mercoledì 18 gennaio 2012

Il Grande Torino


"I campioni d'Italia. Bàcigàlupo V., Ball...", legge il mio nipotino Gianpaolo, come ipnotizzato dalla lapide che commemora il Grande Torino, perito a Superga il il 4 maggio del '49.
"Bàcigalùpo, Gianpolo. Si dice Bàcigalùpo."
Il piccolo sta imparando cos'è il Toro. Ed io, nonno dal cuore granata, sto cercando di spiegarglielo, sperando che non abbia preso da sua mamma: figlia unica, come la delusione che mi diede il giorno in cui mi confessò che ne aveva abbastanza del dannato pallone. Fortunatamente, a Gianpaolo il calcio - per ora - piace. È bello grosso per avere otto anni, gioca in difesa e dice d'ispirarsi ad Ogbonna, anche se il sinistro non lo usa neppure per scendere dal letto. Per evitare che segua le orme di sua mamma, che proprio a quell'età mi rivelò che si emozionava leggendo i libri, mica accompagnandomi allo stadio «per vedere ventidue signori che inseguono una palla con i calzoni corti anche a gennaio», ho deciso di portarlo su a Superga per una lezione di storia granata. Abituato com'è alla Serie B, ai valzer di panchine ed alle delusioni, ha il diritto - anzi, il dovere - di conoscere chi ha reso grande il Toro.
"Sta' tranquillo, comunque, il tuo è un errore comune. Anzi, è già tanto che ti sia limitato a sguinzagliare gli accenti: in molti, quel cognome neppure riuscivano a pronunciarlo. Uno su tutti? Vittorio Pozzo, o almeno così sosteneva Bacigalupo, che..."
"Nonno, nonno! Chi era questo Vittorio Pozzo? Un calciatore?"
"Giocò nel Grasshoppers, in Svizzera, ma corse dietro al pallone anche in Francia ed Inghilterra. La storia, però, l'ha fatta sedendo in panchina: è, e probabilmente resterà ancora a lungo, l'unico commissario tecnico capace di vincere due campionati del mondo, nel '34 e nel '38. Ma noi del Toro lo ricordiamo perché, oltre a dir la sua nel momento della fondazione della squadra, indossò la maglia granata per cinque stagioni. Una volta appesi gli scarpini, anche se sarebbe più corretto dire scarponi, al chiodo, fu direttore tecnico dei nostri per dieci anni, dal 1912 al 1922."
"Oh!", esclama sorpreso Gianpaolo. Di trasformare la sua sorpresa in tristezza non ho affatto voglia, quindi glisso sul fatto che l'ultima azione granata di Vittorio Pozzo fu il riconoscimento dei corpi dilaniati dopo lo schianto. Riprendo allora a parlare di Bacigalupo.
"Parlavamo del portierone, no? Che poi portierone non era, perché si era fermato a un metro e settantasei, ma l'agilità gli consentiva di far passare in secondo piano quest'aspetto. Dicevo, il buon 'Baci', ché di solito lo chiamavano così per far più presto, si era convinto che la sua più grande delusione calcistica fosse dovuta proprio alla complessità del suo cognome. L'11 maggio del '47 si gioca Italia-Ungheria, ed in campo scendono dieci calciatori del Torino ed uno - il portiere Lucidio Sentimenti - della Juventus: Baci sosteneva che Pozzo fosse entrato in campo poco prima del calcio d'inizio per richiamare Sentimenti IV (aveva altri quattro fratelli, tutti divenuti calciatori in A) e schierare lui in porta, ma dopo un paio di tentativi andati a vuoto di pronunciarne il cognome, aveva optato per la conferma di Sentimenti."
"Dieci giocatori del Toro! Accidenti, oggi c'è solo Ogbonna..."
Ogbonna, che pure ha un radioso futuro davanti, speriamo con la maglia granata ed in Serie A, è il suo idolo, l'ho già detto. Quindi, meglio evitare infelici confronti e proseguire nella narrazione.
"Sì, dieci. E nell'Ungheria, quel giorno, ce n'erano nove dell'Újpest di Budapest. Ma un 'estraneo', Puskás, che gioca nell'Honvéd e diventerà leggenda con l'Aranycsapat ed il Real Madrid..."
"Aranycosa?"
"Aranycsapat, la 'Squadra d'oro' ungherese. Magari questa storia te la racconto un'altra volta. Dicevo, Puskás pareggia su rigore al 76', segnando l'ottavo gol nelle sue prime sette partite con l'Ungheria, ma soprattutto incrocia Valentino Mazzola. Quasi vent'anni più tardi, sconfitto in finale di Coppa dei Campioni da una doppietta di Sandro, figlio di Valentino, gli farà dono della sua maglia, accompagnandola con le parole: 'Tienila, perché sei degno di tuo padre'".
"Sandro Mazzola, il signore della tivù?"
"Sì, Sandro Mazzola, il signore della tivù che ha giocato 565 partite e segnato 160 gol con l'Inter, e vinto quattro scudetti, due Coppe dei Campioni ed altrettante Coppe Intercontinentali indossando sempre e solo la maglia nerazzurra. Suo padre ne sarebbe stato orgoglioso."
"Ma suo papà era più forte, vero?"
"Gianpaolo, noi siamo del Toro. Per noi Valentino Mazzola è stato il Capitano, con la 'c' maiuscola, per noi Valentino Mazzola è stato più grande di Pelé e Maradona, di Cruijff e Di Stefano."
"Stefano?"
"Alfredo Di Stefano, un fuoriclasse argentino. Duettava con Puskás nel Real Madrid che negli anni cinquanta vinse cinque Coppe dei Campioni di fila. Dicono sia stato il primo centrocampista universale, ma tu non dargli retta: è una bugia, il primo fu il grande Valentino."
Gianpaolo annuisce, con sguardo serio: non ha mai visto un singolo fotogramma di quest'uomo di cui gli parlo, eppure ne ha intuito l'indiscussa grandezza. Proseguo: "Sai, avevo la tua età quando Mazzola fu acquistato dal Torino. Eravamo nel '41-42, in quella stagione arrivammo secondi sia in campionato che in Coppa Italia per colpa del Venezia. In quella squadra giocava, oltre a Valentino, Ezio Loik: mezzala di Fiume, diede un sensibile contributo alla maiuscolizzazione dell'aggettivo 'grande' che accompagnerà per sempre il loro Torino. Questi due, giocatori da sogno, erano però destinati alla Juventus, pensa un po'. Succede però che, nel maggio 1942, il Toro va al 'Penzo' di Venezia e si porta in vantaggio con Petron, poi i padroni di casa ribaltano il risultato, ispirati dal favoloso duo di mezzali: Ferruccio Novo, il nostro presidente, ricco grazie al cuoio e con un passato da mediocre difensore nelle giovanili granata, fa irruzione negli spogliatoi e stacca un assegno da 1 milione e 200 mila lire. Più Petron e Mezzadri: Mazzola e Loik, strappati ai cuginastri, vestiranno granata. Ecco anche Grezar, dalla Triestina, ma l'avvio è balbettante, con due sconfitte, a Milano con l'Inter ed in casa col Livorno. Alla terza giornata, però, ecco il derby: vinciamo 5-2, Loik e Mazzola firmano rispettivamente il quarto ed il quinto gol. È la svolta. Trionferemo in campionato, superando il Livorno di un punto, ed in Coppa Italia, con un perentorio 4-0 sul Venezia orfano dei suoi gioielli. Siamo i primi a fare doppietta, e - ti giuro - ci fosse stata anche la Coppa Campioni non si sarebbe dovuto aspettare il 2010 per vedere un'italiana trionfare su tre fronti nella stessa stagione."
"Etciù!", m'interrompe Gianpaolo con un poderoso starnuto. Io sorrido, e cerco di dribblare la guerra, perché lui, che ha la fortuna di non viverla in prima persona com'è capitato a me, non deve angosciarsi per colpa dei miei racconti. Quindi, largo al Toro: "Nel '45, finita la seconda guerra mondiale, il calcio si propone come antidoto per la depressione. Un popolo intero, messo in ginocchio, cerca di rialzarsi aggrappandosi alle imprese del Torino, che trionfa nell'arzigogolata Divisione Nazionale grazie anche a tre nuovi innesti: Bacigalupo, di cui hai da poco appreso la pronuncia, il terzino Ballarin e Castigliano, che pur essendo un mediano segna 13 gol in 14 partite nel girone finale che assegna lo scudetto."
"Come..." fa Gianpaolo, ed io lo interrompo prontamente: "Come nessun giocatore che tu abbia mai visto in campo all'Olimpico". Ed incomincio a raccontargli del '46-47: "Anche stavolta, partiamo maluccio, con cinque punti in cinque partite. Poi, sul finire d'ottobre, ci svegliamo a Roma: vinciamo 3-1 contro i giallorossi, e poi infiliamo nove successi ed un pareggio nelle successive dieci partite. Dieci, come i punti di distacco rifilati alla Juve." E guardo gli angoli della bocca del mio nipotino abbassarsi inesorabilmente. So cosa pensa: lui, che per questioni anagrafiche non è riuscito a godersi neppure la stagione in cui in A c'eravamo noi e la Juve soffriva tra Rimini e Frosinone, 10 punti di vantaggio sui bianconeri non li ha mai avuti.
Per risollveargli il morale, snocciolo un po' di cifre, le uniche che conosco a memoria oltre al mio numero di telefono: "65 punti, 125 gol fatti, 39 punti su 40 al Filadelfia, frutto di 19 vittorie in 20 partite, tra cui un memorabile 10-0 rifilato all'Alessandria. Questa è la storia del quarto scudetto, vinto con cinque giornate d'anticipo: devo aggiungere altro?" Gianpaolo fa segno di no con la testa.
"Il campionato successivo, quello del 1948-49, è l'ultimo del Grande Torino. Che si congeda dalla Serie A pareggiando 0-0 sul campo dell'Inter, dove c'ero anch'io per la mia prima trasferta. Quell'Inter, diretta concorrente per il titolo, era staccata di quattro punti: se fossero usciti imbattuti da San Siro, il presidente Novo avrebbe concesso ai nostri una trasferta a Lisbona, per giocare contro il Benfica di Xico Ferreira, amico di Mazzola. Non torneranno mai più." Una lacrima riga il volto di mio nipote.



IL GRANDE TORINO: UN SISTEMA INFALLIBILE
Il Grande Torino giocava benissimo, questo è assodato. Ma come giocava? Numericamente, si potrebbe parlare di un 3-4-3, anzi - a voler essere precisi - di un 3-2-2-3: il centrocampo, anziché in linea come ai giorni nostri, presentava una quadrilatero composto da due mediani (a protezione delle difesa) ed altrettante mezze ali, deputate all'ispirazione degli attaccanti. Questo particolare modulo di gioco, in Italia conosciuto con il nome di sistema, fu ideato dall'allenatore inglese Herbert Chapman, geniale nell'arretrare il centromediano sulla linea dei terzini - dando così vita allo stopper - in risposta alla modifica della regola del fuorigioco da parte dell'International Football Association Board. L'Arsenal di Chapman, utilizzando il WM (dalla disposizione dei calciatori in campo, che ricorda una W sovrapposta ad una M) conquista trofei d'ogni sorta, e ciò convince l'attaccante Felice Borel - appena giunto dalla Juventus, cui tornerà al termine del campionato - e l'allenatore András Kuttik a proporne l'attuazione al presidente Novo, che approva. E i risultati gli danno ragione, perché il Torino si guadagna sul campo l'epiteto di "Grande". Il sistema granata, però, è assai meno rigido di quanto si possa credere, dato che la levatura degli interpreti consente di sperimentare varie soluzioni: ad esempio, spesso capita - in fase di non possesso - di vedere il mediano Grezar scalare in difesa al fianco di Rigamonti, con Ballarin e Maroso sulle corsie esterne, per comporre una innovativa linea a quattro. Ciò, ovviamente, comporta la perdita di un uomo a centrocampo, cui l'ala sinistra Pietro Ferraris sopperisce arretrando in mediana. Quel Torino fu tanto grande quanto innovativo.



IL RICORDO DI ZACCARELLI
Sentir parlare del Grande Torino da chi il Torino l'ha fatto grande per ultima volta, vincendo lo scudetto nel 1976, era doveroso. La chiacchierata con Renato Zaccarelli (28 presenze e 4 gol in quel campionato) è stata quindi occasione per scoprire l'impatto col mondo del Toro di un ragazzo nato ad Ancona, transitato per Catania e torinesizzatosi nel vivaio granata: giunto all'ombra della Mole vent'anni dopo la tragedia di Superga, Zaccarelli racconta che «per apprendere cosa fosse stato il Grande Torino non bastava certo un giorno. Io fui agevolato, perché facendo parte delle giovanili ebbi la fortuna di allenarmi al Filadelfia, ma per comprendere pienamente cos'avesse rappresentato quella squadra per il calcio ed il Paese mi furono necessari anni di vita granata». Di cui il giorno più bello - sono pronto a metterci la mano sul fuoco - fu il 16 maggio '76: Torino-Cesena termina 1-1, i granata tornano a vincere lo scudetto ventisette anni dopo l'orribile schianto. Per Zaccarelli si trattò, oltre che «di una grandissima emozione: passare dal settore giovanile alla vittoria del campionato con indosso la stessa maglia è meraviglioso» anche di «una vittoria dello sport, perché il ritorno al successo del Toro dopo la tragedia fu motivo di gioia anche per chi non faceva il tifo per i granata».


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000