venerdì 29 gennaio 2010

Promossi&Bocciati di Inter-Juventus: La Vecchia Signora gioca da provinciale, Matrix ruggisce



L'atteggiamento della Juventus: Al gol di Diego, tanto fortunoso quanto primaticcio ed immeritato, la Vecchia Signora reagisce come l'ultima delle provinciali: rintanandosi in difesa con il miraggio del contropiede orchestrato dal funambolo brasiliano. Che però di cognome fa Ribas, non Maradona. Voto 4

Balotelli: Decide il match, ma senza il risolutivo tap-in finale si sarebbe trattato dell'ennesima partita «tutto fumo e niente arrosto». Svaria su tutto il fronte offensivo, è ossessionato dal dribbling, cade al suolo come una foglia morta e palesa tempi di reazione da far invidia ad un bradipo. Eppure, complice la manca «salita» di Grosso, è il più lesto ad avventarsi sul pallone del 2-1. Voto 6

Buffon: Senz'ombra di dubbio il migliore dei suoi. L'Inter segna il gol che decide il match all'88° minuto solo grazie ai suoi interventi: ci fosse stato qualcun altro al posto suo, i bianconeri avrebbero finito per capitolare assai prima. Lui non meritava la sconfitta, gli altri dieci sì. Voto 6.5

Balotelli contro Chiellini: Duello rusticano tra due futuri pilastri della Nazionale italiana. Non mancano colpi proibiti, urla e «vaffa», ma soprattutto non manca lo spettacolo: Chiellini pedina Balotelli, poco importa che giri alla larga dalla porta, a destra o a sinistra. In occasione del gol, però, gli lascia fare. Voto 7

Lucio: L'arrendevole condotta di gioco juventina lo rende pressoché inoperoso. Buon per l'Inter: lo «zegueiro» può far valere freschezza e strapotere atletico nell'«estirada» che vale il pareggio. Voto 7

Diego: nella prima frazione è il migliore della Juventus, semplicemente perché l'unico che cerca di giocare al calcio. Costretto da Ferrara a sfiancarsi tra centrocampo e attacco, lui riponde presente finché ha fiato. Poi la disperazione e l'acido lattico lo portano ad alzare bandiera bianca. Voto 6.5

La papera di Toldo: Il destro da fuori di Diego è un cordiale invito a sporcarsi i guantoni, che però Toldo respinge (l'invito, non il pallone!), accartocciandosi in modo talmente goffo da consentire alla sfera di passargli sotto la pancia prima d'infilarsi in porta. Voto 3

Chiellini: Rude, reattivo, rozzo, resistente. Perno difensivo bianconero, gli tocca l'ingrato compito di affrontare Balotelli (e Sneijder, e Milito, e Pandev...): lui non fa una grinza. Legna fino a quando può, e con i soliti, ottimi risultati. Poi gli tocca prostarsi dinanzi alla superiorità nerazzurra. Voto 6

Santon: Esente da compiti difensivi grazie alla latitanza offensiva da parte della Juventus, riassapora il dolce sapore delle scorribande nella metà campo altrui. Ancora un po' di ruggine, certo, ma il «Bimbo» sembra essere tornato sulla retta via. Voto 6

Materazzi: Ci mette un po' ad ingranare, ma è ampiamente giustificato dai 37 anni e dalla tanta panchina. Nel secondo tempo, tuttavia, si riscopre il leone di un tempo: ruggisce in difesa, ricacciando via i timidi tentativi della Juventus. Voto 6.5

Candreva: Ferrara, colto da uno dei suoi tanti raptus tattici, lo propone come esterno di destra nel centrocampo a quattro. Lui, che pur di indossare la prestigiosa maglia bianconera starebbe anche in porta, china il capo ed esegue gli ordini del tecnico (per quanto ancora?). La prestazione, tutto sommato, non è malaccio. Voto 6.5

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

martedì 26 gennaio 2010

Coraggio Haiti, sorprendici! Come Sanon nel '74...



«L'unione fa la forza»: questo il motto di Haiti, che servirà allo stato caraibico per farsi forza e rialzarsi dopo il terribile sisma del 12 gennaio. Come esempio potrebbe essere presa la Nazionale di calcio del 1974, prima ed unica a partecipare ai Mondiali, svoltisi in quella che allora era la Germania Ovest. Non si trattava certo di un «dream team», ma l'impegno profuso da tutti in egual misura finì col dare i suoi frutti, anche se la qualificazione fu ottenuta con qualche «aiutino»: il dittatore Jean-Claude Duvalier (figlio di «Papa Doc» François Duvalier) fece sì che la fase finale delle qualificazioni mondiali si disputasse nella parte occidentale dell'isola di Hispaniola, ove aveva potere assoluto. Manco a dirlo, gli arbitri diedero una mano - neppure troppo grande: la squadra non era poi così malmessa -, ed Haiti ottenne la prima, storica qualificazione ai Mondiali. «Baby Doc», dopo aver fatto dono a ciascun componente della squadra di una Fiat 147 usata, ordinò ai suoi di partire per la Germania al fine di abituarsi al rigido clima teutonico. Decisione sorprendente, visto e considerato che la Coppa del Mondo sarebbe iniziata il 15 giugno, non certo in pieno inverno.
Gli haitiani disponevano di qualche discreto giocatore come il portiere Francillon e la punta Sanon, oltre al capitano Nazaire, Bayonne (che si occupò di Riva) e Vorbe, ispiratore del gol di Sanon contro gli azzurri. Eccolo, il gol di Sanon. Una novità assoluta, anzi due. Si trattò del primo gol segnato da Haiti ai Mondiali, ma soprattutto della prima rete subita da Zoff dopo 1.143 minuti d'imbattibilità: l'ultimo in grado di costringere il portierone juventino a raccogliere il pallone in fondo al sacco fu Vukotic, che al 73' di un Italia-Jugoslavia disputato il 20 settembre di due anni prima a Torino mise a segno il gol del provvisorio 2-1, prima che Anastasi chiudesse le marcature 10' dopo. Dopo la gioia, incontenibile ed incommentabile (due morti ad Haiti: anche quando è festa, da quelle parti si preme il grilletto), ecco la doccia fredda: Rivera fa 1 a 1 dopo 7 minuti. Un'autorete di Auguste (deviazione su un destro da fuori di Benetti, oggi il gol verrebbe assegnato all'allora mediano del Milan) ed un preciso destro di Pietruzzo Anastasi fisseranno il risultato sul 3-1.
Nel prosieguo del torneo iridato, dopo una disfatta (7-0, tripletta di Szarmach e doppietta di Lato) contro la Polonia, ecco un altro briciolo di gloria per Haiti: sconfitta per 4-1 con l'Argentina, ma ancora un gol, ancora di Sanon. Sulle ali del Mondiale, la punta approdò al Germinal Beerschot, in Belgio. Con «de Ratten» (i ratti, questo il soprannome dei viola di Anversa) disputò oltre 140 partite segnando 43 gol, togliendosi pure lo sfizio di vincere la Coppa di Belgio nel 1979. Poi il trasferimento nella Nasl, progenitrice della Mls, ai San Diego Cockers, nei quali giocherà anche qualche partita al fianco di Hugo Sanchez, prima che il futuro «pentapichichi» si trasferisca all'Atletico Madrid. Appesi gli scarpini al chiodo, Sanon sceglie di restare a vivere negli Usa. Nel 2008, a causa di un cancro al pancreas, la morte, in seguito alla quale il Don Bosco di Pétionville (squadra haitiana fondata da italiani che Sanon guidò al successo in campionato nel 1973) ha deciso di ritirare la maglia numero 10 in suo onore, in onore del più grande calciatore cui Haiti abbia dato i natali.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 18 gennaio 2010

Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna y Loustau: «la Máquina»



Juan Carlos Muñoz, José Manuel Moreno, Adolfo Pedernera, Angel Labruna e Felix Loustau. Giocarono assieme la miseria di 18 partite in 5 anni (11 vittorie, 5 pareggi, 2 sconfitte e 38 gol segnati), sufficienti comunque per passare alla storia con il soprannome di «la Máquina». A coniarlo fu Borocotó (pseudonimo di Ricardo Lorenzo Rodríguez, al tempo «periodista» di El Gráfico): il gioco «totale» di quella squadra gli era parso simile ad una macchina. Carlos Peucelle, che plasmò quella creatura assieme a Renato Cesarini (sì, proprio quello dei gol allo scadere) affermò che il loro modulo di gioco non era l'1-2-3-5 tanto in voga all'epoca, bensì l'1-10: un portiere, e dieci uomini intenti a scambiarsi le posizioni e correre come forsennati. Era il calcio totale, con trent'anni di anticipo sull'Olanda di Michels e Cruijff.
Di quel fantastico River Plate pluricampione d'Argentina, a fare sensazione era la «delantera», la linea d'attacco: Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna e Loustau.
Il centrattacco, Adolfo Pedernera, era la stella della squadra. Meglio di Maradona, per chi lo vide giocare. Portava la fascia al braccio, ma era più che un capitano: simbolo del River Plate, vestì la maglia bianca con banda trasversale rossa per dal 1934 al 1946. Alfredo Di Stefano, a chi gli domandasse chi fosse più forte tra lui e Pelé, era solito rispondere: «Tutti e due un gradino sotto Pedernera», con cui la «Saeta Rubia» ebbe anche l'onore - e l'onere: Pedernera era molto esigente - di giocare. José Manuel Moreno giocava mezzala destra. Spietato in campo, sfrenato fuori: alcol, donne tango. Ma in campo era fenomenale: abbinava ad un fisico insolitamente possente per i tempi una tecnica che sarebbe fuori dall'ordinario anche se esibita oggi. Lo chiamavano «Charro»: dicevano ricordasse un messicano. Be', piccante lo era senz'altro. A completare il trio di bomber, Angel Labruna. Goleador straordinario, autore di 292 gol in vent'anni (dal 1939 al 1959) di River Plate: miglior marcatore nella storia dei «Millonarios». Nove volte campione nazionale. All'ala destra giostrava Juan Carlos Muñoz. Elegante fuori e dentro il terreno di gioco, sull'out destro faceva meraviglie. Dribbling in serie, eseguiva persino un antesignano dell'«elastico» reso celebre da Rivelino prima e Ronaldinho poi. Se Moreno, Pedernera e soprattutto Labruna segnarono così tanto, una parte del merito è anche di questo funambolo e dei suoi cross al bacio. A completare la linea d'attacco, Felix Loustau. Fu il successore di Deambrossi, e probabilmente il meno dotato tecnicamente tra i componenti di quella magnifica squadra. Poco male: la sua personalità gli consentiva di sopperire a questa «mancanza», ed i suoi traversoni dal fondo facevano la gioia dei tre mostri sacri là davanti.
Poi un bel giorno arrivò Di Stefano, e chiese un posto da titolare. Il sacrificato fu Pedernera, che fece le valigie e si trasferì all'Atlanta. Il River Plate vincerà ancora un titolo argentino, nel 1947, ma senza Pedernera non sarà più la stessa cosa. La Máquina andava portata dallo sfasciacarrozze.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

martedì 12 gennaio 2010

«Il catenaccio? L'ha inventato un austriaco»



«Catenaccio». Lo chiamano così in tutto il mondo. Eppure il modulo (o la filosofia?) di gioco diventato simbolo calcio italiano è nato oltre le Alpi. In Svizzera, per la precisione. La sua invenzione è dovuta a Karl Rappan, al tempo allenatore del Servette di Ginevra. Nato a Vienna nel 1905, suo padre Ludwig fa il bigliettaio tranviario. Lui lavora in un'impresa tessile viennese, ma appena può indossa gli scarpini bullonati per dedicarsi alla sua passione: il calcio. Dopo una discreta carriera in patria con Admira Wacker, Austria e Rapid Vienna, Rappan sceglie di chiudere in Svizzera: nel 1931 si trasferisce al Servette. Un anno dopo siede in panchina, ed i granata mettono in bacheca due titoli svizzeri consecutivi.
Il segreto di questo successo è un'invenzione di Rappan. In pratica, il tecnico austriaco apporta una piccola - ma importantissima - modifica al «Sistema» o «WM» (dallo schieramento della squadra in campo, un 3-2-2-3 che visto dall'alto ricorda proprio una W sovrapposta ad una M): un centrocampista scala alle spalle della difesa, e viene esentato da qualsiasi compito di marcatura individuale: nasce il libero. Non si limita a questo, ovviamente, l'innovazione apportata da Rappan: con questo modulo numericamente spiegabile come 1-3-3-3 tutti i giocatori sono tenuti a prender parte alla manovra difensiva, riponendo in soffitta i continui uno-contro-uno rischiesti dal Sistema. La fase d'attacco, invece, è imperniata sul contropiede: sei, anche sette uomini si riversano in attacco dopo aver recuperato la sfera, prendendo d'infilata le squadre avversarie malamente sbilanciate in avanti.
Proprio al contropiede è legata una delle più grandi imprese nella storia della Nazionale Svizzera, l'eliminazione della Germania negli ottavi di finale del Mondiale di Francia nel 1938. Rappan, che ora siede sulla panchina elvetica, è l'artefice di questo inaspettato successo. Dopo l'1-1 del 4 giugno, come da prassi il match viene ripetuto il giorno successivo. Sotto di due gol al 22' (Hahnemann ed un'autorete di Lörtscher), gli svizzeri continuano inspiegabilmente a difendersi, lasciando il pallino del gioco ai tedeschi. Con il passare dei minuti le energie dimuiscono, e Rappan ne approfitta per far vedere al mondo cos'è il suo «Riegel» (righello, in tedesco): Walaschek e Bickel agguantano il pari, poi André «Trello» Abegglen sigla una doppietta a cavallo tra il 75' ed il 78' che sancisce l'eliminazione dei quotatissimi tedeschi. Denominatore comune delle quattro reti che spazzano via i tedeschi? Il contropiede, naturalmente.
Dopo quell'incontro i francesi ribattezzarono «Verrou» il righello svizzero. Il 12 giugno gli svizzeri furono eliminati dall'Ungheria futura finalista, e Rappan tornò ad allenare squadre di club finendo col vincere nove campionati ed altrettante coppa di Svizzera. Tornerà alla guida della Nazionale per guidarla ai Mondiali casalinghi del 1954 ed a quelli del '62. Si spegnerà a Berna, a 90 anni suonati, sul finire del 1995.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

«C'era una volta il Football», la mia nuova rubrica su Goal.com

È da oggi online la prima puntata della mia nuova rubrica, «C'era una volta il Football».
Partendo da un avvenimento di rilievo - la rovesciata di Carlo Parola (quella dell'album Panini, per intenderci), la doppietta di Meazza in Inghilterra-Italia 3-2, il non-gol di Pelé contro l'Uruguay e così via - cercherò di approfondire sul protagonista o sull'avvenimento. Un unico cruccio: il limite fissato a 3.000 battute (3.500 al massimo).

Ovviamente, sono ben accette proposte per le prossime puntate.

sabato 9 gennaio 2010

Diego Alves: sarà il prossimo goleiro della Serie A?



Amelia fa le bizze e Castellazzi andrà via a parametro zero a giugno. Per risolvere il problema-portiere, Genoa e Sampdoria hanno avuto la medesima idea: Diego Alves, estremo difensore brasiliano in forza all'Almeria. Segni particolari, passaporto comunitario: la sua famiglia è originaria della provincia di Rovigo. Non resta quindi che approfondire la conoscenza di quello che si appresta a diventare l'ennesimo goleiro della Serie A.
«El Gato»: così lo soprannominò Unai Emery ai tempi dell'Almeria. Nomignolo semplice da spiegare: il ragazzo abbina un'impressionante agilità fra i pali a dei riflessi - per l'appunto - felini. Aggiungiamo una discreta abilità nelle uscite sia alte che basse ed un'innata capacità di parare i rigori, ed il quadro tecnico di questo ragazzone (188 cm per 83 kg di peso forma) nato il 24 giugno 1985 a Rio de Janeiro è bell'e pronto.
Nonostante sia nato tra Copacabana e Ipanema, le prime parate le compie a Ribeirão Preto; prima con il Clube de Regatas e poi con il Botafogo (quello cittadino, che disputa il Paulistão, mica l'«Estrela Solitária» di Rio). Dopo un ottimo 2003, l'Atletico Mineiro lo porta via dalla città che ha dato i Natali ad altri due calciatori di Serie A: Diego, fantasista juventino, e Julio Sergio, portiere della Roma.
Con il «Galo» trascorre la prima stagione nelle giovanili, continuando a riscuotere consensi. Anche in maglia verdeoro: prende parte ai Giochi del Mediterraneo, tenutisi a Barcellona, con l'Under 19. Il 2005 è l'anno del defintivo ingresso in prima squadra di Diego. Due partite nel Campionato Mineiro (3-2 contro l'U.R.T. all'esordio assoluto, poi la sconfitta casalinga contro il Cruzeiro nella gara d'andata delle semifinali), e debutto in campionato contro il Fortaleza il 26 ottobre al Mineirão in un 3-2 per gli ospiti. Tra le due «prime», il Mondiale Under 20 disputato in Olanda. Lui è il terzo portiere, dietro Renan (attualmente allo Xerez) e Bruno (neocampione del Brasile con il Flamengo, al tempo portiere titolare del «Galo»), e assiste incolpevole all'eliminazione in semifinale contro l'Argentina di un debordante Messi, protagonista assoluto della competizione. Bronzea consolazione per il Brasile, che batte 2-1 il Marocco nella finalina grazie ad un gol di Edcarlos allo scadere, ma amarissima retrocessione per l'Atletico Mineiro: il club alvinegro scende agli inferi della B per la prima volta nella sua storia.
Diego, promosso titolare dopo la cessione del già citato Bruno al Flamengo, si trasforma in una piovra. Appena 25 gol subiti in 24 partite, premio di rivelazione dell'anno messo in bacheca e, soprattutto, immediato e meritato ritorno dell'Atletico Mineiro nella massima serie brasiliana. Sull'onda lunga del successo in Serie B, il «Galo» si ripete nel campionato statale: Mineirão conquistato in finale a spese degli acerrimi rivali del Cruzeiro. Il nostro, ovviamente, si assicura il riconoscimento come miglior portiere della competizione. Dunga, intanto, lo nota, e lo inserisce tra i preconvocati per la Coppa America. «Cucciolo» (questo significa, in portoghese, Dunga), però, non è il solo a mettere gli occhi addosso su questo interessante prospetto brasiliano: la Lazio lo tenta, ma è l'Almeria di Unai Emery a contrattualizzarlo in giugno.
Dopo aver superato un'iniziale stato di diffidenza nei suoi confronti - si trattava infatti del primo portiere brasiliano nella storia della Liga - a suon di respinte (blocca poco, dovrebbe migliorare in questo fondamentale), riesce a togliersi parecchie soddisfazioni: mantiene inviolata la propria porta per 677 minuti consecutivi e l'Almeria conclude il campionato all'ottavo posto contro ogni pronostico iniziale. In questa stagione sta rispettando le attese, continuando a garantirsi qualche sporadico momento di gloria: il rigore parato a Cristiano Ronaldo contro il Real Madrid ne è una tangibile dimostrazione.
La scorsa stagione, hanno chiesto informazioni su di lui Milan e Fiorentina. Chissà che in Italia non ci arrivi, prima o poi. Magari a «Zena».

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

sabato 2 gennaio 2010

Marco Ezio Fossati: Pirlo? No, Fabregas



Il nuovo Pirlo? Be', mica tanto. In comune il passaggio da una sponda all'altra dei Navigli, ma non la posizione in campo. Registi entrambi, ma solo sulla carta. Fossati, eccolo il soggetto, ha un dinamismo sconosciuto a Pirlo, ed una tendenza a farsi trovar pronto in ogni zona di campo: più Fabregas, insomma.
Nato il 5 ottobre 1992, 72 kg ben distribuiti su 180 cm d'altezza, Fossati ha nel destro il piede prediletto, pur non disdegnando il sinistro. Ottimo calciatore da fuori area, brevo anche su calcio piazzato, la visione di gioco è il suo pezzo forte.
Nel 2007 ha lasciato i Giovanissimi per Milan, allenati da Eranio, per quelli nerazzurri. La scelta, per ora, lo sta ripagando: due anni tra gli Allievi dell'Inter (il primo sotto età, il secondo con la fascia da capitano al braccio) e tante soddisfazioni con gli azzurrini di Rocca. Unico dispiacere, il rigore sbagliato contro i futuri campioni della Svizzera ai recenti Mondiali di categoria.

venerdì 1 gennaio 2010

Fabio Borini: un italiano a Londra



Nasci (Bentivoglio) e cresci (Sala Bolognese) in provincia. Inizi a giocare a pallone in città (Bologna) ma per diventare calciatore vero fai le valigie, attraversi la Manica ed impari il cockney, il dialetto londinese. Questa è la storia di Fabio Borini, interessantissimo prospetto del Chelsea cui Carletto Ancelotti ha già regalato qualche sprazzo di grande calcio in prima squadra.
La svolta per Borini arriva nell'estate del 2007, quando Frank Arnesen (ds del Chelsea) e Carlo Jacomuzzi (osservatore dei Blues) si presentano a casa sua: lo vogliono portare a Londra. Papà Roberto e mamma Cinzia (un passato da maratoneta) accettano, e non potrebbe essere altrimenti: il sogno di Fabio - diventare un calciatore, of course - sta per avverarsi, non possono certo sbarrargli la strada verso la felicità. La firma sul contratto - 4 anni, il primo di scolarship (apprendistato), gli altri tre da professionista - è una formalità, ed il 6 agosto Borini è già in viaggio per Londra.
Nell'Academy del Chelsea il ragazzo ha a disposizione tutto ciò di cui ha bisogno. E non esita a garantirsi un mental coach - Roberto Civitarese - per completare l'opera. Con la squadra riserve si toglie importanti soddisfazioni, tra cui un gol ad Old Trafford in un match valido per l'FA Youth Cup, l'FA Cup versione baby. Il gol ai Red Devils rappresenta la ciliegina su una torta farcita dai 10 gol messi a segno in 11 partite disputate nella stagione 2008-09.
Visti i numeri ed i movimenti in campo, al Cobham Sportsground (dove si allena il Chelsea) si è subito cominciato ad accostare Borini a Pippo Inzaghi. E non gli si può dar torto.
Classe 1991, destro naturale, normolineo (178 cm x 73 kg) asciutto, Borini è un opportunista d'area di rigore. Freddo sotto porta, attacca lo spazio e «sente» il gol: pare sia sempre al posto giusto nel momento giusto. Non propriamente un marcantonio, predilige il gioco palla a terra e, se necessario, è in grado di defilarsi lasciando ad un compagno il centro dell'area. Deve ancora migliorare il sinistro e la conclusione, ma di tempo per crescere ne ha ancora parecchio.
Sul finire del 2009 ha anche collezionato qualche minuto in prima squadra: esordio in Premier League contro il Tottenham il 20 settembre; meritatamente titolare contro il QPR in Carling Cup tre giorni dopo; anche un assaggio di Champions contro l'APOEL Nicosia nel 2-2 dell'8 dicembre. Casiraghi lo ha anche convocato in Under 21, facendolo esordire contro l'Ungheria.
Quest'anno volge ormai al termine, ma siamo sicuri che Borini firmerebbe per vivere un 2010 ricco di soddisfazioni almeno quanto questo 2009 che se ne va.

Fonte: Goal.com

Si riparte!

Come promesso, eccomi di nuovo qui. Si riparte subito, con un pezzo sulla giovane promessa del Chelsea (made in Italy, però) Fabio Borini.