un ingenuo fallo su Pozzi, che accentua la caduta e induce Tagliavento a mandar fuori il «2» nerazzurro. Mourinho non perde la calma, arretra Cambiasso sulla linea dei difensori ed attende la fine del primo tempo, che si conclude a reti bianche.

I due rossi estratti da Tagliavento nella prima frazione rendono monotona la ripresa: la Sampdoria allarga oltremodo gli esterni, cercando di dilatare il campo ma con risultati vani. Mourinho dispone i suoi con un ordinato 4-2-1-1, con Eto'o costretto ad aiutare il centrocampo più di quanto faccia di solito. L'inconcludenza della Samp, il cui giro-palla appare spesso fine a se stesso, finisce col consentire all'Inter di rendersi pericolosa in avanti: al 78' Eto'o, imbeccato dal neo-entrato Pandev, calcia a botta sicura ma un superbo Storari gli nega la gioia di un clamoroso vantaggio. Visto e considerato il rosso rimediato da Pazzini (intervento in ritardo su Stankovic nell'area di rigore nerazzurra, seconda sciocchezza del match per l'ex atalantino), Del Neri s'accontenta del pari e finisce col comandare ai suoi di tener palla in attesa del fischio finale di Tagliavento, che arriva puntuale dopo quattro minuti di recupero.

La chiave
- Sotto di due uomini, Mourinho sceglie coraggiosamente di non utilizzare vanamente un cambio: arretra Cambiasso sulla linea dei difensori. Non se ne pentirà: l'argentino, complice la sicurezza infusa da Lucio, disputa una partita perfetta, risultando il migliore in campo.

La chicca - 10° minuto: Storari esce di testa per evitare di prendere il pallone con le mani fuori dall'area di rigore. Elevazione da centravanti e tempismo da difensore, complimenti.

Top&Flop - Cambiasso e Lucio sono insuperabili, il lavoro del rientrante Stankovic merita solo applausi. Milito si sbatte, Eto'o pure. Nella Samp manca l'apporto degli esterni, mentre Pozzi fa il suo dovere. Ovvie insufficienze per gli espulsi.

Antonio Giusto


IL TABELLINO

INTER-SAMPDORIA 0-0

INTER (4-3-1-2): Julio Cesar 6; Maicon 6,5, Cordoba 4,5, Samuel 5, Zanetti 6; Stankovic 6,5, Cambiasso 7,5, Muntari 6 (80’ Lucio 7); Sneijder 6 (81’ Thiago Motta s.v.); Milito 7 (71’ Pandev 6,5), Eto’o 6,5. A disp: Toldo, Khrin, Mariga, Quaresma. All. Mourinho 7

SAMPDORIA (4-4-2): Storari 7; Zauri 5,5, Lucchini 6, Gastaldello 6, Ziegler 5; Semioli 5,5 (84’ Padalino s.v.), Poli 6 (79’ Tissone s.v.), Palombo 6,5, Guberti 5 (56’ Mannini 5); Pozzi 6,5, Pazzini 4,5. A disp: Guardalben, Accardi, Rossi, Scepovic, Padalino. All. Delneri 5,5

ARBITRO: Tagliavento 5

AMMONITI: Cordoba, Samuel, Eto'o (I), Lucchini, Pozzi, Pazzini (S)


ESPULSI: 31' Samuel (I) per fallo da ultimo uomo, 38' Cordoba (I) per doppia ammonizione, 74' Pazzini (S)
per doppia ammonizione

Fonte: Goal.com

lunedì 15 febbraio 2010

La Battaglia di Highbury

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Quando gli inglesi - i Maestri del «football» - erano superbi a tal punto da ritenersi troppo forti per prender parte ad una manifestazione di infimo livello - secondo loro, naturalmente - come il Campionato Mondiale di Calcio, coloro i quali si guadagnavano l'onore di sollevare al cielo la prestigiosa Coppa Rimet dovevano superare una sorta di «esame» per potersi fregiare dell'onorifico titolo di squadra più forte del mondo: sconfiggere l'Inghilterra in casa propria, nella perfida Albione. Nel 1934 toccò all'Italia, fresca di titolo mondiale conquistato sconfiggendo in finale la Cecoslovacchia. I pezzi grossi della Football Association, onde evitare figure barbine, scelsero il 14 novembre per disputare il match. Pozzo, ben conscio delle insidie dei campi inglesi nel periodo autunnale, chiese di rinviare la partita, ma Mussolini, tra i massimi promotori dell'evento, gli negò questa possibilità, facendosi perdonare promettendo un'Alfa Romeo nuova di zecca a ciascun componente della squadra in caso di successo.
Si gioca ad Highbury, nella tana dell'Arsenal, la squadra resa grande da Chapman e dal suo innovativo «Sistema». Il più innovativo allenatore nella storia dei Gunners è scomparso nel gennaio di quell'anno a causa di una polmonite, ma la Nazionale Inglese è imperniata sul nucleo di giocatori da lui formati: in campo contro l'Italia ne vanno ben sette (record tutt'ora imbattuto). C'è anche un giovane Stanley Matthews, per lui si tratta della terza partita in Nazionale: «la più violenta della mia carriera», dirà tempo dopo. Opposta filosofia tattica per l'Italia, che fonda i suoi successi sul «Metodo» di Pozzo. In campo vanno nove undicesimi della formazione che ha sconfitto la Cecoslovacchia a Roma il 10 maggio: Ceresoli e Serantoni rimpiazzano rispettivamente Combi e Schiavio, che hanno rinunciato alla maglia azzurra per motivi anagrafici.
Si scende in campo, ed Olsson, arbitro dell'incontro, è convinto di dar via ad una prestigiosa partita di calcio, ma si sbaglia di grosso: si tratterà di una vera e propria battaglia. Dopo appena un minuto il direttore di gara svedese deve già metter bocca al fischietto per un intervento del portiere Ceresoli su Drake; dal dischetto va Brook, ma l'estermo difensore dell'Ambrosiana Inter sventa il gol con un plastico tuffo. Gli animi si scaldano, e a farne le spese è l'alluce sinistro di Monti, maciullato da un rude intervento di Drake (139 gol con l'Arsenal, non certo uno stopper spaccatibie). Vista l'assenza di sostituzioni - arriveranno nel 1965, oltre trent'anni dopo -, Monti è costretto a rimanere in campo, finendo addirittura col contribuire involontariamente alla terza marcatura inglese: Drake sfrutta un suo errore per trafiggere Ceresoli al 12' dopo che Brook aveva già segnato due gol, di testa al 3' e su punizione al 10'.
Neppure un quarto d'ora di gioco, quindi, e l'Italia è sotto di tre gol con il non risibile handicap dell'uomo in meno. Pozzo costringe allora Monti ad uscire, collocando Ferraris IV centromediano ed arretrando Serantoni nella posizione di mediano destro. E via con le botte! Per salvare l'onore, l'Italia va oltre il lecito, finendo con il vendicare ampiamente Monti, finito intanto in ospedale: Hapgood, il capitano inglese, si ritrova con il naso rotto; Bowden ci rimette la caviglia; Brook si frattura un braccio e Drake, colui il quale aveva azzoppato Monti, si becca un cazzotto in pieno volto. Ed il primo tempo si è appena concluso, restano da «combattere» altri 45 minuti.
Continuando sulla via - non certo retta - seguita nel corso della prima frazione, gli italiani seguitano a calciare tutto ciò che gli capita a tiro, stinchi compresi. Tra gli azzurri, però, c'è un fuoriclasse: si chiama Peppino Meazza. Sa che non c'è occasione migliore per mettere in luce il proprio talento fuori dai patrii confini, ed un narcisista come lui non può certo farsi sfuggire una simile chance. Il «Balilla» si carica la squadra sulle spalle, segnando una doppieta di pregevole fattura: prima un destro al volo, poi un colpo di testa su punizione di Attilio Ferraris. Siamo 3-2 per loro.
I nostri non si accontentano certo di un'onorevole sconfitta: Guaita e Ferrari impensieriscono il «goalkeeper» Moss, ma è il solito Meazza a sfiorare il gol del pari a pochi istanti dal fischio finale. La sua conclusione, però, finisce sul palo, negandogli la gioia di una storica tripletta. Il match disputato dagli azzurri è epico, finisce con l'assumere contorni eroici. Nicolò Carosio, pionere della radiocronaca sportiva, è in delirio: quegli undici scesi in campo non sembrano uomini, ma leoni. I «Leoni di Highbury».

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

domenica 14 febbraio 2010

Napoli-Inter 0-0: breve cronaca



È finita 0-0, ma i gol potevano esserci, e potevano anche essere parecchi.
L'avvio porta la firma dell'abile stratega Mazzarri: pressing a tutto campo, con l'obiettivo di recuperare palla il più vicino possibile alla porta difesa da Julio Cesar nella speranza di sbloccare il risultato quanto prima per poi costringere l'Inter ad attaccare, offrendosi al contropiede. Al 10' il Napoli va vicinissimo al gol con Hamsik: lasciato inspiegabilmente libero a poca distanza dall'area di rigore, lo slovacco lascia partire un insidiosissimo destro cui solo la traversa nega il gol. Si tratta di un'occasione nata sugli sviluppi di un calcio di punizione, ma la via scelta da Mourinho per arginare Hamsik lascia perplessi: con Santon chiamato all'uscita costante sul trequartista avversario, Muntari è chiamato ad un lavoro in fase di ripiegamento che non è in grado di garantire, viste le difficoltà palesate anche nell'esecuzione di una semplice diagonale. Ciò crea non pochi problemi ad un'Inter che finisce col ridurre la propria controffensiva a degli sterili lanci lunghi, effettuati prevalentemente da Lucio, alla ricerca di Milito, che si sbatte tanto ma conclude poco: le marcature a uomo (Grava su Pandev, Cannavaro su Milito) predisposte da Mazzarri sortiscono gli effetti sperati. Da segnalare solo un sinistro al fulmicotone di Muntari, che va a morire sulla traversa. Tanti rebus irrisolti in fase difensiva per Mourinho: Zuniga spinge con costanza, rasserenato dall'inesistente spinta di Santon, mentre Hamsik gode di troppe libertà al limite dell'area; Denis, infine, crea varchi per l'accorrente Quagliarella e si mette anche in proprio, costringendo Julio Cesar ad una paratissima.
Nella ripresa, complice il gran numero di energie spese nel primo tempo, i padroni di casa consentono all'Inter di avanzare il proprio baricentro. L'allargamento delle maglie, anche questo fisiologico, favorisce l'aumento di occasioni. Di positivo c'è che Mourinho ha sostituito Muntari, già ammonito e parecchio nervoso: al suo posto Mariga, mediano destro, con Zanetti (ben più avvezzo del ghanese alla difesa) dirottato sulla sinistra. L'unica occasione degna di nota, per quanto riguarda i nerazzurri, vede proprio Mariga tra i protagonisti: bel triangolo con Milito, autore di un pregevole colpo di tacco a smarcare il compagno, e palla in mezzo per Pandev, bravissimo a girarsi ma incapace di angolare un pallone che De Sanctis blocca con facilità. Il Napoli, invece, punta sulla verticalità, campo d'azione preferito dello «scugnizzo» Quagliarella: proprio lui va a cogliere un clamoroso palo a metà della seconda frazione. Poi il ritmo cala, e le occasioni cessano nonostante l'ingresso di una bocca da fuoco come Eto'o tra le fila dell'Inter (fuori Pandev, sottotono stasera). Ai nerazzurri, in fin dei conti, un pareggio può anche andar bene, e dopo appena un minuto di recupero - logico: appena due cambi e nessuna interruzione degna di nota - Rosetti manda tutti negli spogliatoi.

TABELLINO

NAPOLI-INTER 0-0

NAPOLI (3-4-2-1): De Sanctis; Campagnaro, P.Cannavaro, Grava; Zuniga (dal 36’ s.t. Cigarini), Pazienza, Gargano, Aronica; Hamsik, Quagliarella; Denis (Iezzo, Rullo, Rinaudo, Dossena, Bogliacino, Hoffer) All. Mazzarri.

INTER (4-3-2-1): Julio Cesar; Maicon, Lucio, Samuel, Santon; Zanetti, Cambiasso, Muntari (dal 1’ s.t. Mariga); Pandev (dal 25’ s.t. Eto’o), Sneijder; Milito (Toldo, Cordoba, Krhin, Quaresma, Motta). All. Mourinho.

ARBITRO Rosetti di Torino.

NOTE ammoniti Pazienza, Zuniga e Gargano per gioco scorretto, Muntari e Sneijder per gioco scorretto, Maicon per proteste. Tiri in porta 2 e 2 legni-2 e 1 legno. Tiri fuori 7-2. Angoli 3-2. In fuorigioco 1-4. Recuperi 2’ p.t. , 1’ s.t.

Promossi&Bocciati di Juventus-Genoa: Un SuperRossi non basta! Buffon 'saponetta', Del Piero è tornato!



La difesa del Genoa: Con i tre di oggi, siamo a 39 gol subiti in stagione: seconda peggior difesa del campionato dopo quella del Siena. In occasione del gol di Amauri, Dainelli e Papastathopoulos si dimenticano di saltare. Raddoppio bianconero: palla persa sulla trequarti ed allucinante corridoio lasciato libero per Del Piero. E meno male che oggi dietro si giocava a quattro. Voto 4

Del Piero: 445ma presenza in A, superato Boniperti. Dopo un avvio titubante, dimostra di non sentire i suoi 35 anni: il recupero in scivolata in occasione del primo gol è una cosa che fa chi partecipa al Viareggio, ma la voglia di rivalsa dell'arzillo Del Piero gli consente anche queste prese in giro all'età. Il penalty decisivo è prova di freddezza, anche se un ringraziamento a Papastathopoulos appare dovuto. Voto 7,5

Acquafresca: Gasperini gli dà fiducia, lui si sbatte a destra e a manca, ma combina ben poco. Unica cosa positiva, l'assist per il primo gol di Rossi. Esce, mestamente, al 45': al suo posto Fatic. Voto 6

Il coraggio di Zac: Ferrara è solo un pallido ricordo. Grosso e Cannavaro fuori: essere campione del mondo non garantisce più un posto in campo. Zebina si ritrova, Caceres premia il mister e la sua fiducia, Del Piero è sempre pronto a rispondere «presente!». Con coraggio e sale in zucca, Zaccheroni mette in cascina tre punti preziosissimi. Voto 7

Marco Rossi: Due gol e un palo. Sembra il bottino di un centravanti, ed invece stiamo parlando del faticatore massimo del Genoa, oggi impiegato come interno destro di centrocampo in sostituzione dell'infortunato Milanetto. Entrambe le marcature portano alla mente un opportunista d'area di rigore come Pippo Inzaghi, uno che però non smazza a centrocampo. E se non ci fosse stato quel palo... Voto 7,5

Amauri: Segna il gol del pareggio su invitantissimo cross dalla destra di Caceres, ringrazia Papastathopoulos e Dainelli, quindi torna ad essere il solito latitante. Il gol, però, pesa parecchio. Voto 7

Papastathopoulos: Ennesima partita sottotono da parte del difensore greco, stavolta impiegato come quarto di destra nell'inedita difesa di Gasperini. Sbaglia tanto, troppo. Da rivedere, anche stavolta. Voto 5,5

Buffon: Le voci relative alla sua vita privata devono averlo destabilizzato: la papera cui farà seguito il gol di Rossi è un unicum. Lo stadio e la squadra si schierano dalla sua parte: cori e dediche, forza Gigi! Voto 5

Le bestie presenti sugli spalti: Ogni commento è superfluo. Senza voto

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

martedì 9 febbraio 2010

Da Orsi a Camoranesi, la lunga storia degli oriundi



Che Mauro Germán Camoranesi, pur essendo nato a Tandil (180 km da Buenos Aires, mica da Roma), abbia alzato al cielo la Coppa del Mondo con indosso la maglia azzurra lo sappiamo tutti. È un oriundo, gioca nella Nazionale italiana in virtù di un bisnonno partito da Potenza Picena (Macerata) sul finire dell'Ottocento; l'azzurro lo ha assaporato per la prima volta il 12 febbraio 2003, in un Italia-Portogallo 1-0 deciso dall'allora laziale Bernardo Corradi: grazie Trap. Fu, infatti, il tecnico di Cusano Milanino a riproporre un oriundo in azzurro quarant'anni dopo l'ultima partita del suo ex compagno di spogliatoio (dal 1965 al '70) Angelo Sormani.
Oltre ad essere quello con più presenze, Camoranesi è diventato il settimo oriundo a vincere la Coppa del Mondo con l'Italia: prima di lui c'erano riusciti Anfilogino Guarisi, Attilio Demaria, Enrique Guaita, Luis Monti, Raimundo Orsi e Michele Andreolo sotto la guida tecnica di Vittorio Pozzo, nel '34 e nel '38. Tutti loro hanno scritto delle importanti pagine nella storia non solo della nazionale, ma anche dei rispettivi club: Guaita, ad esempio, con i suoi 29 gol nel 1934-35 detiene tutt'ora il record di segnature per i campionati a sedici squadre. Non solo gol, per il «Corsaro Nero» della Roma: temendo una chiamata alle armi per la Guerra d'Etiopia, il 19 settembre 1935, assieme ai compatrioti Stagnaro e Scopelli, partì alla volta dell'Argentina. Accusati di traffico di valuta, il ritorno in Italia gli fu impedito anche nel dopoguerra. Morì a soli 49 anni, povero e solo, dopo aver perso il posto di direttore del penitenziario di Bahia Blanca.
Tra gli eroi del Mondiale '34 non si può non citare Luisito Monti, l'unico calciatore nella storia ad aver disputato due finali mondiali con due casacche diverse: «albiceleste» nel 1930, azzurra quattro anni dopo. Ciò dipese dalle lacunose normative Fifa, che al tempo consentivano ad un giocatore di giocare con più d'una nazionale: emblematico il caso di Alfredo Di Stefano, che giocò con Argentina, Colombia e Spagna, senza però mai prender parte ad un Mondiale. Andreolo, uruguagio di nascita, contribuì al successo iridato del '38. Quattro volte campione d'Italia con il Bologna, fece meglio con la propria squadra di club che con la nazionale azzurra, come anche Guarisi (137 partite e 43 gol con la Lazio) e Demaria (quasi 300 partite con la maglia dell'Inter, corredate da 85 reti).
Il più forte fu probabilmente Raimundo Orsi, per tutti «Mumo». Formidabile ala sinistra, dal 1928 al 1935 alla Juventus, nella finale del 1934 rispose al gol del cecoslovacco Puč a 9' dalla fine, prolungando il match ai supplementari, durante i quali Schiavio segnò il gol-vittoria. Non solo campioni del mondo però: sono molti i campioni che, spesso solo per qualche partita, hanno vestito la maglia azzurra. Fuoriclasse, come Schiaffino (4 partite da '54 e '58), Sivori (2 partite ai Mondiali del '62) e Altafini, anch'egli azzurro nella sfortunata spedizione cilena del 1963. Poi Ghiggia (il Maracanaço è opera sua), Cesarini (sì, proprio quello della famosa «zona»), Sallustro (il primo idolo della Napoli pallonara), il «Petisso» Pesaola, Montuori («10« della Fiorentina scudettata nel '56), Dino Da Costa (11 gol nel derby di Roma, record), Libonatti (10 anni e 150 gol con il Toro) e «testina d'oro» Puricelli (campione d'Italia con annesso titolo di capocannoniere nel '39 e nel '41).

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 1 febbraio 2010

Leônidas da Silva, "Diamante Negro" avvolto dalla leggenda


Prima di Pelé e dopo di Friedenreich, Leônidas da Silva. «Diamante Negro», così lo chiamavano, e c'è chi gli ha addirittura intitolato una prelibata (a detta di chi ha avuto la fortuna di assaggiarla) tavoletta di cioccolata assai in voga tra i «meninos» brasiliani. La leggenda narrà che fu lui, il 24 aprile del 1932, a portare la rovesciata in Brasile, in un 5 a 2 del suo Bonsuccesso sul Carioca. Lui indossava la maglia dei «rubro-anil» padroni di casa, che lo convinsero ad abbandonare il Sírio Libanês e la pallacanestro - nonostante fosse alto appena 173 cm, il ragazzo sapeva farsi valere anche in questa disciplina - con un'offerta da leccarsi le orecchie - per l'epoca, s'intende - consistente in due vestiti ed altrettanti paia di scarpe e guanti.
Leônidas, nato a Rio da Donna Maria e Manoel Nunes da Silva, era cresciuto sulle spiagge di São Cristovão, il suo quartiere. Tifava Fluminense, ma il «Tricolor Carioca» fu l'unica squadra di Rio de Janeiro a non poter godere delle sue prodezze, vista la renitenza del club all'impiego di giocatori di colore. Dopo gli inizi nel Fonseca Lima, ecco il passaggio al São Cristovão, quindi un via vai tra Havanesa, Barroso e Sul Americano, prima di approdare al già menzionato Sírio Libanês. Quindi il passaggio al Bonsuccesso, con cui fu convocato per la prima volta in Nazionale nel 1932, ad appena 19 anni. Esordì contro l'Uruguay, e pur essendo entrato in campo solo nella ripresa, trovò il modo di bagnare con due gol il debutto in nazionale. Proprio con la Seleção, Leônidas ha scritto alcune memorabili pagine della carriera. Certamente quelle più famose nel Vecchio Continente, visto che il «Diamante Nero» lasciò il Brasile in una sola occasione, nel 1933 per giocare nel Peñarol. Partecipò a due mondiali con l'«Amarelinha»: nel '34 fu un fallimento, con il Brasile eliminato agli ottavi dalla Spagna nonostante un gol segnato proprio da Leônidas; al Mondiale del 1938, invece, sono legate le sue più grandi imprese con la maglia della Seleção (21 gol in 19 partite il suo score in nazionale).Nella torneo disputato in Francia vinse il titolo di capocannoniere ed arrivò terzo siglando due reti nella finalina contro la Svezia, battuta 4-2.
Proprio alla rassegna iridata del 1938 sono legati due aneddoti, ricoperti da un'aura di leggenda. Il primo risale agli ottavi di finale, disputati contro la Polonia: il 5 giugno, a Strasburgo, il cielo è limpido ed il Brasile si diverte. Poi il diluvio, ed i polacchi, ben più avvezzi alle ostili condizioni climatiche, annullano il doppio vantaggio avversario grazie all'armadio biondo Willimowski, in gol per ben quattro volte in quella partita. I brasiliani, per ovviare alle difficoltà causate dalla metamorfosi del campo in palude, scelgono di togliersi le scarpe a dispetto dei dettami dell'arbitro Eklind. E proprio a piedi nudi, come sulle spiagge di Rio, Leônidas mette a segno il terzo gol personale, quello che significa vittoria. Quando l'arbitro svedese gli chiede di mostrargli i piedi, per verificare se il fenomeno in maglia bianca (la «camiseta auriverde» arriverà solo dopo il Maracanaço) indossi o meno gli scarpini; lui, in tutta risposta, infila i piedi nel fango, impedendo all'arbitro di effettuare la verifica e costringendolo pertanto a convalidare la marcatura, decisiva ai fini del risultato. Contro la Cecoslovacchia, nei quarti, sono necessarie due partite per decretare il vincitore: dopo l'1-1 nel primo incontro, Leônidas risulta decisivo nella ripetizione del match. Il «Diamante Negro», però, è l'unico giocatore di movimento a scendere in campo in entrambe le partite, ed il tanto biasimato tecnico Ademar Pimenta sceglie di concedergli un turno di riposo nella semifinale con l'Italia, mestamente persa dal presuntuoso Brasile: avevano già prenotato i biglietti aerei per la finale di Parigi.
Leônidas vincerà ancora in patria con le maglie di Vasco e San Paolo, prima di spegnersi nel gennaio del 2004 a Cotia, nello stato di San Paolo, dopo un lungo calvario dovuto al morbo di Alzheimer. È sepolto nel Cemitério Morada da Paz.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com