Visualizzazione post con etichetta calcio inglese. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta calcio inglese. Mostra tutti i post

venerdì 12 ottobre 2012

Davids torna in pista: allenatore-giocatore del Barnet

 

Edgar Davids, «il pitbull», non smette di ringhiare. Ad un paso dagli «anta» - il 13 marzo 2013 è dietro l'angolo - il mediano olandese torna in pista, in League Two, con il Barnet: affiancherà Mark Robson in panchina, pur continuando a dare il proprio, prezioso contributo in mezzo al campo.

Per Davids, leggenda juventina svezzata dall'Ajax, si tratta della prima esperienza da allenatore.
Antonio Giusto 
Fonte: Calcissimo

giovedì 20 settembre 2012

Jack Wilshere torna in campo

 
Dopo quattordici, interminabili mesi, Jack Wilshere è finalmente tornato in campo. Non per una partita, s'intende, ma semplicemente per allenarsi. Be', semplicemente: questo patrimonio del calcio non indossava gli scarpini dal 31 luglio 2011, quando si procurò una frattura da stress alla caviglia destra in un'amichevole precampionato con i New York Red Bulls.

Di lì in poi, un calvario che ha costretto Wilshere ha saltare l'intera stagione 2011-12, Europei e Olimpiadi casalinghe inclusi. Ora che è tornato, ad attenderlo c'è la prestigiosa maglia numero 10, ereditata da Robin van Persie: speriamo di vedergliela indossare al più presto.
Antonio Giusto 
Fonte: Calcissimo 

mercoledì 19 settembre 2012

Zenden: imminente la firma col Bayer Leverkusen

 


«Bolo» Zenden torna in pista, e s'inventa terzino sinistro. L'olandese, nato nel giorno di Ferragosto del 1976, ha giocato l'ultima partita ufficiale il 22 maggio 2011, andando tra l'altro a segno nel 3-0 rifilato dal Sunderland - di cui all'epoca difendeva i colori - al West Ham.

Dopo una settimana di prova con il Bayer Leverkusen, allenato dal suo amico ed ex compagno di squadra (un biennio assieme, nel Liverpool) Hyypiä, che vede in Zenden la soluzione ai suoi problemi: ceduto Oczipka all'Eintracht Francoforte, Kadlec rimane l'unica alternativa nel ruolo di esterno basso a sinistra. E, visto il disastroso periodo di forma del difensore ceco, la sensazione è che la firma di Zenden arriverà nel giro di qualche ora.

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

sabato 15 settembre 2012

QPR - Chelsea 0-0: a Loftus Road vince la noia



Un rigore di Helguson, le espulsioni di Bosingwa (che oggi gioca nel QPR) e Drogba nel primo tempo, un diluvio di cartellini gialli - nove, in totale - e la delusione di Villas Boas. È trascorso quasi un anno da quel QPR - Chelsea, e le strade dei quattro protagonisti sin qui citati si son divise: c'è chi ha cambiato quartiere di Londra (AVB, Bosingwa), chi nazione (Helguson) e chi addirittura continente, perché Didierone è finito in Cina. Ad incrociarsi nuovamente sono però John Terry ed Anton Ferdinand, e chissà se si stringeranno la mano: è noto a tutti che il più giovane dei fratelli Ferdinand abbia portato JT in tribunale, in luglio, per chiarire quanto accaduto il 23 ottobre scorso. Perché nel giorno in cui il City ne segnava sei all'Old Trafford, il capitano del Chelsea avrebbe - «avrebbe»: condizionale - così apostrofato Ferdinand: «fucking black cunt», che non vi sto qui a tradurre. Assolto per insufficienza di prove dal giudice Howard Riddle, Terry si ritrova ad affrontare il suo accusatore sul terreno di gioco. Ah, quasi dimenticavo: il Chelsea, che tra le altre cose è campione d'Europa in carica, mercoledì darà il bentornato in Champions League alla Juventus.

PARTITA Come ampiamente prevedibile, Anton Ferdinand tiene fede alla propria parola, rifiutando di stringere la mano sia a Terry che a Cole. Bene, ora si può - finalmente - parlare di calcio. E la prima occasione - in una Londra baciata dal sole - ce la offre Júlio César, che al quarto minuto si produce in una felina reazione sul sinistro di Hazard, impedendo al Chelsea di coronare con un gol l'ottimo contropiede imbastito. Poi, sino al quarto d'ora, le squadre si limitano ad un poco produttivo palleggio. A ravvivare la situazione ci pensa Torres, che impegna l'estremo difensore avversario con il mancino e si rende anche protagonista dell'uscita dal campo di Fábio, rimpiazzato da Onuoha: Bosingwa cambia fascia. C'è ben poco da segnalare, sino al secondo cambio dell'incontro, effettuato anche stavolta da Hughes: Johnson s'infortuna, lo sostituisce l'ambizioso Jamie Mackie, che in settimana ha dichiarato di voler ripetere l'impresa compiuta lo scorso anno, portando nuovamente a casa lo scalpo dei Blues. Gli ultimi quindici minuti scivolano placidamente via, contraddistinti dalla sterilità del possesso palla e dall'assenza di occasioni da gol.
In avvio di ripresa, le due compagini c'illudono d'aver voglia di correre e divertire: il ritmo si alza, Hazard ci regala una rabona - fine a se stessa, ma stilisticamente perfetta - e Park Ji-Sung mette a nudo le lacune difensive del Chelsea, pescato - solissimo - nel cuore dell'area da un lancio di Granero. Ma Čech blocca, sicuro, e Di Matteo inserisce il nuovo arrivato Moses al posto di Bertrand: un po' di spinta sulla sinistra ci vuole, accidenti! Da lì nasce infatti un cross che Ivanović, appostato sul secondo palo, non riesce a tramutare in gol. Di occasioni, vere, le due squadre però non riescono a crearne, ed occorre uno scellerato retropassaggio di Mikel per regalare qualche emozione al pubblico pagante: Zamora sciupa, complice l'esemplare uscita di Čech, e sul capovolgimento di fronte Moses impegna Júlio César, impeccabile anche in quest'occasione. Nonostante gli ingressi in campo di Cissé e Sturridge, il gol non arriva, e l'ultima occasione capita - all'ottantasettesimo - sui pregiati piedi di Hazard. Ma, complice un maligno rimbalzo della sfera, il talentuoso belga scaglia il pallone in curva: la partita, agonizzante, muore dopo tre minuti di recupero.

HUGHES Il suo QPR, disposto secondo un inglesissimo 4-4-2, presente un'idea di gioco concreta, anche se ancora non del tutto compresa dai giocatori: il gioco va sviluppato sulle corsie, cercando anche il ribaltamento per sbilanciare la difesa avversaria e pungerla sul lato debole, ottenendo come risultato finale un cross per la coppia di attaccanti (oggi, se ne son viste tre). Un pareggio contro i campioni d'Europa, visto il tutt'altro che entusiasmante avvio di stagione, non può che farlo sorridere.

DI MATTEO Ramires, mezzala, gioca esterno destro; Bertrand, terzino, presidia l'altra corsia: non sarà un eccesso di prudenza, contro il modesto QPR? La squadra, poi, si affida esclusivamente all'iniziativa del singolo, ed i risultati - vista la giornata di scarsa vena di Hazard, Torres e Lampard - non sono dei più soddisfacenti. Primi punti persi in campionato. Se vuol rifarsi in Europa, deve osare di più: l'avversario non è sempre il Barça.

ARBITRO Andre Marriner fischia poco, ma quando lo fa - solitamente - l'emissione sonora è seguita dall'estrazione di un cartellino, in particolar modo nella prima frazione. Partita condotta in maniera positiva: la sufficienza, e qualcosa in più, per lui in pagella.

TOP PLAYER: Júlio César -  Svetta nella mediocrità di un incontro alla camomilla, domando Hazard ed il suo Chelsea. Ma era prevedibile: Júlio, tra i pali, è una garanzia con pochi eguali al mondo.

BASS PLAYER: Hazard - Da lui ci aspetta ben più di una rabona. A maggior ragione dopo le roboanti dichiarazioni rilasciate in settimana.

TABELLINO

QUEENS PARK RANGERS - 0-0

QUEENS PARK RANGERS (4-4-2): Julio Cesar 7; Bosingwa 6,5, Nelsen 6, Ferdinand 6, Fabio s.v. (dal 20' Onuoha 6); Wright-Phillips 6 (dal 70' Cissé 4,5), Granero 6, Faurlin 6, Park 6; Zamora 5, Johnson s.v. (dal 32' Mackie 5,5). All.: Hughes 6.

CHELSEA (4-2-3-1): Cech 6; Ivanovic 6, David Luiz 5,5, Terry 6, Cole 5,5; Mikel 5,5, Lampard 6; Ramires 5,5, Hazard 4,5, Bertrand 5 (dal 59' Moses 6); Torres 4,5 (dall'81' Sturridge s.v.). All.: Di Matteo 5.

ARBITRO: Marriner 6,5.

AMMONITI: Ramires (14'), Bertrand (27').

Antonio Giusto

Fonte: Calcissimo

domenica 23 ottobre 2011

Calcio d'angolo - Balotelli porta il fuoco in campo, Mancini li sa far giocare: il City non è più solo un'accozzaglia di campioni

EPL - Manchester United v Manchester City,Edin Dzeko and Aleksandar Kolarov


Fuochi d'artificio, in casa ed anche sul lavoro, per Mario Balotelli. Prima rischia di mandare in fumo se stesso e la lussuosa villa di Macclesfield in cui risiede, poi brucia sul tempo i difensori del Manchester United nel derby cittadino e sigla una doppietta. La partita prende una strana piega, anche a causa dell'espulsione di Evans - provocata da Balotelli, of course - e alla fine il tabellone dice 6-1 per la metà «blue» di Manchester. Che ora, oltre che ricca, è pure la più seria candidata alla conquista del titolo in Premier League. Ma lasciate che mi spieghi, dato che siamo al 23 di ottobre e di gol e parate e calci di rigore ed espulsioni ne vedremo una miriade, da qui al termine della stagione.

La ricchezza, dello sceicco Mansour e consueguentemente della rosa, innanzitutto. Il rapporto tra qualità e quantità dei calciatori a disposizione di Roberto Mancini non ha eguali, neppure il Barça «illegale» - non per Javi Varas, poliziotto coi guantoni - può vantare un tale numero di campioni. Certo, può capitare che Fàbregas assaggi la panchina, ma se in difesa Piqué e Puyol mancano, son guai per Guardiola... Forse solo il Real Madrid può vantare un simile numero di campioni con indosso la stessa, stupenda maglia (in special modo quella nera con rifiniture dorate, sfoggiata nel massacro de «La Rosaleda»), ma gioca in un campionato differente, ed il City pare ancora acerbo per puntare alla Champions League.

Difatti, io mi son limitato al campionato inglese. Perché se è vero che una volta varcato il Canale della Manica i Citizens vanno sistematicamente in svantaggio (tre su tre nel girone eliminatorio), in casa loro fanno la voce grossa. E le avversarie non fanno più così paura. Liverpool ed Arsenal, cui di grande rimane ormai - purtroppo - il solo nome, sono più vicine alla zona retrocessione che alla vetta della classifica. Al cui inseguimento, ecco Manchester United e Chelsea. I primi, son partiti col freno a mano tirato anche in Europa: due pareggi, il secondo agguantato per i capelli in Svizzera, e una vittoria di rigore contro l'Oţelul Galaţi; il Chelsea, che pure si gode la Champions, ha già accumulato 6 punti di ritardo in campionato, e i nervi paiono parecchio tesi, a giudicare dalla doppia espulsione rimediata nel derby londinese con il QPR, perso 1-0.

Infine, il gioco. Mancini, che pure da noi è ricordato più per il mediano (Stankovic, solitamente) travestito da rifinitore posto in pressione sul regista avversario, ha dato a questa squadra un'identità tattica precisa. Il gol dev'essere il coronamento di un azione, non frutto di casualità. E l'azione, vista la qualità degli intrepreti - Silva, che gioia per gli occhi - e gli investimenti dello sceicco, dev'essere quanto più bella possibile. Sin qui, risultati e fatti stanno dando ragione al tecnico. Che, se le mie previsioni sono esatte, tra qualche mese potrà festeggiare il primo successo in Premier League.


Antonio Giusto


Fonte: Goal.com

giovedì 23 giugno 2011

Alex James ed il suo «sistema» infallibile

http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2011/06/Alex-James-539x404.jpg

Si presentava in campo con le maniche lunghe, perennemente sbottonate ai polsi, e i calzoncini – di due buone taglie più larghi – rigonfi a causa dei mutandoni, fonte di calore necessaria per affievolire le sofferenze dovute ai reumatismi. Ma, recita il detto, l’abito non fa il monaco. A testimoniare ciò, Alex James. Uomo dalla figura tozza, alto poco meno di centosettanta centimetri, con le gambe storte ed i capelli grondanti di gelatina, figlio di un ferroviere e con un passato da operaio metallurgico, fu nel contempo la mente ed il braccio dell’Arsenal di Herbert Chapman.

Nato in Scozia, a Mossend (Lanarkshire), il 14 settembre 1901, e cresciuto nella vicina Bellshill (dove nel 1909 vide la luce Matt Busby) assieme all’amico Hughie Gallacher, 133 gol con il Newcastle e 72 col Chelsea, James gioca al calcio per passione con Brandon Amateurs, Orbiston Celtic e Glasgow Ashfield. La sua prima, vera squadra è il Raith Rovers: tre anni, poi il Preston North End se ne assicura i gol versando 3.000 sterline nelle casse degli scozzesi. Nel Lancashire, James continua a segnare, ma nonostante le sue reti i «Lilywhites» (gigli bianchi) mancano per ben quattro stagioni consecutive la promozione in First Division, negando persino allo scozzese di rispondere alle convocazioni della propria nazionale.

Nonostante bastino due mani per conteggiare le sue apparizioni con la maglia della Scozia, 8 appena, per entrare nella storia del calcio britannico gliene furono sufficienti due. Dopo l’esordio, datato 31 ottobre 1925, eccolo rispondere ad un’altra convocazione tre anni dopo, il 31 marzo 1928. A Wembley, la Scozia segna 5 gol (a uno) contro i padroni di casa inglesi, ed il nome di Alex James compare in ben due occasioni nel tabellino dei marcatori: «Wembley Wizards», i Maghi di Wembley, vengono definiti i protagonisti dell’impresa. Il Preston, che vivacchia in seconda divisione, ormai gli sta stretto, ed il trasferimento – per 9.000 sterline, cifra stratosferica per l’epoca – all’Arsenal che Chapman sta facendo grande è il naturale riconoscimento del suo talento calcistico.

Ma l’impatto con la nuova realtà si rivela traumatico per James, giunto ad Highbury assieme a Cliff Bastin (che segnerà 178 gol con i Gunners) per completare il complesso mosaico ideato da Chapman. Il quale, dopo aver vinto due campionati ed una FA Cup con l’Huddersfield Town, era stato convinto dal facoltoso presidente Henry Norris (personaggio fondamentale nella storia del club londinese: a lui, tra le altre cose, è dovuto il trasferimento ad Highbury) a sedere sulla panchina dell’Arsenal con l’obiettivo di fare dei Gunners la più grande squadra inglese del tempo. L’impresa, già di per sé assai ardua, fu resa ancor più difficile dalla decisione presa dall’International Board nel giugno 1925: al fine di aumentare i gol e conseguentemente lo spettacolo, la regola del fuorigioco fu modificata in maniera tale che all’attaccante fosse sufficiente avere due avversari – e non più tre – tra sé e la porta nel momento dell’effettuazione del passaggio. Le segnature aumentano a dismisura, e dopo una cocente batosta (7-0) subita sul campo del Newcastle il 3 ottobre 1925, il capitano Charlie Buchan propone al proprio allenatore di arretrare il centromediano Butler sulla linea dei terzini. Nasce così lo stopper.

L’idea, che oggi potrebbe apparirci banale, fu – ai tempi – portentosamente innovativa. Pensionata la sin lì imperante piramide di Cambridge, numericamente esprimibile con un 2-3-5, il modulo di Chapman venne ribattezzato «sistema». Tre difensori in linea, lo stopper ormai sgravato dai compiti di regia in precedenza detenuti dal centromediano, ed i terzini: più larghi, ora impegnati nella marcatura delle ali avversarie ma anche liberi di sganciarsi in fase offensiva come nel caso di Hapgood, primo terzino fludificante della storia. I mediani laterali, che ora giocano più stretti, prendono in consegna le mezze ali avversarie, e compongono un quadrilatero con gli interni – più arretrati, non più in linea con gli attaccanti – cui spetta ora l’impostazione della manovra. Nel «WM» (dalla disposizione in campo dei calciatori), sostanzialmente basato sull’uno contro uno e che quindi andava a privilegiare la maggior cifra tecnica dell’Arsenal, gli unici tre calciatori sgravati da compiti di marcatura erano le due ali ed il centravanti.

All’interno di questa complessa organizzazione tattica, il ruolo ricoperto da Alex James è di importanza madornale. Prima di Johan Cruijff, prima di Alfredo di Stéfano, prima di Valentino Mazzola, eccolo, è lui il primo centrocampista universale tra i cui piedi la sfera di cuoio abbia l’onore di rotolare. La sua azione incomincia ai limiti della propria area, dove veste i panni del regista, salvo poi tramutarsi rapidamente in rifinitore: non segna molto, e per lui che prima di giungere all’Arsenal faceva l’attaccante si tratta di una poco saporita novità, ma c’è il suo zampino dietro la stragrande maggioranza delle segnature di squadra, e Jack, Bastin, Drake, Hulme e Lambert (escluso quest’ultimo, fermatosi a 98, gli altri scollinarono tutti quota 100 gol con i Gunners) lo ringrazierebbero ancora oggi – se fossero vivi per farlo – per quei magnifici assist.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 1 marzo 2011

Le capriole di Oba Oba Martins

http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2011/03/Martins-Zigic-539x404.jpg

Febbraio non è ancora terminato, eppure in Inghilterra è già stato assegnato il primo trofeo dell’anno. La League Cup, finita sorprendentemente nella bacheca del Birmingham City, che in campionato lotta per salvarsi, ma a Wembley, davanti ad 88,851 spettatori, è riuscito nell’impresa di negare all’Arsenal il primo successo dall’ormai calcisticamente lontanissimo 2005 (era il 21 maggio, FA Cup vinta ai rigori contro il Manchester United).

Sull’1-1 dopo 89 minuti di gioco, gol di Žigić e van Persie, ecco la clamorosa incomprensione tra Koscielny e Szczęsny, che si scontrano: pallone a zonzo per l’area di rigore e la porta sguarnita. Ad approfittarne è Obafemi Martins, vecchia conoscenza del calcio italiano, che insacca col sinistro e si produce nella classica serie di capriole.
Qui le abbiamo viste tante volte, da quando, nel settembre del 2000, «Oba Oba» è sbarcato in Italia su consiglio di Churchill Oliseh, fratello di Sunday (in Italia con le maglie di Juventus e Reggiana) e padre adottivo del centrocampista del CSKA Mosca Sekou. Churchill, che al tempo gestiva una scuola calcio con sede a Lagos (dove Martins è nato il 28 ottobre 1984) lo nota in strada e gli propone di unirsi alla sua squadra, affiliata alla Reggiana: che occhio! Obafemi mette in luce le proprie doti di velocista e goleador, e così a Reggio Emilia rimane solo qualche mese, perché l’Inter punta su di lui e sgancia 750 mila euro pur di vincere la concorrenza del Perugia di Gaucci. Soldi ben spesi, lo si capisce sin dall’inizio della sua avventura in nerazurro: la prima stagione, 2001-02, si conclude con la doppietta Scudetto Primavera-Coppa Carnevale, e Oba segna 23 gol.
Cúper, l’hombre vertical, gli fa assaggiare la prima squadra in precampionato, e – complice un’incredibile serie d’infortuni – si ritrova a puntare su di lui per accedere ai quarti di Champions League. In coppia d’attacco con Morfeo, alla BayArena di Leverkusen contro i vicecampioni d’Europa, infila Butt, si sfila la maglia e si cimenta in una serie di cinque capriole che mandano in visibilio il pubblico nerazzurro. Ha diciott’anni, Moratti lo considera l’Owen nerazzurro, e c’è chi è pronto a giurare che questo nigeriano esplosivo valga più di Rooney, al tempo promessa (lui sì, mantenuta) dell’Everton.
Oba, però, non riuscirà mai a compiere il decisivo salto di qualità. L’arrivo di Ibrahimović lo spinge al Newcastle, poi Wolfsburg e Rubin Kazan. In Russia delude, il Birmingham City lo ottiene in prestito in gennaio e lui ringrazia così, regalando ai «bluenoses», i tifosi del Birmingham, il secondo trofeo della storia.

Antonio Giusto

sabato 25 settembre 2010

L'allenatore parla italiano



Manchester City batte Chelsea 1-0, gol di Tévez al 59': in contropiede, of course. Questo derby meneghino della panchina, che ora ha varcato la Manica, non poteva che venir deciso in maniera diversa, sosterrà qualcuno mostrando l'indice. Cambiando angolazione, non si può che elogiare Mancini: testardo il giusto nell'insistere sul suo 4-2-3-1 di fatto senza punte, perché il centravanti Tévez è tutto tranne che il classico uomo d'area. Dribblata la solitudine degli stopper avversari, di fatto mai preoccupati dalla presenza di un avversario negli ultimi sedici metri, Carlitos l'ha messa dentro per lo sconforto di Carletto: Ancelotti, al quale andrebbe chiesto conto della sostituzione di Drogba ma cui bisogna fare i complimenti per la fiducia riposta nell'imberbe Josh McEachran, diciassette anni ed undici minuti di Champions League nelle gambe.Il discorso relativo agli allenatori italiani, prodotto d'esportazione tra i più rischiesti, va però allargato. Non al Capello bicampione di Spagna alla guida del Real Madrid, e neppure al Trapattoni ora C.T. dell'Irlanda, ma con uno Schale (ed un campionato portoghese ed uno austriaco) in bacheca. C'è chi come Enrico Fabbro, dal luglio di quest'anno alla guida dei Giovanissimi Nazionali della Lazio, ha vinto Coppa e Supercoppa d'Algeria sedendo sulla panchina del Mouloudia Club d'Alger. Andrea Mandorlini, invece, è fresco di esonero dal Cluj dopo una tripletta segnata tra campionato, coppa e supercoppa. Il 30 agosto, meno di un mese fa, hanno scelto l'estero anche Zaccheroni (scudettato nel '99) e Dossena: il primo guiderà la Nazionale giapponese, mentre il secondo siederà sulla panchina del Saint George di Addis Abeba, ventun volte campione d'Etiopia.

domenica 27 giugno 2010

Germania-Inghilterra 4-1: Klose (G) al 20, Podolski (G) al 32', Upson (I) al 37' p.t.; Mueller (G) al 22' e al 25' s.t.


GERMANIA (4-2-3-1): Neuer; Lahm, Mertesacker, Friedrich, Boaeting; Schweinsteiger (dal 38' s.t. Kiessling), Khedira; Mueller (dal 27' s.t. Trochowski), Oezil, Podolski; Klose (dal 27' s.t. Gomez). (Wiese, Butt, Jansen, Aogo, Tasci, Badstuber, Kroos, Marin, Cacau). All: Low.

INGHILTERRA (4-4-2): James; G.Johnson (dal 42' s.t. Wright-Phillips), Terry, Upson, A.Cole; Milner, Lampard, Barry, Gerrard; Defoe (dal 26' s.t. Heskey), Rooney. (Green, Hart, Dawson, Lennon, J.Cole, Warnock, Carragher, King, Carrick, Crouch). All: Capello.

ARBITRO: Larronda (Uruguay)

NOTE - Spettatori 40.510. Ammoniti Johnson e Friedrich per gioco scorretto. Angoli 4-6. Recuperi p.t. 1'; s.t 2'.

Auf Wiedersehen, Inghilterra. La spumeggiante Germania di Löw impartisce una lezione di calcio ai sudditi di Elisabetta II, candidandosi prepotentemente ad un posto nella finale di Johannesburg.
L'andamento dell'incontro è chiaro sin dalle prime battute, sufficienti all'Inghilterra per palesare le proprie lacune: Gerrard e Milner, accentrandosi, vanno a creare un'eccessiva densità in zona centrale finendo con l'otturare gli spazi. I terzini, Johnson ed Ashley Cole, non riescono a proporsi con la costanza «slovena» perché tenuti bassi da Müller e Podolski: il gioco ristagna, privo di sbocchi esterni. La Germania, che difende con ordine, attende di recuperare il pallone (alto, possibilmente) per dedicarsi al gioco che più le piace, quello basato sul fitto fraseggio volto ad aprire varchi per l'imbucata centrale dell'attaccante di turno. Accortezza del giorno, quella di agire prevalentemente sul centrodestra per sfruttare la lentezza di Upson e la scarsa propensione difensiva di Ashley Cole: da lì partono i tagli di Klose (l'1-0 ne è la dimostrazione) ed è proprio in quella zona che agisce - e si inserisce - Özil nel primo tempo.
Gli inglesi, che soffrono la dinamicità degli avversari, evidenziano l'assenza di un «cervello»: l'incursore Lampard ed il mediano Barry non garantiscono la quantità di fosforso necessaria alla fluidità della manovra che, come detto poc'anzi, ristagna in zona centrale e trova nei cambi di gioco di Gerrard le uniche, flebili variazioni ad un copione tremendamente monotono. Rooney ci prova andandosi a prendere il pallone a quaranta metri dalla porta, ma non è in questa maniera che ha segnato 34 gol nell'ultima stagione; con il passare dei minuti, complice la disperazione, piovono illogici lanci lunghi: cosa possono Defoe e Rooney contro due marcantoni come Friedrich e Mertesacker?
Ma l'attacco non è certo il più grande cruccio di Capello, perché i guai veri li passa James (pessimo in occasione del 3-1) a causa di una carente fase difensiva. Maglie troppo larghe, eccessiva distanza tra i reparti - follia pura, quando affronti una squadra che schiera tre uomini sulla trequarti - ed una preoccupante staticità consente a Schweinsteiger di pensare calcio (sia lode a van Gaal, maestro di calcio) mentre Müller, Özil e Podolski sfruttano a meraviglia i movimenti di Klose, perfetto nell'attirare Upson sull'esterno in occasione del 2-0. Veder giocare la Germania, questa Germania che mangia kebab e balla il samba, è una gioia per gli occhi: fraseggio stretto con palla rigorosamente a pelo d'erba, ottima qualità tecnica e rapidità d'esecuzione magistralmente fusi in una manovra offensiva che include almeno quattro uomini, con Khedira sempre pronto ad inserirsi.
La bella favola tedesca rischia però d'interrompersi sul finire del primo tempo, quando un doppio errore difensivo (Neuer esce a vuoto, Friedrich sceglie l'uomo sbagliato) consente ad Upson di riaprire la partita. Complice la verde età ed un'inesperienza latente, la Germania sbanda quel tanto che basta a Frank Lampard per scagliare il bolide del pareggio che oltrepassa nettamente la linea ma non viene convalidato: Geoff Hurst al contrario.
Il primo quarto d'ora di ripresa scivola via placidamente, con l'Inghilterra protesa in avanti alla ricerca del pari e la Germania che approfitta della scarsità di idee degli avversari per attirarli nella trappola del contropiede. Müller è lo spietato esecutore, i mandanti si chiamano Schweinsteiger - ripeto: grazie van Gaal - ed Özil.
Considerazioni finali: un'ala vera come Walcott, capace di andare sul fondo e dotato di gran passo, non avrebbe fatto comodo a questa piattissima Inghilterra? Lo stesso dicasi per un regista puro come Carrick: più facile trovare una cascata nel deserto che un'idea in questo centrocampo.

ANTONIO GIUSTO

Fonte: Blog Mondiali di Calcio 2010

giovedì 24 giugno 2010

Slovenia-Inghilterra 0-1: Defoe al 23'.



SLOVENIA (4-4-2): S. Handanovic; Brecko, Suler, Cesar, Jokic; Koren, Birsa, Kirm (dal 33' st Matavz), Radosavljevic; Ljubijankic (dal 17' st Dedic), Novakovic (J. Handanovc, Dzinic, Ilic, Krhin, Seliga, Filekovic, Komac, Stevanovic, Mavric). All: Matjaz Kek

INGHILTERRA (4-1-3-2): James; Johnson, Upson, Terry, A. Cole; Barry, Gerrard, Lampard, Milner; Rooney (dal 27' st J.Cole), Defoe (dal 40' st Heskey) (Green, Hart, Dawson, Lennon, Crouch, Warnock, Wright-Phillips, Carrick). All. Fabio Capello.

ARBITRO: Wolfgang Stark (Germania).

NOTE - Spettatori 36.893. Ammoniti: Jokic, Birsa e Dedic per gioco scorretto, Johnson per simulazione. Angoli: 12 a 2 per l'Inghilterra. Recuperi 0 e 3'.

L'Inghilterra non brilla, priva della fluidità necessaria per riscuotere applausi, ma ottiene i tre punti necessari per qualificarsi agli ottavi di finale: decisivo Defoe, finalmente in campo dal primo minuto a discapito del generoso ma poco prolifico Heskey.
Il piano di gioco inglese è chiaro sin dall'inizio: priva di un regista puro a centrocampo, la manovra inglese prende vita con i terzini, Johnson ed Ashley Cole, cui spetta il compito di allargare il gioco. Poco aiutati da Gerrard e Milner, finti esterni che convergono volentieri verso il centro tarpando le ali all'azione, spesso risolta da un cross dalla trequarti indirizzato sul secondo palo e quindi di facile lettura per i difensori. L'apporto di Lampard alla manovra è infimo: timido palla al piede, riluttante agli inserimenti (se ne conta solo uno, sufficiente a creare scompiglio nella difesa slovena), spesso tagliato fuori dai cambi di gioco di Gerrard, resi però vani dalla lentezza di un Milner che consente praticamente sempre alla retroguardia avversaria di riposizionarsi correttamente. Succede anche in occasione del gol, solo che stavolta Defoe è bravo nell'anticipare Suler. Dopo essere passati in vantaggio gli inglesi cercano di chiudere i conti, puntando forte su Gerrard e Rooney, che si scambiano di posizione e creano non pochi problemi alla Slovenia, in evidente appresione difensiva.
Anche nella ripresa Capello sceglie la fascia sinistra per pungere: Ashley Cole spinge e Rooney (oggi in linea con Defoe e non alle spalle del centravanti come accade quando fa coppia con Heskey) si allarga per consentire il taglio a Gerrard. Nonostante la buona prova offerta è proprio Rooney a lasciare il campo, al suo posto entra Joe Cole che si posiziona alle spalle di Defoe per comporre il 4-2-3-1 spesso visto in azione nel corso delle qualificazioni. La Slovenia, a causa della mediocre caratura tecnica, si limita a sporadici lanci lunghi destinati alla testa di Novakovic, cui si accompagnano le estemporanee iniziative del mancino Birsa: a parte un doppio brivido per James (salvato da Johnson), null'altro, ma sembra bastare per una qualificazione che premia gli uomini di Kek fino al fischio finale. Poi segna Donovan, e regala successo e qualificazione agli USA: la Slovenia è fuori, si preannuncia un Germania-Inghilterra da leccarsi le orecchie.

ANTONIO GIUSTO

Fonte: Blog Mondiali di Calcio 2010

sabato 5 giugno 2010

Quando espugnammo Wembley col cittì dell'Inghilterra



Fabio Capello, oggi, è il commissario tecnico dell'Inghilterra, cui si è legato fino al 2012 rifiutando le lusinghe dell'Inter. L'imminente rassegna iridata gli offre l'opportunità di rendere ancor più prestigiosa l'incisione recante il suo nome, già ben impresso nella storia del calcio, e lui si lascia scappare un sogno fino a poco prima sapientemente riposto nel cassetto: una finale contro l'Italia, per l'attuale cittì inglese, sarebbe il massimo.
Eppure Fabio Capello, l'altroieri quando indossava i calzoncini e giocava mezzala nella Juventus, la sfida angloitaliana la sognava in modo diverso: lui in campo, innanzitutto, e l'Italia tutta in festa e non in lutto al termine delle ostilità. A volte, poi, i sogni prendono vita e vanno in scena sul campo di calcio. In quest'occasione, l'ambientazione è delle più suggestive: lo stadio di Wembley, intriso d'acqua, brumoso e colmo fino all'orlo di gente in delirio. Anche la data, in questo caso, riveste un'importanza non trascurabile: si gioca il 14 novembre del 1973, trentanovesimo anniversario della leggendaria Battaglia di Highbury.
La partita trascorre seguendo il più classico dei copioni, quello che prevede l'Italia arroccata in difesa ma sempre pronta a ripartire in contropiede: Burgnich, Facchetti e Spinosi difendono l'imbaittibilità di Zoff, ormai prossima ai mille minuti, mentre Benetti legna a centrocampo senza premura alcuna per le giunture inglesi. Persino Riva dà una mano in copertura, spendendosi come di consueto per la causa azzurra cui ha già immolato entrambi i peroni, mentre gli inglesi ci sbeffeggiano, fieri del loro evidente ma sterile dominio territoriale: «Cammarieri, cammarieri!», ci gridano dagli spalti.
Questo inopportuno appellativo finisce con l'urtare i nervi di chi il «cammariere» l'ha fatto per davvero: Giorgio Chinaglia, all'occorrenza anche lavapiatti per il «Mario's Bamboo Restaurant», trattoria aperta da suo padre dopo anni di sacrifici e lavoro in fonderia. Lui, che sta guidando la Lazio al primo scudetto a suon di gol ed alla fine sarà pure capocannoniere del campionato, è orgoglioso di aver fatto il «cammariere»: quell'esperienza è come una medaglia al valore, una delle tante per «Long John», partito alla volta del Galles ad appena sei anni per raggiungere papà Mario e mamma Giovanna con al collo un cartello recante l'indirizzo di casa nel caso in cui si fosse perso. La voglia di rivalsa gli dà la spinta giusta per seminare McFarland e scaricare un destro da posizione angolatissima su cui Shilton nulla può: respinta corta, arriva Capello e, dopo aver dato il via all'azione, la conclude signorilmente con un destro sottomisura che va a morire in porta quando mancano appena tre minuti al fischio finale del portoghese Marques Lobo.
Proprio Fabio Capello, cresciuto nel mito di Oscar Massei ed appassionato d'arte e di Tolstoj, aveva appena messo dentro la palla del primo successo azzurro in terra d'Albione. Dovesse essere tra i protagonisti di una nuova sconfitta inglese in territorio anglofono, ovviamente per mano dell'Italia e magari nella tanto agognata finale, difficilmente darebbe adito a malumori nel Belpaese.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 24 maggio 2010

Attilio Fresia, il primo emigrante del pallone

http://www.sempregrifoni.altervista.org/images/img_genoa/Fresia.GIF

Quando si parla di calciatori italiani che hanno varcato la Manica, il primo nome che viene in mente è quello di Gianfranco Zola: Ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico, il Chelsea ha ritirato il «suo» 25 al momento del rimpatrio. A «Magic Box» fanno seguito Di Canio ed il suo fair play: le abilità tecniche ed anche tattiche del Vialli «player-manager»; la rapidità con cui Di Matteo mise a segno dopo 43 secondi, il 17 maggio 1997, il gol più veloce nella storia delle finali di FA Cup. Zola, Di Canio, Vialli e Di Matteo sono stati i penultimi - gli ultimi sono gli emigranti di nuova generazione: i Macheda e i Borini, che espatriano ancor prima di raggiungere la maggiore età -, ma il primo italiano a calcare i fangosi campi dell'Inghilterra chi fu?
La risposta è servita su un piatto d'argento: Attilio Fresia, nato a Torino il 5 marzo 1891. La sua storia, come quella di molti altri calciatori attivi negli anni antecedenti alla Prima Guerra Mondiale, è ricca di aneddoti e densa di un fascino in bianco e nero. Ragion per cui va raccontata dal principio, ovvero dall'acquisto di questo baffuto attaccante da parte del Genoa, disposto a sborsare la bellezza di 400 lire pur di sottrarlo ai concittadini dell'Andrea Doria. Il suo acquisto, avvenuto praticamente in contemporanea a quello del terzino De Vecchi (bandiera genoana, convocato per la prima volta in Nazionale ad appena sedici anni), fece infuriare non poco la Federazione, ma questo non impedì a Fresia di mettere a segno una doppietta contro il Reading nel corso della tournée italiana dei «Royals», rimasti ammaliati dalle sue capacità tecniche. Grazie a William Garbutt, allenatore del Genoa con trascorsi proprio nel Reading, il trasferimento si concretizzò e così nel dicembre 1913, a pochi mesi dall'esordio in Nazionale avvenuto il primo maggio contro il Belgio, Fresia si ritrovò catapultato in una realtà tutta nuova: «First month, very difficult, English language. Second month, good», le sue primissime parole in un inglese claudicante, assai meno fluido del discreto francese che si diceva parlasse e grazie al quale si era accordato con i dirigenti del Reading. Aggregato alla squadra riserve, giocò la sua prima partita in terra d'Albione contro il Croydon Common, in un incontro valevole per la South-Eastern League. Tempo pochi mesi, e l'esperienza inglese di Fresia giunse al termine: inadatto ai terreni pesanti secondo i cronisti dell'epoca, l'ex attaccante genoano ritenne opportuno far ritorno all'Andrea Doria nel 1915, dove rimase fino allo scoppio della guerra.
Durante il primo conflitto mondiale Fresia stazionò prima a Parma e poi a Livorno, dove riprese a giocare a pallone. Nell'autunno 1920 si trasferì a Modena per concludere la propria carriera e trovarsi un'occupazione stabile: quella di allenatore, perché arrivò l'offerta del Palestra Italia (che nel 1942 avrebbe modificato il proprio nome in Palmeiras) e Fresia, affetto da tubercolosi o più probabilmente da bronchite cronica, lasciò nuovamente l'Italia, in quest'occasione per il Brasile, dove sperava di trovare un clima più idoneo per le proprie precarie condizioni di salute. Fresia guidò il Palestra Italia al primo successo nel Paulistão: lo spareggio contro il Paulistano del bomber Friedenreich terminò 2-1 per gli «italiani», ma Fresia non riuscì a godere appieno del successo perché con l'avvento della bella stagione le sue condizioni di salute si aggravarono sensibilmente. Decise così di far ritorno a Modena, dove trascorse gli ultimi anni della propria vita assistito dalla moglie Nerina Secchi (sorella, tra l'altro, di Silvio Secchi, tra i fondatori del Modena) prima di spegnersi il 14 aprile del 1923.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 1 marzo 2010

Il leggendario Nottingham Forest di Brian Clough


Può una squadra aver vinto più Coppe dei Campioni che titoli nazionali? Sì, può. Si chiama Nottingham Forest, è la squadra della contea di Robin Hood e deve molto, se non tutto, ad un allenatore tanto burbero quanto leggendario: Brian Clough.
Tutto ebbe inizio nel gennaio 1975, quando Clough, reduce da una traumatica esperienza al Leeds United (44 giorni di agonia, sufficienti per inimicarsi tutto ciò che riguardasse i «Peacocks»), accettò la panchina del Nottingham - che al momento navigava nelle torbide acque della seconda divisione - subentrando ad Allan Brown. Un po' come il Derby County di qualche anno prima: preso per mano in Second Division e condotto alla promozione nel '69. Tempo tre anni, e Clough portò i «Rams» al titolo inglese, impresa che era fermamente deciso a ripetere alla guida dei rossi (il colore sociale è un omaggio a Garibaldi) di Nottingham. Senza tappe intermedie, però: il titolo arrivò immediatamente, Clough divenne il secondo allenatore nella storia del calcio inglese a trionfare in First Division da neopromosso - il primo era stato Alf Ramsey, alla guida dell'Ipswich Town campione nel 1962. Per realizzare quest'apparentemente impossibile impresa, «Cloughie» chiese ed ottenne Peter Shilton, acquistato dallo Stoke City per l'esorbitante cifra di 270.000 sterline: mai un portiere era stato pagato così tanto. E proprio sul «goalkeeper» si basa il successo del Forest: appena 24 gol subiti (20 in meno della stagione precedente) e titolo messo in bacheca con quattro turni d'anticipo, in barba al Liverpool campione d'Europa.
Lo «step» successivo riguarda proprio la Coppa dei Campioni, e manco a farlo apposta è il Liverpool il primo avversario sulla strada degli «arcieri»: 2-0 (Birtles e Barrett) al City Ground, 0-0 ad Anfield e la qualificazione è in tasca. AEK Atene (1-2, 1-5) e Grasshoppers (4-1, 1-1) sono formalità, mentre la semifinale con il Colonia entra di diritto nella storia del club: dopo un rocambolesco 3-3 casalingo, gli uomini di Clough passano al Müngersdorfer Stadion (sito nel quartiere Müngersdorf, da cui deriva il nome) con un gol di Bowyer e si assicurano la finale: ad attenderli a Monaco di Baviera il 30 maggio c'è il Malmö, altra sopresa della competizione guidata in finale dal tecnico inglese Houghton. Il match viene deciso da Trevor Francis, all'esordio in Coppa Campioni a causa di vicissitudini contrattuali, bomber acquistato dal Birmingham City per oltre un milione di sterline, cifra astronomica per l'epoca. È lui la star della squadra (che in campionato arriva seconda ad otto punti dal Liverpool campione), ma i giocatori di livello non mancano: oltre al già citato Shilton ci sono Viv Anderson (primo nazionale inglese di colore), l'ala John Robertson, Martin O'Neill (attuale allenatore dell'Aston Villa), Archie Gemmil e Kenny Burns, scozzesi come Robertson.
La stagione seguente è segnata in avvio dalla lungimirante decisione di Clough, che sceglie di puntare tutto sulla coppa: sa bene che la sua squadra non può reggere un altro campionato ai vertici, difatti la stagione si conclude con un amaro quinto posto, addolcito - a dir poco - però dal bis europeo. Dopo aver fatto fuori Arges Pitesti, Dinamo Berlino ed Ajax, l'avversario della finale è l'Amburgo di Keegan, il capitano della disastrosa Nazionale inglese di quel periodo. Decide un gol di Robertson al 21', il Nottingham Forest è sul tetto d'Europa per la seconda volta nella sua - incredibile: tre anni prima si erano classificati sedicesimi in Second Division - storia.
L'idillio, però, termina presto. A causa di alcune dolorose cessioni e degli sporadici deliri di onnipotenza di Clough (a farne le spese fu il suo storico assistente, Peter Taylor), il meraviglioso giocattolo costruito in quegli anni va in frantumi. L'ex attaccante di Middlesbrough e Sunderland resterà in panchina fino al '93, ma non ripeterà mai i fasti degli Anni 70.
Oggi il Nottingham Forest viaggia spedito nel Championship dopo essere scivolato addirittura in terza serie nel 2005 (prima squadra campione d'Europa ad ottenere di questo sgradito primato). Le stelle oggi sono McKenna, Blackstock ed Earnshaw, mentre in panchina siede lo scozzese Billy Davies (tecnico con un passato al Derby County, proprio come Clough), ma sarà quantomeno difficile - scontato eufemismo - che ripetano le gesta del leggendario Nottingham Forest di Brian Clough.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

venerdì 1 gennaio 2010

Fabio Borini: un italiano a Londra



Nasci (Bentivoglio) e cresci (Sala Bolognese) in provincia. Inizi a giocare a pallone in città (Bologna) ma per diventare calciatore vero fai le valigie, attraversi la Manica ed impari il cockney, il dialetto londinese. Questa è la storia di Fabio Borini, interessantissimo prospetto del Chelsea cui Carletto Ancelotti ha già regalato qualche sprazzo di grande calcio in prima squadra.
La svolta per Borini arriva nell'estate del 2007, quando Frank Arnesen (ds del Chelsea) e Carlo Jacomuzzi (osservatore dei Blues) si presentano a casa sua: lo vogliono portare a Londra. Papà Roberto e mamma Cinzia (un passato da maratoneta) accettano, e non potrebbe essere altrimenti: il sogno di Fabio - diventare un calciatore, of course - sta per avverarsi, non possono certo sbarrargli la strada verso la felicità. La firma sul contratto - 4 anni, il primo di scolarship (apprendistato), gli altri tre da professionista - è una formalità, ed il 6 agosto Borini è già in viaggio per Londra.
Nell'Academy del Chelsea il ragazzo ha a disposizione tutto ciò di cui ha bisogno. E non esita a garantirsi un mental coach - Roberto Civitarese - per completare l'opera. Con la squadra riserve si toglie importanti soddisfazioni, tra cui un gol ad Old Trafford in un match valido per l'FA Youth Cup, l'FA Cup versione baby. Il gol ai Red Devils rappresenta la ciliegina su una torta farcita dai 10 gol messi a segno in 11 partite disputate nella stagione 2008-09.
Visti i numeri ed i movimenti in campo, al Cobham Sportsground (dove si allena il Chelsea) si è subito cominciato ad accostare Borini a Pippo Inzaghi. E non gli si può dar torto.
Classe 1991, destro naturale, normolineo (178 cm x 73 kg) asciutto, Borini è un opportunista d'area di rigore. Freddo sotto porta, attacca lo spazio e «sente» il gol: pare sia sempre al posto giusto nel momento giusto. Non propriamente un marcantonio, predilige il gioco palla a terra e, se necessario, è in grado di defilarsi lasciando ad un compagno il centro dell'area. Deve ancora migliorare il sinistro e la conclusione, ma di tempo per crescere ne ha ancora parecchio.
Sul finire del 2009 ha anche collezionato qualche minuto in prima squadra: esordio in Premier League contro il Tottenham il 20 settembre; meritatamente titolare contro il QPR in Carling Cup tre giorni dopo; anche un assaggio di Champions contro l'APOEL Nicosia nel 2-2 dell'8 dicembre. Casiraghi lo ha anche convocato in Under 21, facendolo esordire contro l'Ungheria.
Quest'anno volge ormai al termine, ma siamo sicuri che Borini firmerebbe per vivere un 2010 ricco di soddisfazioni almeno quanto questo 2009 che se ne va.

Fonte: Goal.com

lunedì 6 luglio 2009

Joe Hart, cuore inglese

Una paratissima su Berg, poi un impeccabile rigore (segnato, mica parato), quindi una parola di troppo, ed ecco il pesantissimo giallo sventolatogli in faccia dal direttore di gara. Condannato ad assistere alla finale dell’Europeo Under 21 dalla tribuna per un cartellino giallo, (finale terminata con il successo tedesco con gli inglesi penalizzati dalla pessima prestazione di Loach, secondo proprio di Hart), ha sofferto più di tutti per non aver potuto aiutare i suoi compagni in campo. Chissà, forse, se l’ex portiere dello Shrewsbury Town (l’esordio, in Conference, il 20 aprile 2004, a 17 anni ed un giorno) fosse stato tra i pali anche la sera del 29 giugno in quel di Malmö, magari l’esito sarebbe stato diverso, o quantomeno l’Under 21 inglese avrebbe evitato la figuraccia…

Detto dell’esordio con lo Shrewsbury Town, con cui rimane fino al 2006, quando il Manchester City allora guidato da Stuart Pearce (attuale tecnico della selezione Under 21 inglese) versa 600.000 pounds (poi divenuti 1.500.000) nelle casse degli Shrews per assicurarsi le prestazioni dell’allora 19enne estremo difensore. Con il City riesce ad esordire in Premier League (senza prendere gol, tra l’altro) contro lo Sheffield United, prima di essere mandato ad accumulare esperienza in League One con Tranmere Rovers e Blackpool. La stagione 2007/08 è per lui da incorniciare: non solo conquista una maglia da titolare in Premier, ma riceve anche la chiamata di Capello per aggregarsi alla Nazionale, con cui esordisce il 1° giugno 2008, a Port of Spain, in un’amichevole contro Trinidad & Tobago conclusa a rete inviolata.

Dopo le 32 presenze nella prima, vera stagione al City, Hart è convinto che sia giunto il suo momento ma la dirigenza dei Citizens è di parere opposto: a gennaio viene messo sotto contratto Shay Given, che relega Hart in panchina, costringendolo a lasciare nuovamente Manchester, alla volta di Birmingham. Giunge così l’ufficializzazione del prestito ai Blues per la stagione 2009/10, nella speranza che possa finalmente esprimere il proprio potenziale con continuità. E a giudicare da come ha affrontato l’europeo di categoria, c’è da giurare che ci riuscirà.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 4 maggio 2009

Kieran Gibbs, il Santon di Emirates!



BIO
Nome: Kieran James Ricardo Gibbs
Data di nascita: 26 settembre 1989
Luogo di nascita: Lambeth, Londra
Nazionalità: inglese
Altezza: 180 cm
Peso forma: 64 kg
Ruolo: esterno sinistro
Squadra di appartenenza: Arsenal

COME SANTON – Da «Little Giggs» a «Little Clichy», questo il percorso di Kieran James Ricardo Gibbs, londinese di Lambeth (26 settembre 1989). Da promettente esterno di centrocampo a terzino sinistro in marcatura su Cristiano Ronaldo in semifinale di Champions League, percorso che ricorda parecchio quello del futuro azzurrino Davide Santon, anch’egli nato centrocampista salvo poi tramutarsi in terzino di spinta con comunque evidenti doti difensive.

YOUTH CAREER – A 13 anni entra nelle giovanili del Wimbledon, in cui resta fino al 2004, anno del fallimento dei gialloblu, rinati poi con il nome di Milton Keynes Dons. Il ragazzo, però, ha grandi ambizioni, e accetta l’offerta dell’Arsenal, abile a mettere sotto contratto lui ed i suoi compagni di squadra Dunne e Ogogo. Con l’Arsenal gioca regolarmente mettendo in mostra le sue ottime doti e guadagnandosi anche qualche chiamata in prima squadra, con cui ha addirittura occasione di affrontare l’Inter nell’Emirates Cup del 2007, poi vinta dall’Arsenal. Tempo sei mesi e qualche presenza in prima squadra, e viene mandato a farsi le ossa nel Norwich City.

PRO’ – La sua carriera «vera» inizia con i Canarini gialloverdi, con cui colleziona sette presenze prima di far ritorno alla base. In questa stagione già 17 gettoni, alcuni dei quali da ricordare: su tutti le due gare di Champions contro Villarreal e Manchester United, oltre all’esordio in Premier League contro il Tottenham, avvenuto l’8 febbraio a causa dell’indisponibilità di Clichy. E proprio grazie ai frequenti infortuni del francese, Gibbs ha trovato parecchio spazio in prima squadra, guadagnandosi la stima di tutti: «in grado di arginare Ronaldo» secondo Kolo Toure, «molto intelligente» a detta del tecnico Wenger.

Antonio Giusto

Fonte: Goal

martedì 24 febbraio 2009

The Italian Job - breve analisi



Inter-Manchester United: gli scontri diretti tra i due allenatori danno nettamente ragione a Mourinho, 6 vittorie ad una contro Ferguson in 12 incontri. Queste statistiche, comunque, vanno prese con le pinze: anche Ancelotti era in vantaggio su Mourinho prima del derby, e sappiamo tutti com'è andata a finire.
Passando al campo, giudice inappellabile del confronto, il Manchester dovrà fare a meno di Rafael e Vidic, due titolari della granitica difesa che ha permesso a van der Sar di battere il record d'imbattibilità della Premier League, i quali verranno rimpiazzati rispettivamente dal centrocampista Fletcher – definito «nuovo Beckham» agli esordi, ora più simile all'eternamente infortunato Hargreaves, che si sacrificò nel ruolo di terzino destro in più di un'occasione nella scorsa stagione – e dal jolly O'Shea. L'Inter, dal canto suo, oltre a dover fare a meno dell'infortunato Samuel – colpo durissimo – pare intenzionata a darsi la zappa sui piedi, tenendo in panchina quel fulmine che è Cordoba, l'unico in grado di tenere in uno-contro-uno Ronaldo, almeno sul piano della velocità.
Detto di coloro che non saranno del match, la gara d'andata pare possa decidersi solo grazie alle prodezze di Adriano&Ibra, coppia-gol in grado di scardinare la ferrea difesa dello United, propenso a chiudersi a riccio nella propria metà campo con il solo Cristiano Ronaldo in avanti, versione prima punta, pronto a sfruttare il contropiede. Una riedizione di quanto visto al Camp Nou nella scorsa stagione, insomma. Partita probabilmente non bella, che verrà con tutta probabilità decisa da un calcio da fermo: l'Inter di testa è terrificante, mentre i Red Devils, esclusi i due centrali O'Shea e Ferdinand, lascia alquanto a desiderare.
Al ritorno invece toccherà ai Red Devils fare la partita, soprattutto se il risultato dell'andata dovesse esser loro sfavorevole. Probabile un 4-2-4 con Giggs centrale di centrocampo e Nani, Berbatov, Rooney e Ronaldo tutti insieme alla ricerca dei gol qualificazione.
Lo United è il favorito d'obbligo, visto che l'ultima Champions è nella loro bacheca, ma l'Inter ha fame, tanta fame di Champions.

Arsenal-Roma: i Gunners stanno attraversando un periodo disastroso, propiziato soprattutto dagli infortuni capitati agli uomini chiave, Fabregas ed Adebayor su tutti. Senza il loro metronomo e capitano, Wenger si è trovato costretto ad affidare le chiavi della squadra a Denilson, pupillo suo e di molti altri addetti ai lavori che però al sottoscritto non pare adatto a rimpiazzare il direttore d'orchestra spagnolo. In avanti, poi, il discorso è il medesimo: fuori Adebayor, al suo posto tocca a Nicklas Bendtner, armadio danese che non pare in grado di sostituire degnamente il miglior calciatore africano del 2008. Il resto della squadra, poi, sta faticando in Premier, ed in Champions non pare destinata a far faville.
La Roma, invece, è alle prese con i consueti malanni fisici di Totti, che sarà in campo, ma non al meglio della condizione. Con il capitano dal primo minuto, si sa, è un'altra Roma, decisamente più coraggiosa e più convinta delle proprie capacità. A centrocampo tutta da gustare la sfida tra De Rossi e Diaby, mentre sulla fascia destra Motta dovrà vedersela con quel diavolo di Clichy, che non sarà il massimo in fase difensiva, ma che può sfruttare la sua velocità e l'inesperienza dell'ex udinese per servire graditissimi palloni a Bendtner, che non sarà un asso con i piedi, ma la testa la sa usare.
Per quanto mi riguarda, vedo i giallorossi messi meglio dell'Arsenal, alle prese con una delle peggiori stagioni dell'era Wenger che difficilmente verrà salvata da un lungo percorso in Champions.

Chelsea-Juventus: la Juve, è chiaro a tutti, giocherà col coltello fra i dentrii: i senatori hanno fame di vittoria dopo due anni trascorsi lontano dal miglior salotto d'Europa a sputar sangue tra Frosinone e La Spezia, e i nuovi arrivati – su tutti Tiago e Sissoko – sono smaniosi di dimostrare al calcio inglese, che tanto li ha bistrattati, che loro sono giocatori di prim'ordine. Qualche dubbio lo desta il reparto arretrato bianconero, dove Legrottaglie non sta vivendo un buon momento di forma, come anche Grygera, e Molinaro a questi livelli non è abituato a giocare. In avanti, poi, Del Piero e Amauri o Trezeguet promettono di far vedere i sorci verdi alla difesa dei Blues, benché la retroguardia del Chelsea pare essere registrata da Hiddink negli ultimi tempi.
Ecco, Guus Hiddink, è lui il pericolo numero uno per la Juventus: con Scolari il Chelsea era una squadra allo sbando, con lo spogliatoio unito, sì, ma contro il tecnico. Con l'arrivo dell'olandese le cose sono cambiate: Drogba e Anelka in campo contemporaneamente, squadra più quadrata con le chiavi del centrocampo nelle mani, anzi nei piedi, di Frank Lampard, desideroso di alzare la coppa con le orecchie per dedicarla alla defunta madre.
Sarà una sfida all'ultimo sangue, da cui, mi auguro, esca vittoriosa la Juventus.

domenica 11 gennaio 2009

Generazione di Talenti: Simpson

Jay Simpson: 1988 - Inghilterra

Classe 1988, destro naturale, normolineo (180 cm x 84 kg) compatto e potente, Jay Simpson è una seconda punta cresciuta nell’Arsenal attualmente in prestito al West Bromwich Albion. Giostra alle spalle di una prima punta (Moore prima e Bednar poi i suoi compagni di reparto contro l’Aston Villa) svariando su tutto il fronte offensivo, anche se predilige la zona sinistra del campo. Rapido e agile nello stretto, resistente al contrasto, forte fisicamente e dotato tecnicamente, è assai caparbio: capita spesso che si sacrifichi in copertura. Difetto principale è la poca confidenza con il gol: appena 7 in 41 partite di League One nella scorsa stagione con la maglia del Millwall, anche se con i Lions ha disputato una stagione di tutto rispetto, tanto da gudagnarsi il premio di Player of the Year della League One. Il ragazzo ha però dato prova di sapersi esaltare con indosso la maglia dei Gunners, nelle cui giovanili è entrato ad appena nove anni: è stato infatti autore del primo «hat trick» nella storia dell’Emirates Stadium contro il Cardiff City in FA Youth Cup nel 2007. Da segnalare anche la doppietta al Wigan in Carling Cup l’11 novembre 2008, nella sua prima gara da titolare con l’Arsenal. Dal 31 dicembre è in prestito al West Bromwich Albion.

mercoledì 17 dicembre 2008

Generazione di Talenti: Jebrin e Coquelin

Francis Coquelin: 1991 - Francia

Francis Coquelin, un Makelele capace di giocare anche da terzino destro. Nato il 13 maggio 1991 a Laval, in Francia, Francis Coquelin si è messo in mostra al Laval, con cui ha collezionato 13 presenze nella squadra riserve, attirando l’attenzione di Lione, Nantes e, soprattutto, dell’Arsenal, che gli ha messo gli occhi addosso vedendolo in azione con la maglia dell’under 17 francese. A convincere Arsène Wegner («Mi ha telefonato lui in persona», ha dischiarato «Sisco», come è soprannominato Coquelin) è stata la gran prestazione da lui offerta contro l’Israele in aprile. La scelta dei Gunners da parte di Coquelin è stata ovvia poiché, come afferma lui stesso: «L’Arsenal è un club che crede nei giovani, e ti permette di allenarti e crescere assieme a grandi campioni». Dopo la firma (avvenuta il 18 luglio) di un quinquennale, i primi spezzoni con la prima squadra, contro il Barnet e gli ungheresi dello Szombathelyi.
Baricentro basso, tenace e aggressivo, non molla mai. A queste ottime doti, che ne fanno un ottimo mediano, aggiunge un buon piede, unito ad una superba visione di gioco e a buone doti di passatore, e, soprattutto, buone qualità di corsa: da qui l’idea di Arsène Wenger di provarlo come terzino destro, nel tentativo di ripetere quanto fatto con Flamini. In quel ruolo ha giocato bene nei 20’ concessigli dal tecnico alsaziano nel 6-0 rifilato allo Sheffield United il 23 settembre in Carling Cup. Attualmente gioca con la squadra riserve, con cui ha marcato la prima rete con la maglia dei «Guns» il 6 ottobre contro lo Sheffield, giocando da centrocampista. Ieri, contro il Portmouth (2-0, reti di Randall e Gibbs), ha giocato sulla corsia di destra.

---

Torric Jebrin: 1992 - Ghana



«Il miglior piedino (per età e numero di scarpe) sinistro d’Africa» basterebbe come descrizione per Torric Jebrin, baby (sulla sua carta d’identità c’è scritto 10 maggio 1992) fenomeno made in Ghana conteso da mezza Europa accasatosi al Portsmouth nonostante le lusinghe dei ben più blasonati Arsenal e Atletico Madrid.
Regista dell’operazione, Paul Hart, anch’egli rimasto folgorato dal sinistro fatato dello «Show Boy», come è stato soprannominato in Ghana. In campo il ragazzo si muove molto, abbassandosi spesso sino alla propria trequarti campo per ricevere il pallone e impostare l’azione o partire in dribbling. Non esattamente un gigante (brevilineo, ma rapido, soprattutto nel breve), Jibrin ha nel piede sinistro, già ampiamente elogiato, il proprio punto di forza, pecca invece nell’utilizzo del destro, che non usa neppure per scendere dal letto appena sveglio.
In Ghana Jibrin è considerato uno dei giovani più promettenti, tanto da aver esordito ad appena 15 anni con la maglia della nazionale in una gara di qualificazione per l’African Championship of Nations. A livello di club, in patria ha sempre giocato con gli Hearts of Oak di Accra, dove è stato notato dal Pompey che, dopo avergli fatto firmare un triennale lo scorso 3 novembre lo ha immediatamente girato in prestito allo Zulte Waregem.
Il ragazzo è ben conscio delle proprie potenzialità, tanto da affermare che il suo limite è il cielo.