mercoledì 31 marzo 2010

Promossi&Bocciati di Bayern Monaco-Manchester United: Per Evra una serata no, Olic fa tutto e bene!



La partita: Ritmo tambureggiante, dal fischio singolo sino a quello triplo dell'arbitro belga De Bleeckere. Sono sufficienti novanta secondi a Wayne Rooney per sbloccare il risultato, complice un inopinato scivolone di Demichelis. Il Bayern però non ci sta, e viene fuori alla metà del primo tempo: i Red Devils prendono paura, ma il risultato rimane sullo 0-1. Perché i padroni di casa trovino la via della rete sono necessarie classe e fortuna, che si integrano perfettamente nel calcio di punizione con cui Ribery pareggia i conti al 77'. Un quarto d'ora, ed ecco arrivare il goal-partita di Olic. Il più caparbio di tutti, con pochi istanti ancora da giocare, ruba palla ad Evra in area ed infila l'incolpevole van der Sar con un sinistro affamato. Finisce 2-1 per i padroni di casa, ma a vincere è il bel calcio. Voto 8

Rooney: Fa e disfa. Goal, non-goal, autogol (almeno secondo gli antichi canoni), «giallo» e pure un infortunio infame nel finale. Protagonista, nel bene e nel male, di una sconfitta che il Manchester United probabilmente non meritava, ma che avrà la possibilità - e le facoltà, io credo - di rendere vana ad Old Trafford, tra una settimana. Per riuscirci, i Red Devils avranno bisogno del miglior Rooney della stagione. Voto 6.5

Ribery: Robben è in tribuna a masticare gomma americana e rimuginare sull'ennesimo infortunio? Poco male, in campo c'è Franck Ribery. Sta a lui non far rimpiangere il dribblomane - ma non solo - olandese, e lui ci riesce perfettamente: van Gaal crede ciecamente nelle sue doti, e «Kaiser Franck» lo ripaga prima caricandosi la squadra sulle spalle in un primo tempo balbuziente e poi marcando l'1-1 con l'involontaria complicità di Rooney. Lampi di classe e genio incompreso (dalla difesa del Manchester United). Voto 7

Fletcher: Fa di tutto: il mediano, il terzino, la mezzala. Stasera fa il suo, e poco altro. L'avvio è convincente, in entrambe le fasi: grintoso dinanzi alla difesa, Ferguson gli concede una chance offensiva scambiandogli la posizione con Carrick, che gli va a coprire le spalle. Lui, sbadato, si dimentica di ringraziare: una percussione sulla sinistra, poi basta. Al ritorno dovrà fare di più, sempre che non abbia voglia di visitare la Francia. Voto 6

Demichelis: Il pasticcione mascherato. Inizia che vuole spaccare tutto, e per poco non spacca Nani. Sul calcio di punizione causato, va pancia a terra lasciando Rooney libero d'insaccare il pallone in rete. Si rifarà dopo quest'infausto inizio di partita? No. Birillo di Fletcher, poi saltatore a vuoto. Nella ripresa, complice il progressivo arretramento dell'United, si rimette in piedi. Sotto la sufficienza, comunque. Voto 5.5

Evra: Chi ne tesse le lodi dovrebbe evitare di vedere quest'incontro. Nella prima frazione consente al brutto anatroccolo Altintop di emulare il cigno Robben, senza ovviamente rendersi mai pericoloso in avanti. Nella ripresa segue il medesimo copione, sino alla disastrosa improvvisazione finale: piroetta in area di rigore regalando signorilmente il pallone ad Olic, che da mastino d'area qual è segna senza neanche l'ombra di un ringraziamento. Niente fiori né applausi per lui stasera, ma solo ortaggi. Voto 5

Olic: Grinta da mediano, piedi più o meno di quel livello. Ma il fiuto del gol e la caparbietà ci sono. Il croato, atipica prima punta nello schieramento di van Gaal, rispetta la decisione del mister sbattendosi come un matto, ma senza prove tangibili della sua effettiva efficienza. Sul finire dell'incontro, ecco l'incontro di Klose e Gomez: Olic va a fare l'esterno a destra, e proprio da lì parte per andare a freddare van der Sar. Poi va a fare lo spogliarello e si becca un giallo da pollo, ma non conta nulla: lui ha segnato, lui ha vinto. Voto 7

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

martedì 30 marzo 2010

Analisi: il Palermo di Rossi e Liverani

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Stabilità, ecco cosa serviva al Palermo. Quella composta da Zenga e Zamparini, evidentemente, non era la coppia più adatta a garantirne. E allora, visti gli scarsi risultati ottenuti dal suo Palermo sotto la guida dell'Uomo Ragno, il presidentissimo ha deciso di metter mano al portafogli ed ingaggiare Delio Rossi: da lì in poi, i rosanero hanno imboccato la retta via, quella che conduce al quarto posto. Scopriamo come.

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HANNO UCCISO L'UOMO RAGNO, CHI SIA STATO...
...si sa: Maurizio Zamparini. Niente mala né pubblicità, come cantava Max Pezzali, ma semplicemente un imprenditore friulano con la passione del calcio ed il vizio di cacciare gli allenatori. Walter Zenga, detto l'Uomo Ragno, è stato l'ultimo di una lunghissima (siamo a 28, e Palermo si augura di dover mettere nuovamente mano al pallottoliere non prima della fine del campionato) serie: esonerato perché dopo il derby pareggiato contro il Catania - ironia della sorte, la squadra da cui Zenga se n'era andato tra le polemiche non più di di sei mesi prima - la parte destra della classifica non pareva idonea alle aspettative di una squadra il cui monte ingaggi, a dispetto della marea di giovani presenti in prima squadra, è il nono della Serie A. E allora via Zenga.

Ma perché questo inatteso fallimento? Squadra di tutto rispetto, giovane ed affamata, con un tecnico esperto ed in gamba. Il carattere, certo, ma i fattori che hanno portato all'esonero dell'ex portierone nerazzurro sono principalmente due: l'instabilità «per scelta» e Fabio Liverani, o per meglio dire la sua assenza.

Partiamo dalla precarietà tattica, fiore all'occhiello del Catania, tallone d'Achille del Palermo. Alle pendici dell'Etna, Zenga aveva autonomamente deciso di non dar nulla per scontato: il modulo, il capitano, cambiavano domenica dopo domenica. La fascia poteva indossarla Alvarez, alla quarta partita in rossazzurro, così come il veterano Stovini o la stella Mascara; il modulo, poi, era un rebus per tutti tranne che per l'allenatore: difesa a tre, a quattro, centravanti all'ala e rombo o duo d'interdittori in seconda linea. A Palermo non ha funzionato, ma non ci voleva un chiromante per rendersene conto in anticipo: fascia di capitano a Miccoli in attesa del ritorno in campo di Liverani, aveva ordinato Zamparini in un'afosa conferenza stampa estiva, e guai a sindacare. La menzione del tardivo rientro in campo di Liverani offre su un piatto d'argento la disamina della situazione rosanero a centrocampo: venuto a mancare il faro del gioco, Liverani per l'appunto, la confusione ha preso il sopravvento. Si è partiti con il rombo, ma senza un preciso vertice basso: Simplicio, Blasi e Migliaccio si sono alternati in quella posizione, non riuscendo però a dare un'dentità precisa alla squadra a causa della differente interpetazione del ruolo data dai tre centrocampisti, chi di rottura, chi d'impostazione. La scintilla pareva essere scoccata contro la Juventus, il 4 ottobre: 3-4-1-2, Migliaccio terzo di sinistra in difesa e Simplicio-Bresciano a centrocampo. Convincente 2-0, poi 2-1 a Livorno e fortunoso 1-0 contro l'Udinese al Barbera: terza piazza, in coabitazione con Fiorentina e Milan, e primi - anche abbastanza convinti, a dire il vero - applausi per Zenga. Il tempo di totalizzare due punti in quattro partite, senza tra l'altro poter fare praticamente mai affidamento su Liverani, e Zamparini dice basta: arriva Delio Rossi.

Ma della gestione-Zenga non è tutto da buttare, anzi. L'Uomo Ragno ha infatti il grande merito di aver lanciato un suo grande fan: Salvatore Sirigu, detto «Walterino» ai tempi delle giovanili rosanero. Con Walterone in panchina, le prodezze del portiere sardo non sono passate inosservate, e così dopo appena cinque partite Rubinho s'è ritrovato in panchina e Sirigu tra i pali. Il ragazzo, che sulla maglia porta il numero 46 in onore di Valentino Rossi, sta bruciando le tappe: Nazionale già raggiunta, e non è detto che a cavallo tra giugno e luglio Lippi lo lasci libero di godersi delle meritatissime vacanze. Un ringraziamento a Zenga è quantomai dovuto.

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ARRIVA ROSSI, TORNA LIVERANI
Sul finire di novembre, la svolta della stagione rosanero. Oltre al cambio d'allenatore, non certo una novità nel capoluogo siciliano, ciò che ha più influito sulla riscossa del Palermo è stato indubbiamente il ritorno in campo di Fabio Liverani. Piede - mancino - pensante del centrocampo, senza di lui i suoi compagni di squadra erano scivolati al dodicesimo posto.

Il ritorno in campo contro il Catania, otto minuti nel derby d'addio di Zenga, quindi un'inopportuna espulsione a tempo scaduto contro il Chievo nel giorno dell'esordio in panchina di Delio Rossi. Brutto avvio, ma era prevedibile: il riento dopo una lesione di legamenti del ginocchio è sempre difficile. Però Liverani ci ha messo meno tempo del previsto, scontando la squalifica contro il Cagliari (2-1 rosanero, primo successo per Rossi) e scendendo in campo dal primo minuto contro il Milan. A San Siro finisce due a zero per gli ospiti: Miccoli gioca a fare il fenomeno, ma se la squadra gira è grazie al regista romano. Il successo contro i rossoneri è la chiave di volta della stagione: da quel 16 dicembre ad oggi il Palermo ha perso appena tre volte, risalendo dalla tredicesima alla quarta posizione.

Liverani, quello lento, vecchio, da rottamare, ha ancora una volta smentito i suoi - purtroppo numerosi - detrattori. Dimostrazione vivente che nel calcio l'importante è far correre la palla e non le gambe, si è dedicato ad un'opera di ristrutturazione totale delle trame di gioco rosanero: senza di lui a centrocampo regnava il caos, da quando è riapparso sul terreno di gioco le sue geometrie sono tornate imprescindibili per la manovra palermitana, dipendente dal proprio metronomo e fiera di esserlo.

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COME GIOCA IL PALERMO
Con l'approdo di Delio Rossi in Sicilia, il gioco del Palermo è migliorato in modo sensibile, come testimonia la scalata della classifica. Prima di analizzarlo, è importante sottolineare che Rossi, nonostante in passato sia stato tacciato di essere un arcigno difensivista, è cresciuto alla scuola di Zeman. Niente spregiudicato 4-3-3 con la linea difensiva oltre la metà campo, ma una sua evoluzione più accorta e produttiva: Rossi ha infatti scelto per il suo Palermo un 4-3-1-2 «intelligente», ben conosciuto sia da lui che dalla squadra dato che così si giocava al Barbera con Ballardini, e con questo stesso modulo il tecnico riminese ha guidato la Lazio al successo in Coppa Italia un anno fa.

I princìpi del gioco sono rimasti invariati, com'è naturale che sia, anche grazie alle molte similitudini con la Lazio: Miccoli è una seconda punta tecnica quanto e più di Zarate, tendente all'assist ma che non disdegna mettersi in proprio, come dimostrano le 13 marcature stagionali; Cavani e il suo sostituto Hernandez hanno movenze simili a Rocchi, centravanti che svaria su tutto il fronte offensivo con il taglio come arma segreta; Liverani è un Ledesma mancino con una visione di gioco migliore, più lento ma anche e soprattutto più esperto; il duo di terzini, Cassani-Balzaretti, ha le stesse proprensioni offensive - e le carenze difensive: non bisogna essere omertosi - di Kolarov e Lichtsteiner; in chiusura il portiere, perché Sirigu ha l'età che aveva Muslera la scorsa stagione, e proprio come l'arquero uruguagio ha sottratto il posto al titolare designato (lì Carrizo, qui Rubinho).

La manovra del Palermo, quindi, non è molto dissimile da quella della Lazio targata Rossi. Ad orchestrarla ci pensa il già celebrato Liverani, di cui ho tessuto le lodi poche righe fa. La manovra passa necessariamente dai suoi, sapienti piedi: una volta ricevuto il pallone, preferibilmente fronte alla porta in modo da non doversi girare (la lentezza è un dato di fatto: per rendere al meglio Liverani necessita di palloni giocabili immediatamente, di prima o al massimo ai due tocchi), il regista rosanero smista il gioco sugli esterni per gli accorrenti terzini oppure cerca la verticalizzazione. Spesso è lui a «pulire» il pallone per Pastore, cui spetta il compito d'inventare trenta metri più avanti. Nel caso in cui Liverani sia impossibilitato dal pressing avversario a ricevere il pallone (succede spesso quando l'avversario adotta un centrocampo a rombo speculare a quello palermitano, in cui il trequartista va a far pressione sul regista rosanero sin dall'inizio dell'azione), la scelta ricade sul centrale sinistro di difesa, Cesare Bovo: destro naturale con buona visione di gioco, il cui piede è assai più educato di quello del compagno di reparto Kjær, che basa il proprio gioco sulla notevole fisicità ed il tempismo dell'intervento. Terza opzione: le discese dei terzini, tanto care a Zeman. Con Cassani e Balzaretti, duo che sta vivendo una stagione da incorniciare, la scelta si rivela spesso proficua: dotati entrambi di buona corsa e piedi sufficientemente buoni, il dialogo con i centrocampisti gli consente spesso di proporsi al cross, soprattutto per un Budan che raramente disdegna tali iniziative.

Fin qui abbiamo visto ciò che accade quando al Palermo viene consentito di far partire l'azione dalle retrovie, ma non sempre è così. In particolare contro le grandi, Inter-Juve-Milan-Roma, i rosanero hanno basato i propri successi sulle ripartenze, scindibili in due categorie: originate nella propria metà campo e provocate nella metà campo dell'avversario. Per quanto concerne il primo genere di contropiede, emblematico è il gol segnato a San Siro contro il Milan sul finire del 2009: pallone recuperato da Miccoli (in costante ripiegamento difensivo) a trenta metri dalla porta di Sirigu, e conduzione centrale dell'azione accompagnata da una doppia sovrapposizione sugli esterni, con lo stesso Miccoli a sinistra (cui Pastore recapiterà poi il pallone) e Cavani a destra. Cambiano gli intepreti, ma sostanza è sempre la stessa: un uomo con la palla per vie centrali e due compagni di squadra che si propongono sull'esterno, pronti a tagliare così come a costringere al rinculo la difesa per consentire al portatore di palla di calciare in porta o di servire il centrocampista che arriva a rimorchio.

Alternativa gustosa e spesso più efficace - ma anche rischiosa, se non eseguita a dovere - il pressing alto: poiché Pastore viene spesso esentato dall'azione di pressing al fine di preservarne la freschezza, un incontrista va ad aiutare l'attaccante in fase di raddoppio sul difensore in possesso di palla sulla propria trequarti campo difensiva. Così facendo, il pallone viene recuperato ad una distanza spesso esigua dalla porta avversaria, ed i palloni serviti sul taglio degli attaccanti finiscono quasi sempre per cogliere impreparate le terze linee avversarie. Tale pressing offensivo è favorito dall'atteggiamento difensivo: la linea a quattro (Cassani, Kjær, Bovo e Balzaretti guidano la classifica dei più presenti in questo Palermo 2009-10: la linea difensiva è ben oliata e poco avvezza all'errore), sempre compatta, andando ad accorciare sin quasi sulla linea di centrocampo, costringe la squadra ad alzare il proprio baricentro per far sì che il pressing risulti ancor più efficace. Un ultimo appunto per quanto concerne la fase difensiva, riguardante la marcatura del trequartista avversario: non avendo Liverani le doti adatte per francobollare il «10» di turno, Rossi ha scelto di far uscire un centrale difensivo sul trequartista avversario, facendo scalare il terzino al centro ed imputando al mediano laterale il raddoppio sul trequartista; in tal modo, l'azione può immediatamente ripartire dai piedi Liverani, così da innescare il già illustrato contropiede.

Questa la vivisezione tattica del Palermo di Delio Rossi, cui però è volontariamente sfuggito l'elemento di rottura: Fabrizio Miccoli, con i suoi dribbling e le sue invenzioni, costituisce la variabile impazzita di un sistema di gioco che, proprio grazie al suo estro, rappresenta una delle più belle realtà del calcio italiano.


lunedì 29 marzo 2010

Rafael Moreno Aranzadi, el Pichichi

Per scrivere del Pichichi mi sono avvalso della collaborazione di Edoardo Molinelli, tifoso vero dell'Athletic Bilbao e curatore del blog non ufficiale sull'Athletic Bilbao. Un ringraziamento a lui ed un augurio di buona lettura a voi.

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Rafael Moreno Aranzadi. Detto Pichichi. Chi era rimasto interdetto dinanzi al nome di battesimo avrà certo avuto modo di riprendersi leggendo il mitico soprannome. Questo nomignolo, che Rafael si porterà appresso nel corso della sua breve vita, gli fu appioppato in tenera età a causa dell'esigua statura. 154 centimentri, però, basteranno a Pichichi («picìci» la corretta pronuncia) per diventare una leggenda, in Biscaglia così come nell'intera Spagna: in seguito alla sua prematura morte, di cui parleremo più avanti, gli fu intitolato il trofeo di capocannoniere del campionato spagnolo.
Ed ora, riavvolgiamo il nastro della storia. A Bilbao, il 23 maggio 1892, Dalmacia Aranzadi dà alla luce Rafael. Il padre è Joaquin Moreno, avvocato di successo cui il futuro riserverà un mandato da sindaco del capoluogo vizcaino. La signora Dalmacia, invece, è imparentata con il celebre Miguel de Unamuno, personaggio di spicco della cultura spagnola a cavallo tra l'Ottocento ed il Novecento. L'infazia è agiata, e non potrebbe essere altrimenti: studi di prestigio, fino ad un'iscrizione all'università di Deusto, sulla riva destra del fiume Nervión. La facoltà di diritto, però, non appassiona Moreno quanto il gioco del calcio, giunto in Biscaglia grazie ai marinai inglesi, la cui comunità bilbaina si prodiga nell'insegnare ai giovani questo innovativo sport. Nonostante l'altezza sia davvero modesta, una possente muscolatura consente a Moreno di farsi valere in campo, dove gioca mezzala. I gol fioccano, ma per il debutto con la maglia del neonato Athletic Club Bilbao bisogna attendere il 1911: Pichichi ha appena diciott'anni, ma non esita ad infilare il portiere avversario dopo un preciso dribbling. L'Athletic batte 2-1 l'Academia de Artilleria, ma l'avvenimento del giorno è un altro, il primo gol di Rafael Moreno Aranzadi con la maglia biancorossa: ne seguiranno altri 199. Uno dei quali verrà segnato il 21 agosto 1913, giorno dell'inaugurazione del San Mamés. Dinanzi al re Alfonso XIII, Pichichi segna il gol del provvisorio 1-0 contro il Racing Irún. Dell'1-1 finale importa a pochi: lo stadio dell'Athletic, progettato dall'architetto Manuel María Smith, è finalmente pronto.
La «Catedral», secondo stadio più antico di Spagna dopo il Molinón di Gijon, fu teatro delle molte imprese di Moreno e del suo spumeggiante Athletic: l'audace gioco offensivo attuato dai «Leones», frutto della sapiente guida dei tecnici inglesi alternatisi sulla panchina agli inizi del secolo scorso (Sheperd, Barness e Burton i primi), consentì ai vizcaini di mettere in bacheca tre Coppe di Spagna ed altrettante Coppe di Biscaglia consecutive tra il 1914 ed il 1916. Non solo gol al San Mamés, per il Pichichi: la leggenda narra che conquistò sua moglie, Avelina Rodriguez, proprio nell'intervallo di una partita. Aurelio Arteta, pittore bilbaino, commemorò l'evento con un quadro: «Idilio en los campos de sport», nel quale Pichichi appare senza il tradizionale copricapo bianco che era solito indossare nel corso delle partite.
Dopo l'ultimo successo, la Coppa di Spagna vinta nel 1921 al San Mamés (4-1 in finale all'Atletico Madrid), Rafael Moreno Aranzadi detto Pichichi decise di appendere le scarpe al chiodo. Morì un anno dopo: a stroncarlo, un violento attacco di tifo causato da un piatto di cozze avariate. Per celebrarne la grandezza, l'Athletic eresse un busto in suo onore, inaugurato l'8 dicembre 1926. Ancora oggi, il capitano della squadra che va ad affrontare i «Leones» a casa propria è solito omaggiare Pichichi con un mazzo di fiori.

Antonio Giusto (ha collaborato Edoardo Molinelli)

Fonte: Goal.com

domenica 28 marzo 2010

Promossi&Bocciati di Juventus-Atalanta: Amoruso e Del Piero migliorano col passare del tempo, ma che brutta partita!



La partita: Novanta. I minuti di una partita di calcio, ma anche il numero della paura nella Smorfia. Ecco, la paura: handicap di una gara che avrebbe certamente potuto e dovuto regalare di più. Invece le squadre paiono di pietra, terrorizzate al solo pensiero di commettere un errore - che poi, puntualmente, arriverà - decisivo ai fini di un risultato troppo importante per essere negativo. Ne viene fuori una partita piatta, spezzata solo dai gol - episodi, non certo azioni ponderate - e dalla civile (ma fino a un certo punto: rivolgersi a Zebina per ulteriori informazioni) contestazione della tifoseria juventina, esacerbata dalla dirigenza. Voto 5

Melo: Stagione durissima per il centrocampista brasiliano. Meno male che c'è l'Atalanta: dei cinque gol segnati in Italia, tre sono arrivati contro la formazione bergamasca. Quello di oggi, un colpo di testa pieno di rabbia e voglia di riscatto, regala tre punti fondamentali alla Juventus. Le scuse alla tifoseria, forse ruffiane forse sincere, contornano una prestazione di tutto rispetto, favorita anche dalla brillante intuizione di Zaccheroni: Melo mezzala, come ai bei vecchi tempi dell'Almeria, non lo si vedeva da tempo immemore. Voto 7

Valdes: Drogato di dribbling, rischia l'overdose. Mette in mostra un repertorio sconfinato, mai fine a se stesso. La giocata non è mai finalizzata alla derisione dell'avversario, ma sempre volta a creare la superiorità numerica in attacco. Per sua sfortuna, i compagni di squadra non vivono una giornata di grande vena, e così le sue prodezze finiscono per non incidere granché sull'esito dell'incontro. Bravo comunque. Voto 7

Del Piero: Capitano sempre, in campo e fuori. In mattinata affronta gli ultras, al pomeriggio infila le scarpe chiodate e insegna calcio. Il calcio di punizione che sblocca il risultato è magistrale, e poco senso ha tirare in causa Consigli: l'estremo difensore atalantino è in ritardo, certo, ma il pallone sarebbe comunque finito in rete. Vistosi riagguantare dall'ex compagno di squadra Amoruso, Pinturicchio s'inventa anche l'assist per il decisivo gol di Felipe Melo. Inossidabile. Voto 6.5

Amoruso: Ad agosto saranno 36, ma forse lui neppure lo sa. Il primo centro con l'Atalanta - bella prova di freddezza, anche se la difesa della Juve... - gli consente di migliorare un record, quello del maggior numero di maglie con cui si è segnato almeno un gol in Serie A: siamo a quota 12. StraordiNick. Voto 6.5

Zaccheroni: Tiene Melo in panchina, e ce lo lascia anche dopo l'infortunio di Diego. Giovinco in campo, fantasista undersized, rompe le scatole a Garics, negandogli le tanto amate - e pericolose - incursioni offensive. La perla di giornata, però, è l'inserimento di Felipe Melo al posto di uno spento Candreva: accade a mezz'ora dal fischio finale di Gervasoni (direzione tutto sommato sufficiente. Voto 6) ed è decisivo ai fini del risultato. Impiegato come mezzo sinistro in un centrocampo a tre, come con Emery all'Almeria, Melo ritrova il gusto dell'inserimento offensivo, puntualmente concretizzato in gol. Voto 6.5

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

martedì 23 marzo 2010

L'Amarelinha



Dici Brasile e, se ami il calcio, il pensiero finisce inevitabilmente con l'andare a Ronaldo, Romario, Pelé, Garrincha... Comune denominatore? Un talento fuori dal comune, certo, ma anche l'auriverde che li ha vestiti sul tetto del mondo. E pensare che, se non ci fosse stato il Maracanaço, al giorno d'oggi la Seleção vestirebbe ancora il bianco integrale del secondo dopoguerra. I gol di Schiaffino e Ghiggia, rendendo vano l'effimero vantaggio brasiliano di Friaça, misero in ginocchio una nazione intera. E così il Correio da Manhã, quotidiano con sede a Rio de Janeiro, decise di porre l'attenzione sui colori della maglia, tacciati di essere poco patriottici, ed indisse un concorso volto a scegliere le nuove tinte della «camiseta». A vincere fu un diciannovenne di Pelotas, stato di Rio Grande do Sul: Aldyr Garcia Schlee, ironicamente qualificatosi come tifoso uruguagio. Oggi scrittore, giornalista e docente universitario, all'epoca Schlee si dilettava nel disegnare per i vari giornali cittadini: buon per lui, dato che la vittoria nel concorso indetto dal Correio da Manhã gli fruttò l'equivalente di ventimila reais (la moneta al tempo in uso in Brasile era il Cruzeiro), oltre ottomila euro con il cambio attuale.
Dopo l'elogio del disegnatore cruzeirense (il suo cuore batte per la «Raposa», squadra vicecampione del Sudamerica), è ora di concentrarsi sulla «camisa canarinha», nome con cui è conosciuta la divisa ideata dal professor Schlee. Nazionalista, innanzitutto: maglietta gialla (dorata, a voler essere poetici) con colletto verde, calzoncini blu e calzettoni bianchi. La bandiera fatta vestiario, con l'unica - passabile - assenza del motto Ordem e Progresso («Ordine e Progresso») che fa bella mostra di sé sul vessillo del Paese del Carnevale. L'esordio, proprio come se si trattasse di un calciatore in carne ed ossa, avviene in Brasile-Cile 1-0 disputato il 14 marzo 1954 a Rio de Janeiro, valevole per le qualificazioni alla - sfortunata, ahiloro - Coppa del Mondo che si sarebbe tenuta in Svizzera pochi mesi dopo.
La leggenda narra che proprio Garrincha e Pelé, citati in apertura, furono protagonisti della nascita della seconda maglia. Il fatto avvenne in Svezia, nell'atto finale del mondiale 1958: Brasile e Svezia sono entrambi soliti indossare un'uniforme gialloblu, ragion per cui i sudamericani, da buoni ospiti, lasciano ai padroni di casa svedesi il privilegio di indossare i propri colori. Per rimediare, Pelé ed i suoi compagni scendono in campo indossando maglia e calzettoni blu coordinati con calzoncini bianchi. Curiosa la provenienza degli indumenti in quanto il Brasile, essendo giunto in Svezia munito unicamente del proprio kit casalingo, fu costretto ad acquistarli sul posto ed a cucire manualmente lo stemma della Confederação Brasileira de Futebol su di essi. I tempi dei calciatori con ago e filo (non furono ovviamente loro ad occuparsi delle divise, ma ci fa piacere immaginarli a cucire, chini sulle loro «creazioni») sono ormai lontani: oggi la Nike realizza le vendutissime maglie auriverdi con poliestere riciclato, ma la magia dell'«amarelinha» è rimasta intatta.

Antonio Giusto


Fonte: Goal.com

lunedì 22 marzo 2010

domenica 21 marzo 2010

Promossi&Bocciati di Milan-Napoli: Ronaldinho fa il fenomeno, Oddo tutto l'opposto!



Ronaldinho: Tanti auguri, fenomeno! Ronaldinho festeggia i suoi primi trent'anni, ed in regalo c'è un Grava (Voto 5,5) da far ammattire. Inarrestabile sull'amatissima fascia mancina, il dentone inventa dribbling in serie, prima di estrarre dal cilindro l'assist per il decisivo pareggio di Pippo Inzaghi. Nel finale, complice un giustificato nervosismo per il mancato sorpasso sull'Inter, scalcia Rinaudo per ottenere un inutile giallo. Voto 7

Mazzarri: S'inventa Campagnaro esterno sinistro, ed i fatti gli danno ragione: l'argentino è il migliore in campo. Ma c'è dell'altro: il suo Napoli è una creatura camaleontica, capace di proporre svariati moduli nel corso di una partita. Il Milan ne fa le spese, finendo col perdere due, preziosissimi punti che gli avrebbero garantito il primo posto solitario. Complimenti al mister. Voto 6,5

Inzaghi: Leonardo gli concede minuti preziosi, e SuperPippo premia la fiducia dell'allenatore con un gol decisivo, alla sua maniera insomma. Oltre all'inzuccata dell'1-1, anche tanti spunti individuali. Ah, già, per chi non lo sapesse Inzaghi è prossimo ai 37 anni. Immarcescibile. Voto 7

Bergonzi: Partita non difficilissima da arbitrare, il direttore di gara è comunque capace nel tenerla in pugno nei due, tre momenti in cui il nervosismo avrebbe potuto farla infuocare. Sufficiente. Voto 6

Nesta: Non era in campo, e si è visto. Senza di lui l'intera retroguardia rossonera perde sicurezza, finendo col subire un gol da polli. Che sia un giocatore la cui assenza pesa si sapeva già, ma se i suoi infortuni costringono il Milan a perdere punti preziosi in ottica scudetto è bene sottolinearlo. Voto 8

Campagnaro: Nato attaccante, evolutosi in difensore centrale, oggi Mazzarri gli affida la fascia sinistra del centrocampo. Corre su e giù, segnando pure il gol del provvisorio vantaggio partenopeo con un inserimento degno di Hamsik. Bene anche in fase difensiva: esemplare l'intervento in tackle scivolato su Thiago Silva che nega un prelibato contropiede al Milan. Voto 7

Oddo: Male, anzi, malissimo. Emblema della pessima difesa rossonera, è lui che, scontrandosi con Abbiati (ottima prestazione per il portiere, voto 7), propizia il gol di Campagnaro, che a porta vuota può solo gonfiare la rete. Esce mestamente, sostituito da Antonini. Voto 5

Cannavaro: Leader indiscusso del reparto difensivo napoletano, disputa una partita tutta cuore e sostanza. Decisivo in più d'una occasione, compreso il gol del Milan: lui e Rinaudo fanno confusione con le marcature, finendo per lasciare Inzaghi libero di colpire di testa in area di rigore. Voto 6,5

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

mercoledì 17 marzo 2010

lunedì 15 marzo 2010

Carletto Parola e quella rovesciata immortale

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Ciclista, in campo e fuori. Carlo Parola non rinunciò mai alla sua grande passione, la bicicletta, e poco cambia che fosse composta da ruote e pedali o venisse eseguita in volo con un pallone di cuoio. Alla prima, quella in metallo, si affezionò grazie a suo padre: prima di una morte beffarda, quasi cercata pur di evitare il servizio militare e con esso la guerra, Parola senior trovò il modo di costruire una bici per il figlioletto, che sulle due ruote ci sapeva fare, soprattutto in salita. Apice della sua breve carriera da ciclista, il secondo posto ottenuto in una Torino-Bardonecchia. Ma la più bella bicicletta della sua vita Carlo Parola, anziché pedalarla, la mise in pratica. Su un campo da calcio, s'intende.
15 gennaio del 1950, Fiorentina-Juventus termina 0-0 a causa di un errore dagli undici metri di Cervato, formidabile terzino sinistro dell'epoca, solitamente infallibile dal dischetto. Quella partita non passerà però alla storia per lo strafalcione rigoristico di Cervato (un piccolo evento anche quello, per carità), poiché quando al fischio finale dell'arbitro Bernardi mancano solo dieci minuti, il nostro Carletto Parola intercetta in rovesciata un preciso lancio di Magli per il centravanti Egisto Pandolfini (curiosamente, i tre protagonisti dell'azione si ritroveranno a comporre, pochi mesi dopo, la rosa della deludente Nazionale di Brasile '50). Fortuna vuole che un fotografo, Corrado Bianchi, colga il gesto atletico con uno scatto destinato a rimanere nella storia del calcio italiano e non solo: l'immagine è stata infatti pubblicata in oltre 200 milioni di copie, con didascalie in greco, giapponese, cirillico ed arabo. Insomma, un fenomeno mondiale! Gran parte del merito va alla Panini: la casa editrice modenese ha fatto di questa rovesciata il proprio emblema, rendendola celeberrima anche oltre confine.
E pensare che il piccolo Carlo tutta questa fama neppure la bramava. Dopo le prime, dolorose cadute in bici, si era innamorato del pallone: gli inizi a Cuneo, poi il ritorno a Torino e la fondazione della Brianza (squadretta di quartiere così chiamata dal nome della via adiacente al campo di gioco), quindi il Vanchiglia e la squadra del Dopolavoro FIAT. Un posto di lavoro al mattino ed uno in campo alla sera, diciotto lire al mese di paga che a Nuccio bastavano ed avanzavano per concedersi il quotidiano pacchetto di Gauloises. Poi arrivò la Juventus, e fece alla madre un'offerta che la donna non potè rifiutare: 750 lire al mese per realizzare il sogno di Carletto, indossare i colori bianconeri. Con la prestigiosa maglia della Juventus «Nuccio Gauloises», così lo soprannominò Giovanni Arpino, si evolve: non più centravanti implacabile, ma centromediano metodista, erede dell'oriundo Monti nel cuore della manovra juventina. Quando in panchina siede Felice Borel, strenuo sostenitore del Sistema, Parola soffre il cambiamento, salvo poi comprendere l'importanza del sapersi adattare al nuovo schema di gioco: accetta la nuova posizione, grazie a cui troverà modo di far parlare di sé anche a livello internazionale.
L'esordio in Nazionale arriva l'11 novembre '45 in un rocambolesco 4-4 con la Svizzera, mentre un anno e qualche giorno più tardi Parola dà sfoggio della propria classe nel 3-2 inflitto all'Austria. In quest'occasione si guadagna la chiamata per Gran Bretagna-Resto del Mondo del 10 maggio 1946, incontro amichevole organizzato dalla FIFA per celebrare l'adesione delle compagni britanniche alla federazione. L'incontro termina 1-6, ma nonostante il pesante passivo rimediato da una squadra che schierava tra gli altri veri e propri fenomeni quali gli svedesi Gren e Nordahl ed il funambolo olandese Wilkes, «Carletto l'europeo» (tale soprannome è dovuto proprio al match disputato a Glasgow) desta l'attenzione degli osservatori inglesi, da cui gli perviene più d'una richiesta. Tutte rifiutate, per amore della Juve. Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo ed essersi cimentato nell'area dirigenziale, Parola troverà il modo di regalare un ultimo successo alla Juventus: lo scudetto del 1975. A far da contraltrare al titolo italiano, la clamorosa rimonta subita dal Torino di Radice, Pulici e Graziani l'anno seguente, che gli costerà il posto in panchina in favore di un giovanissimo Trapattoni. Nuccio motivò il tutto in maniera - a dire il vero - un po' immodesta: «Sono stato un giocatore troppo grande per essere anche un allenatore troppo grande».
Nonostante la morte l'abbia colto a Torino nel marzo 2000, Carletto Parola si è assicurato l'immortalità - perlomeno calcistica, che per noi appassionati è tanta roba - con quella rovesciata leggendaria.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

domenica 14 marzo 2010

Promossi&Bocciati di Juventus-Siena: Del Piero fa 300, Big Mac è un fenomeno!



La «testa» del Siena: Sotto di tre gol dopo dieci minuti, i ragazzi di Malesani non si scompongono, cambiano assetto tattico ma non modo d'intendere il calcio: si gioca per vincere, non certo per limitare un passivo che sarebbe potuto diventare tennistico. Seguendo il copione ricevuto in settimana, i giocatori della Robur riagguantano la Juventus a 15' dal termine nello stupore generale. Complimenti al Siena, squadra con gli attributi. Voto 9

Del Piero: 300 gol in carriera. Anzi, 301. Il capitano bianconero sarà l'unico componente della rosa a poter sorridere nel dopogara, ma sono assolutamente certo non lo farà: un signore come lui, che ha sempre anteposto il bene della squadra alla gloria personale, non smarrirà certo la retta via alla soglia dei 36 anni. Voto 7

Malesani: Il carattere di questo Siena è diretta conseguenza delle cure del tecnico veronese: solo un sanguigno come lui poteva infondere una tale fame i successo alla squadra, senza dimenticare un occhio di riguardo per il bel gioco. I fatti gli stanno dando ragione, ma la salvezza è ancora lontana, ma non per questo irragiungibile. Voto 7,5

La partita: Tre gol, spendidi, in dieci minuti. La festa di Del Piero, la frustrazione di Ekdal, le traiettorie di Candreva, la vena di Maccarone e la freddezza di Ghezzal. 3-1, 3-2, 3-3. Olé! Voto 8

Salihamidzic: «Brazzo» («fratello», in bosniaco) sostituisce Legrottaglie e manda in pappa i flebili meccanismi juventini: con lui a destra, Maccarone può festeggiare. Non contento dei due gol subiti, giunti entrambi dalla sua zona di competenza, si fa anche ammonire. Un disastro. Voto 4,5

Maccarone: Un goal, un palo ed un rigore procurato. Giornata di grazie per un «Big Mac» fenomenale. In settimana Odibe ha detto che la salvezza passerà per i suoi piedi: a quanto pare, il giovane (classe 1988) nigeriano ha doti di veggente. Voto 7,5

Russo (arbitro): La tanto bistrattata classe arbitrale trova nel gigante (194 cm) avellinese un valido baluardo. Non sbaglia nulla, coadiuvato alla perfezione dagli assistenti di linea. Il rigore su Maccarone è netto, mentre sul 2-0 Del Piero è nettamente in gioco. Voto 7

Candreva: Preferito allo statico Diego, il trequartista romano risponde presente alla chiamata di Zaccheroni. In campo dà tutto, trovando la seconda marcatura in Serie A (entrambe con la Juventus) e rivelandosi decisivo in occasione della prima rete di Del Piero. Cala col passare dei minuti, ma a differenza della stragrande maggioranza dei compagni, riesce a risultare decisivo. Voto 6,5

Ghezzal: Doppietta, la prima stagionale, che pesa come un macigno sui destini di entrambe le squadre. Il primo gol è da opportunista vero, mentre in occasione del rigore palesa una rara freddezza. Sarà bene per lui continuare così, se ambisce a giocare in Serie A anche nella prossima stagione. Voto 7

Zaccheroni: Davanti alle telecamere la sua disamina è, come di consueto, perfetta. Spiega dove, come, quando e perché i suoi hanno sbagliato. Eppure la sua squadra sembra totalmente allo sbando nella ripresa: i cambi (Camoranesi? uno zombie, e un'occasione a Iaquinta la si poteva anche concedere) sono colpa sua, ed un po' di polso in più non sarebbe stato certo accolto male dalla critica. Voto 4,5

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

Juventus-Siena 3-3: Zac! La frittata è fatta, che pasticcio Signora...



Alla Juventus non bastano 10' di fuoco per aver ragione di un Siena mai domo, grazie alla sapiente mano del tecnico Malesani. Dilapidare un vantaggio di tre gol non è cosa da tutti i giorni, ma la Juve può comunque cercarne i - pochi, a dire il vero - lati positivi: si tratta pur sempre di un punto guadagnato sul Palermo, ko a Udine. Non va poi dimenticato il capitano, Alex Del Piero: per lui, oggi, gol numero 300 e 301 in carriera. Un fenomeno.

In campo - Complici gl'infortuni di Buffon e Manninger, Zaccheroni si vede costretto a schierare Chimenti (ultima partita il 27/2/08, con la maglia dell'Udinese) tra i pali. Cannavaro-Legrottaglie coppia centrale: Chiellini è fuori, problemi muscolari. Squalificato lo straripante Zebina visto in Europa, al suo posto Grygera, sul lato opposto gioca De Ceglie, preferito al match-winner della partita con la Fiorentina Fabio Grosso. Centrocampo titolare, con Candreva che rimpiazza lo statico Diego alle spalle della storica coppia composta da Del Piero e Trezeguet. Il Siena risponde con un 4-1-4-1 pronto a trasformarsi in 4-3-3: Ghezzal e Reginaldo sono attaccanti mascherati da esterni di centrocampo. Ekdal regista arretrato, centrali difensivi Cribari e Pratali. Maccarone prima punta.

Si gioca - I primi istanti di gioco testimoniano un Siena caparbio, convinto nei propri mezzi: nessun timore reverenziale, gioco improntato all'attacco e fame di preziosissimi punti-salvezza. Del Piero, però, è di parere contrario: il capitano bianconero segna due gol, rispettivamente il 300mo ed il 301mo in carrierra, puntualmente celebrati dal fan club familiare presente sugli spalti. Neppure il tempo che il cronometro del match raggiunga la doppia cifra alla voce minuti, ed ecco che Candreva fa 3-0 con un pregevole destro dalla lunga distanza su cui Curci non può nulla. Aprire una parentesi sulla prima frazione di gioco disputata dall'ex livornese è doveroso: preferito a Diego in virtù della maggiore mobilità, Candreva agisce tra le linee pressoché libero da marcatura per via delle modeste capacità difensive di Ekdal, giocatore più votato alla regia che non all'interdizione. Giustamente celebrato il roboante avvio juventino, l'attenzione va posta sul Siena: mai arrendevoli, gli uomini di Malesani riaprono la partita con un gran destro di Maccarone, bravo a sfruttare una disattenzione del centrocampo bianconero. Al 15', 3-1 per i padroni di casa, che lasceranno l'iniziativa agli avversari sino al termine della prima frazione. Rilassamento eccessivo da parte dei bianconeri, va detto: l'immediato vantaggio non può assolutamente essere considerato un'ipoteca sui tre punti, a maggior ragione se l'avversario è l'indiavolato Siena di Malesani, che a dimostrazione di una pregevole irriverenza butta dentro anche il giovane Larrondo, prima punta che trasforma il modulo in un 4-2-1-3 tanto simile a quello del Milan spumeggiante di Leonardo.

La ripresa inizia come s'era chiuso il primo tempo: Siena proteso in avanti alla ricerca del gol della speranza e Juventus schiacciata nella propria metà campo. Tempo 30" e la supremazia territoriale viene concretizzata, con Ghezzal che sfrutta un maldestro posizionamento della difesa juventina per segnare il 3-2 in tap-in dopo il palo colpito da Maccarone, splendida ala sinistra nella ripresa. La Juventus prende paura e si riversa in avanti, ma un colpo di testa di Del Piero respinto da Curci testimonia la pochezza dei bianconeri, crollati a picco nella ripresa. Il pallino del gioco torna quindi tra le mani del Siena, che attacca con ordine, in special modo a sinistra: Salihamidzic (subentrato al 53' a Legrottaglie, fuori per un problema fisico) è l'anello debole di una difesa già di per sé non irresistibile, e Maccarone gli va via che è un piacere. E proprio da un'iniziativa personale di «Big Mac» nasce il gol dello strameritato pareggio: dribbling secco su Grygera (che nel frattempo aveva stretto, andando a fare il centrale in luogo dell'infortunato Legrottaglie), che lo stende senza pensarci su più di tanto. Rigore ineccepibile, gran chiamata di Russo: l'arbitro è impeccabile, proprio come la trasformazione del penalty da parte di Ghezzal, che va a togliere le ragnatele dall'angolino alto alla sinistra di Chimenti. 3-3, palla al centro. Nel finale Zaccheroni butta nella mischia anche Diego, al posto di un esausto Del Piero, ma il brasiliano non riesce ad estrarre dal cilindro la giocata risolutiva per la gioia di Malesani e dei suoi ragazzi terribili: l'ultimo posto sembra un beffardo scherzo del destino, eppure siamo di fronte alla realtà, nuda e cruda come di consueto. E se Tziolis avesse calciato qualche centimetro più a sinistra...

La chicca - In una giornata storta per la Juventus, capitan Del Piero è uno dei pochi a salvare la faccia. Anzi, per lui ci sarebbe anche di che gioire: il gol del provvisorio 1-0 è per lui il numero trecento (300, mica bruscolini!) di una carriera costellata di successi. Neppure cinque minuti, ed il raddoppio lo porta a superare la cifra tonda: poco male.

La chiave - Malesani, oltre che un fenomenale motivatore, è anche un tecnico capace: allargare Maccarone sulla sinistra è una mossa sapiente, che ripaga il tecnico del Siena. «Big Mac» trova terreno fertile a sinistra, ed è infatti da lì che nascono entrambe le marcature della ripresa. Avanti così, e sarà salvezza.

Top&Flop - Il già celebrato Del Piero non tradisce mai, a differenza di Salihamidzic: «Brazzo» non riesce a prendere le misure agli avversari, quasi quasi sarebbe stato meglio tenere in campo l'infortunato Legrottaglie. Cambiando bianconero: Maccarone MVP, Ghezzal sugli scudi, Curci più che sufficiente nonostante i tre gol subiti. Menzione per Candreva, moto perpetuo fino al 45', poi in calo come il resto della squadra. Tragicomico Grygera, propositivo Sissoko, nullo Trezeguet.

Antonio Giusto

IL TABELLINO

JUVENTUS-SIENA 3-3

MARCATORI: 2' Del Piero (J), 7' Del Piero (J), 10' Candreva (J), 15' Maccarone (S), 46' Ghezzal (S), 74' Ghezzal rig. (S)

JUVENTUS (4-3-1-2): Chimenti 5,5; Grygera 5, Legrottaglie 6 (53' Salihamidzic 4,5), Cannavaro 6, De Ceglie 5,5; Marchisio 5,5 (46' Camoranesi 5), Melo 5,5, Sissoko 6; Candreva 6,5; Trezeguet 5, Del Piero 7 (76' Diego 5,5). All.Zaccheroni 4,5

SIENA (4-1-4-1): Curci 6,5; Rosi 6,5, Cribari 5,5, Pratali 5,5 (45' Odibe 6), Del Grosso 6; Ekdal 5 (16' Larrondo 6); Reginaldo 6,5, Vergassola 6,5, Tziolis 6,5, Ghezzal 7; Maccarone 7,5 (86' Codrea s.v.). All.Malesani 7,5

ARBITRO: Russo 7

AMMONITI: Pratali (S), Salihamidzic (J), Sissoko (J), Reginaldo (S), Tziolis (S)

ESPULSI: nessuno

Fonte: Goal.com

martedì 9 marzo 2010

L'arbitro venduto che domò i Leoni Indomabili

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C'era una volta, in Italia nel 1990, una squadra composta da indomabili «Leoni»: era il Camerun di Milla e N'Kono, di Kundé e dell'allenatore russo Nepomniacij. Si sarebbe trattato di una favola a lieto fine, non fosse stato per un ginecologo corrotto: Edgardo Codesal, arbitro di Camerun-Inghilterra e, qualche giorno dopo, della finale, al cui termine il cittì argentino Bilardo, risentito per il pessimo trattamento subito dai suoi in occasione del match conclusivo, gli aveva consigliato di «mettere le mani dove sa», con un esplicito riferimento alla sua professione. Accuse fondate, a dire il vero: al termine della competizione iridata la federazione messicana radiò Codesal con l'accusa di corruzione. L'arbitro «a pagamento» ricomparve poi sulla scena calcistica in occasione dei mondiali nippocoreani del 2002, quando fu posto a capo della commissione arbitrale.
Dopo questa stomachevole parentesi relativa agli arbitraggi, volta soprattutto a giustificare l'immeritata eliminazione patita dai camerunensi nei quarti di finale, è giunto il momento di tornare alla gara inaugurale, curiosamente disputata da entrambe le squadre che nel corso del torneo subiranno le angherie dell'«arbitro» - consentitemi il virgolettato - messicano. Dopo la cerimonia d'apertura, una simil sfilata volta ad esaltare le abilità degli stilisti italiani, ecco scendere in campo i campioni in carica dell'Argentina, guidati da Maradona, ed i modesti (o almeno così pensa la maggioranza degli spettatori) camerunensi. Per sovvertire il pronostico basta poco, grazie soprattutto all'atteggiamento insolitamente attendista della «Selección»: ermetico 4-4-1-1, con il solo Balbo davanti in attesa dell'invenzione di Maradona, che non arriverà mai. Ad arrivare, semmai, è il gol François Omam-Biyik, 24enne attaccante dotato di stacco imperioso e di una buona dose di fortuna: l'intervento dello sfortunato (si fratturerà tibia e perone contro l'URSS in uno scontro con il compagno di squadra Serrizuela, e più avanti in carriera perderà anche un dito in allenamento) portiere argentino Nery Pumpido non è certo di quelli che si mostrano ai bambini nelle scuole calcio.
Nonostante le espulsioni di Kana-Biyik e Massing - per la gioia dell'allora presidente della FIFA João Havelange, che alla vigilia del torneo si era augurato un'abbondanza di cartellini rossi, alquanto insolita per un'epoca in cui il gioco rude era ben tollerato - i «Leoni Indomabili» riescono a portare a casa due punti, preziosissimi in ottica qualificazione. Passaggio del turno che viene messo in cassaforte nella partita successiva, contro la Romania: a decidere è Roger Milla, autore di una doppietta, festeggiata con la consueta Makossa, la danza celebrativa eseguita nei pressi della bandierina del calcio d'angolo. Entrato in campo a 10' dal termine, «nonno» Milla ha 38 anni e viene da una stagione di competo relax trascorsa nel Saint-Pierroise, squadra di Réunion. Ai più sembra un ex calciatore con buoni trascorsi in Francia (111 reti complessive), lui però trova il modo di smentirli, trascinando i suoi agli ottavi di finale nonostante un pesante 4-0 subito dall'Unione Sovietica nell'incontro conclusivo di girone, risultato comunque inutile ai fini della qualificazione, già ipotecata.
Ottavi di finale, quindi: al Camerun tocca la Colombia di Valderrama ed Higuita, con il funambolico portiere protagonista in negativo dell'incontro. Dopo l'1-0 siglato al 104', Milla si ripete due minuti dopo con la complicità dell'amico di Maradona, autore di un avventato dribbling sulla trequarti campo. Inutile il gol di Redin, buono solo per rendere più amara una sconfitta frutto della pazzia del portiere: la mossa dello scorpione, in confronto al dribbling sbagliato su Milla, è roba da persone sane di mente. Per festeggiare lo storico passaggio del turno - mai un'africana s'era spinta così avanti nella competizione - il commissario tecnico Nepomniacij decide di esaudire il desiderio della propria figlia: un paio di scarpe italiane, acquistate nella mattinata successiva all'eliminazione dei colombiani.
E siamo ai quarti, in cui Milla sfodera l'ennesima prestazione straordinaria, stavolta subentrando a Maboang all'inizio del secondo tempo. Ad un quarto d'ora dal proprio ingresso in area induce Gascoigne a stenderlo in area, consentendo al capitano Kundé di realizzare il gol del pareggio (vantaggio inglese di Platt al 25'); quattro minuti, ed il neoentrato Ekéké si trova a scartare un gustosissimo cioccolatino, recapitogli ovviamente da Milla. Ma Codesal - eccolo che riappare - è in agguato: omaggia gli inglesi con due rigori, entrambi trasformati da Gary Lineker. Il Camerun è fuori: il sogno iridato s'è infranto su un fischietto prezzolato.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

lunedì 1 marzo 2010

Il leggendario Nottingham Forest di Brian Clough


Può una squadra aver vinto più Coppe dei Campioni che titoli nazionali? Sì, può. Si chiama Nottingham Forest, è la squadra della contea di Robin Hood e deve molto, se non tutto, ad un allenatore tanto burbero quanto leggendario: Brian Clough.
Tutto ebbe inizio nel gennaio 1975, quando Clough, reduce da una traumatica esperienza al Leeds United (44 giorni di agonia, sufficienti per inimicarsi tutto ciò che riguardasse i «Peacocks»), accettò la panchina del Nottingham - che al momento navigava nelle torbide acque della seconda divisione - subentrando ad Allan Brown. Un po' come il Derby County di qualche anno prima: preso per mano in Second Division e condotto alla promozione nel '69. Tempo tre anni, e Clough portò i «Rams» al titolo inglese, impresa che era fermamente deciso a ripetere alla guida dei rossi (il colore sociale è un omaggio a Garibaldi) di Nottingham. Senza tappe intermedie, però: il titolo arrivò immediatamente, Clough divenne il secondo allenatore nella storia del calcio inglese a trionfare in First Division da neopromosso - il primo era stato Alf Ramsey, alla guida dell'Ipswich Town campione nel 1962. Per realizzare quest'apparentemente impossibile impresa, «Cloughie» chiese ed ottenne Peter Shilton, acquistato dallo Stoke City per l'esorbitante cifra di 270.000 sterline: mai un portiere era stato pagato così tanto. E proprio sul «goalkeeper» si basa il successo del Forest: appena 24 gol subiti (20 in meno della stagione precedente) e titolo messo in bacheca con quattro turni d'anticipo, in barba al Liverpool campione d'Europa.
Lo «step» successivo riguarda proprio la Coppa dei Campioni, e manco a farlo apposta è il Liverpool il primo avversario sulla strada degli «arcieri»: 2-0 (Birtles e Barrett) al City Ground, 0-0 ad Anfield e la qualificazione è in tasca. AEK Atene (1-2, 1-5) e Grasshoppers (4-1, 1-1) sono formalità, mentre la semifinale con il Colonia entra di diritto nella storia del club: dopo un rocambolesco 3-3 casalingo, gli uomini di Clough passano al Müngersdorfer Stadion (sito nel quartiere Müngersdorf, da cui deriva il nome) con un gol di Bowyer e si assicurano la finale: ad attenderli a Monaco di Baviera il 30 maggio c'è il Malmö, altra sopresa della competizione guidata in finale dal tecnico inglese Houghton. Il match viene deciso da Trevor Francis, all'esordio in Coppa Campioni a causa di vicissitudini contrattuali, bomber acquistato dal Birmingham City per oltre un milione di sterline, cifra astronomica per l'epoca. È lui la star della squadra (che in campionato arriva seconda ad otto punti dal Liverpool campione), ma i giocatori di livello non mancano: oltre al già citato Shilton ci sono Viv Anderson (primo nazionale inglese di colore), l'ala John Robertson, Martin O'Neill (attuale allenatore dell'Aston Villa), Archie Gemmil e Kenny Burns, scozzesi come Robertson.
La stagione seguente è segnata in avvio dalla lungimirante decisione di Clough, che sceglie di puntare tutto sulla coppa: sa bene che la sua squadra non può reggere un altro campionato ai vertici, difatti la stagione si conclude con un amaro quinto posto, addolcito - a dir poco - però dal bis europeo. Dopo aver fatto fuori Arges Pitesti, Dinamo Berlino ed Ajax, l'avversario della finale è l'Amburgo di Keegan, il capitano della disastrosa Nazionale inglese di quel periodo. Decide un gol di Robertson al 21', il Nottingham Forest è sul tetto d'Europa per la seconda volta nella sua - incredibile: tre anni prima si erano classificati sedicesimi in Second Division - storia.
L'idillio, però, termina presto. A causa di alcune dolorose cessioni e degli sporadici deliri di onnipotenza di Clough (a farne le spese fu il suo storico assistente, Peter Taylor), il meraviglioso giocattolo costruito in quegli anni va in frantumi. L'ex attaccante di Middlesbrough e Sunderland resterà in panchina fino al '93, ma non ripeterà mai i fasti degli Anni 70.
Oggi il Nottingham Forest viaggia spedito nel Championship dopo essere scivolato addirittura in terza serie nel 2005 (prima squadra campione d'Europa ad ottenere di questo sgradito primato). Le stelle oggi sono McKenna, Blackstock ed Earnshaw, mentre in panchina siede lo scozzese Billy Davies (tecnico con un passato al Derby County, proprio come Clough), ma sarà quantomeno difficile - scontato eufemismo - che ripetano le gesta del leggendario Nottingham Forest di Brian Clough.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com