giovedì 30 giugno 2011

Arthur Friedenreich, il mulatto dagli occhi verdi che segnava come una tigre

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Nel distretto di Bom Retiro, al centro di San Paolo, s’incrociano rua Vitória e rua do Triunfo. C’è posto migliore per dare alla luce un figlio? La lavandaia di colore Matilde ed il commerciante tedesco Oscar erano sicuri che non ci fosse. Nasce infatti qui, il 18 luglio 1892, Arthur Friedenreich, mulatto dagli occhi verdi, che otterrà il successo preannunciatogli dal beneaugurante luogo di nascita a suon di gol. Tanti, tantissimi. Ma quanti, di preciso? Purtroppo, si tratta di un mistero destinato a rimanere tale.

Districare la matassa è impresa ardua, anzi impossibile, nonostante vi ci siano cimentati in molti. Il primo fu papà Oscar, che inizò ad annotare le marcature del proprio figlio su un apposito quaderno. Toccò quindi a Mario de Andrade, suo compagno di squadra nel Paulistano, assumersi questa responsabilità per espresso volere di Arthur, ed all’improvvisa dipartita di de Andrade – avvenuta immediatamente dopo l’annuncio di voler divulgare i dati raccolti – è dovuto l’enigma relativo ai gol di Friedenreich. Che, secondo il conteggio del suo ex compagno di squadra, furono ben 1239 in 1329 partite disputate. Ma ecco il primo imprevisto: il giornalista De Vaney, venuto in possesso delle scartoffie di de Andrade, le dirama erroneamente, dichiarando 1329 segnature anziché 1239. Questo avveniva nel ’62, ma la diatriba sui gol segnati da Friedenreich balzò nuovamente agli onori della cronaca quasi trent’anni più tardi, grazie ad Alexandre da Costa. Nel suo libro «O Tigre do Futebol», edito nel 1999, si parla infatti di 554 reti in 561 partite, dati minuziosamente raccolti studiando quanto riportato al tempo su due quotidiani paulisti: «Correio Paulistano» e «O Estado de S. Paulo». Nel gennaio del 2000, però, ecco l’ultimo – sino ad ora – colpo di scena: «Fried Versus Pelé» fa la sua comparsa nelle librerie, e l’autore Severino Filho propone un’ennesima versione dei fatti, scrivendo di 558 marcature in 562 partite.

I numeri – in special modo nel calcio – contano ben poco. Che Arthur Friedenreich fosse un goleador prodigioso è fuori discussione, e poco importa che i suoi gol siano stati cinquecento o mille o più, perché la sua vita vissuta agli albori del «futebol» offre molti altri spunti di discussione. Il colore della sua pelle, purtroppo, è uno di questi.

Meticcio, per praticare uno sport al tempo riservato esclusivamente ai bianchi era costretto a sbiancarsi il volto con la crema di riso prima di ogni incontro. Entrava in campo rigorosamente per ultimo, gelatina in testa per mascherare i crespi capelli e una voglia matta di far ricredere chi lo disprezzava per le sue origini. Cresciuto inseguendo una vescica di mucca gonfia d’aria, cioè la cosa più simile ad un pallone a sua disposizione, aveva sviluppato una tecnica insolita: dribbling a profusione, cui si aggiungevano fiuto del gol ed un pizzico di malizia, necessaria per far fronte alle discriminazioni razziali che lo seguivano anche sul rettangolo di gioco. Al di fuori, però, «Fried» si godeva la vita: cognac, sigari pregiati, camicie di gran lusso e ore piccole erano per lui una consuetudine.

Con la Seleção ebbe invece un rapporto assai particolare, un’alternanza di gioie e dolori iniziata il 27 luglio 1914, giorno del primo incontro disputato dalla Nazionale brasiliana di calcio. A Rio de Janeiro, il «Laranjeiras» ospita un’amichevole tra il Brasile e l’Exeter City: il risultato è incerto, forse un 2-0 per i brasiliani, oppure un 3-3, di sicuro c’è che Friedenreich esce dal campo con due denti spezzati. Nel ’19, sempre al «Laranjeiras», casa del Fluminense, si disputa il Campeonato Sudamericano de Selecciones (antenato della Coppa America). «Fried» segna quattro gol, tre nella prima partita al Cile e l’ultimo nell’interminabile finale (quattro tempi supplementari, 150 minuti di gioco complessivi) contro l‘Uruguay: argentini e uruguaiani, ammaliati, lo soprannominano «el Tigre». Tre anni più tardi, medesima competizione, ma quello che ormai è «el Tigre» è costretto ad rinunciare alla finale con il Paraguay da Epitácio Pessoa: il presidente del Brasile ritiene inopportuna la presenza in campo di un mulatto in un incontro di tale importanza. L’esclusione più dolorosa, però, arriva nel 1930: è giunto il momento del primo campionato mondiale di calcio, in Uruguay, ma a causa di alcune frizioni tra la federazione paulista e quella carioca, i calciatori paulisti – tra cui, appunto, Friedenreich – vengono lasciati a casa. E poco importa che tra questi ci sia anche «le Roi du Football», il re del calcio: così lo definiscono i francesi dopo una tripletta inflitta con il suo Paulistano alla selezione transalpina nel ’25, per giunta a domicilio. Chissà, magari con lui in campo il Brasile non sarebbe stato fatto fuori dall Jugoslavia già nel girone eliminatorio.
Ma è un dubbio destinato a rimanere irrisolto, così come il mistero dei gol segnati da Arthur «el Tigre» Friedenreich.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

martedì 28 giugno 2011

Le protagoniste della Copa América: Brasile, voglia di vincere



Il momento - L'avvilente spedizione sudafricana, segnata dalla doppietta di Sneijder, la follia di Felipe Melo e le opinabili convocazioni di Dunga, è ormai parte di un passato più remoto del previsto. L'universo calcistico brasiliano è infatti proiettato verso un roseo futuro: nel 2014 il Paese del samba ospiterà la Coppa del mondo un anno dopo l'antipasto della Confederations Cup, dodici mesi più tardi sarà quindi la volta della Copa América, e nel 2016 si terranno a Rio de Janeiro le Olimpiadi. Perché la Seleção sia protagonista - ovvero: vinca - si è scelta la strada più ardua, quella della rifondazione: pensionati Kaká e i suoi compari, largo ai volti nuovi. Neymar, Ganso, Lucas Moura, e quel Pato che Dunga lasciò a casa.

In Copa América - Curioso cammino, quello del Brasile, nella massima competizione continentale del Sudamerica. Quando il «Campeonato Sudamericano de Selecciones», così era nota al tempo la Copa América, prese il via nel 1916, il Brasile mise in fila due terzi posti - quattro squadre partecipanti - prima di affermarsi nel '19 grazie al portentoso cannoniere Friedenreich. Replica nel 1922, sconfiggendo il Paraguay nello spareggio. Quindi un'astinenza durata sino al '49, interrotta grazie al terzo successo in altrettante edizioni casalinghe per i verdeoro, nuovamente campioni - ancora in casa - nel 1989. Prima vittoria esterna nel '97, in Bolivia, e compresa quell'edizione la Seleção ne ha vinte quattro delle ultime cinque.

Il selezionatore - A condurre il Brasile verso il Mondiale casalingo sarebbe dovuto essere, secondo la CBF, Muricy Ramalho. Ma il Fluminense, facendo valere la firma sul contratto del proprio tecnico, ha spalancato le porte della Seleção a Mano Menezes. 49 anni appena compiuti, un'anonima carriera dilettantistica spesa nel Guarani di Venâncio Aires (stato di Rio Grande do Sul) prima di sedere in panchina. Qualche successo statale, poi ha riportato il Grêmio nel Brasileirão e - sempre con il «Tricolor Gaúcho» - raggiunto la finale di Libertadores nel 2007, quindi un'altra nobile decaduta da riportare nella massima serie (il Corinthians) ed il successo in Coppa del Brasile nel 2009. Vincere è la sua sola alternativa: in caso contrario, il rischio di dover espatriare come accadde a Flávio Costa (C.T. nel giorno del «Maracanaço») è concreto.

Il gruppo - Il terzo portiere Jefferson, omaggio della CONMEBOL recapitato alle partecipanti forse con un pizzico di ritardo, va ad aggiungersi ai ventidue prescelti da Menezes il 7 giugno. Júlio César e Victor gli altri due «goleiros», mentre in attacco spiccano i nomi di Pato - ancora in forse - e Neymar, cui vanno ad aggiungersi Robinho e Fred. A centrocampo la fantasia di Ganso sarà imprescindibile, così come la corsa di Ramires. Il posto da «volante» se lo giocheranno Lucas Leiva e Sandro; completano il reparto Elano, Lucas Moura, Elias e Jádson. «Zagueiros» di prim'ordine: Lúcio e Thiago Silva i titolari, David Luiz e Luisão le alternative, mente sulle fasce spazio a Maicon e Daniel Alves a destra, con André Santos e Adriano sulla corsia opposta. Là dove avrebbe dovuto giocare Marcelo, poco pratico d'informatica, una cui e-mail di vanto per essere sfuggito ad una convocazione in nazionale millantando un infortunio è malauguratamente - per lui - giunta nella casella di posta elettronica del C.T.

La stella - La spalla di Pato ed i muscoli di seta di Ganso tengono col fiato sospeso un'intera nazione, le cui aspettative rischiano di mandare in frantumi il talento cristallino dell'enfant prodige Neymar. Rocciosa certezza della Seleção è Thiago Silva, promosso con il massimo dei voti alla scuola di Nesta, da cui si è emancipato dopo aver carpito i trucchi del mestiere. Con la scudetto cucito sul petto, starà a lui dare il via alla manovra dei «Pentacampeões» e prendersi cura di Leo Messi in un eventuale ed infuocato Brasile-Argentina, reso incandescente dalla suggestiva ambientazione della Copa América: la pampa argentina, dove un successo degli acerrimi rivali non sarebbe tollerato.

Occhio a... - Neymar e Ganso, che magari in pochi avranno visto all'opera ma di cui chiunque conosce le gesta, sarebbero tutto fuorché delle sorprese. Il nome che stuzzica l'appetito dei calciofili più accaniti è invece quello di Lucas Rodrigues Moura da Silva, un tempo conosciuto come «Marcelinho» ma oggi fiero del meno impegnativo «Lucas» stampato sulla maglia. Proprietà - per quanto ancora? - del San Paolo, Lucas è un fantasista che ama partire da destra, con piedi raffinati e la colla sugli scarpini - perché la palla non gliela stacchi facilmente - ma al momento è considerato una semplice alternativa. Sta a lui far ricredere Menezes, che sta provando a reinvetarlo mezzala, e magari rubare il posto in squadra a Robinho.

L'obiettivo - Da che calcio è calcio, il Brasile ha sempre avuto uno e un solo scopo: vincere. E, nonostante l'ostilità della gente delle pampas, i verdeoro punteranno al successo anche in questa Copa América d'Argentina. Inutile quindi dire che, se sarà capitan Lúcio a sollevare il trofeo nella notte del 24 luglio, la gioia del popolo brasiliano sarà doppia per via del successo in terra ostile. E ci sono concrete possibilità che la Seleção prenda perlomeno parte alla finale: il Gruppo B, in cui è stata inserita, non presenta particolari insidie - il rude Paraguay può ambire alla seconda piazza, mentre Ecuador e Venezuela non paiono in grado di impensierire Menezes. Se, poi, Neymar e i suoi colleghi concluderanno il girone al primo posto, ad attenderli nei quarti di finale ci sarà la seconda delle migliori terze.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

giovedì 23 giugno 2011

Alex James ed il suo «sistema» infallibile

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Si presentava in campo con le maniche lunghe, perennemente sbottonate ai polsi, e i calzoncini – di due buone taglie più larghi – rigonfi a causa dei mutandoni, fonte di calore necessaria per affievolire le sofferenze dovute ai reumatismi. Ma, recita il detto, l’abito non fa il monaco. A testimoniare ciò, Alex James. Uomo dalla figura tozza, alto poco meno di centosettanta centimetri, con le gambe storte ed i capelli grondanti di gelatina, figlio di un ferroviere e con un passato da operaio metallurgico, fu nel contempo la mente ed il braccio dell’Arsenal di Herbert Chapman.

Nato in Scozia, a Mossend (Lanarkshire), il 14 settembre 1901, e cresciuto nella vicina Bellshill (dove nel 1909 vide la luce Matt Busby) assieme all’amico Hughie Gallacher, 133 gol con il Newcastle e 72 col Chelsea, James gioca al calcio per passione con Brandon Amateurs, Orbiston Celtic e Glasgow Ashfield. La sua prima, vera squadra è il Raith Rovers: tre anni, poi il Preston North End se ne assicura i gol versando 3.000 sterline nelle casse degli scozzesi. Nel Lancashire, James continua a segnare, ma nonostante le sue reti i «Lilywhites» (gigli bianchi) mancano per ben quattro stagioni consecutive la promozione in First Division, negando persino allo scozzese di rispondere alle convocazioni della propria nazionale.

Nonostante bastino due mani per conteggiare le sue apparizioni con la maglia della Scozia, 8 appena, per entrare nella storia del calcio britannico gliene furono sufficienti due. Dopo l’esordio, datato 31 ottobre 1925, eccolo rispondere ad un’altra convocazione tre anni dopo, il 31 marzo 1928. A Wembley, la Scozia segna 5 gol (a uno) contro i padroni di casa inglesi, ed il nome di Alex James compare in ben due occasioni nel tabellino dei marcatori: «Wembley Wizards», i Maghi di Wembley, vengono definiti i protagonisti dell’impresa. Il Preston, che vivacchia in seconda divisione, ormai gli sta stretto, ed il trasferimento – per 9.000 sterline, cifra stratosferica per l’epoca – all’Arsenal che Chapman sta facendo grande è il naturale riconoscimento del suo talento calcistico.

Ma l’impatto con la nuova realtà si rivela traumatico per James, giunto ad Highbury assieme a Cliff Bastin (che segnerà 178 gol con i Gunners) per completare il complesso mosaico ideato da Chapman. Il quale, dopo aver vinto due campionati ed una FA Cup con l’Huddersfield Town, era stato convinto dal facoltoso presidente Henry Norris (personaggio fondamentale nella storia del club londinese: a lui, tra le altre cose, è dovuto il trasferimento ad Highbury) a sedere sulla panchina dell’Arsenal con l’obiettivo di fare dei Gunners la più grande squadra inglese del tempo. L’impresa, già di per sé assai ardua, fu resa ancor più difficile dalla decisione presa dall’International Board nel giugno 1925: al fine di aumentare i gol e conseguentemente lo spettacolo, la regola del fuorigioco fu modificata in maniera tale che all’attaccante fosse sufficiente avere due avversari – e non più tre – tra sé e la porta nel momento dell’effettuazione del passaggio. Le segnature aumentano a dismisura, e dopo una cocente batosta (7-0) subita sul campo del Newcastle il 3 ottobre 1925, il capitano Charlie Buchan propone al proprio allenatore di arretrare il centromediano Butler sulla linea dei terzini. Nasce così lo stopper.

L’idea, che oggi potrebbe apparirci banale, fu – ai tempi – portentosamente innovativa. Pensionata la sin lì imperante piramide di Cambridge, numericamente esprimibile con un 2-3-5, il modulo di Chapman venne ribattezzato «sistema». Tre difensori in linea, lo stopper ormai sgravato dai compiti di regia in precedenza detenuti dal centromediano, ed i terzini: più larghi, ora impegnati nella marcatura delle ali avversarie ma anche liberi di sganciarsi in fase offensiva come nel caso di Hapgood, primo terzino fludificante della storia. I mediani laterali, che ora giocano più stretti, prendono in consegna le mezze ali avversarie, e compongono un quadrilatero con gli interni – più arretrati, non più in linea con gli attaccanti – cui spetta ora l’impostazione della manovra. Nel «WM» (dalla disposizione in campo dei calciatori), sostanzialmente basato sull’uno contro uno e che quindi andava a privilegiare la maggior cifra tecnica dell’Arsenal, gli unici tre calciatori sgravati da compiti di marcatura erano le due ali ed il centravanti.

All’interno di questa complessa organizzazione tattica, il ruolo ricoperto da Alex James è di importanza madornale. Prima di Johan Cruijff, prima di Alfredo di Stéfano, prima di Valentino Mazzola, eccolo, è lui il primo centrocampista universale tra i cui piedi la sfera di cuoio abbia l’onore di rotolare. La sua azione incomincia ai limiti della propria area, dove veste i panni del regista, salvo poi tramutarsi rapidamente in rifinitore: non segna molto, e per lui che prima di giungere all’Arsenal faceva l’attaccante si tratta di una poco saporita novità, ma c’è il suo zampino dietro la stragrande maggioranza delle segnature di squadra, e Jack, Bastin, Drake, Hulme e Lambert (escluso quest’ultimo, fermatosi a 98, gli altri scollinarono tutti quota 100 gol con i Gunners) lo ringrazierebbero ancora oggi – se fossero vivi per farlo – per quei magnifici assist.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

sabato 18 giugno 2011

Emigranti (più o meno) di successo


Mario Balotelli è certamente il più famoso, controverso, pagato e multato tra gli emigranti italiani del pallone. Di lui, per una ragione o per l'altra, si parla in continuazione. Un giorno segna la prima tripletta della carriera contro l'Aston Villa, quello dopo anziché mirare al «triplo 20» utilizza come bersaglio delle sue freccette i ragazzini del City nel centro sportivo di Carrington, ritorna in campo e cerca di emulare Bruce Lee utilizzando il malcapitato Goran Popov come sparring partner, quindi qualcuno gli prende a sprangate la Maserati. Insomma, di lui sappiamo tutto, anzi troppo. E magari, presi dal suo ultimo battibecco con Rio Ferdinand o intenti a leggere cos'abbia detto a tale Jenny Thompson (escort che pare abbia avuto a che fare con Rooney in passato) ci dimentichiamo chi è stato il primo calciatore italiano a preparare la valigia ed attraversare la Manica per rincorrere un pallone di cuoio.

Una rapida occhiata agli almanacchi, ed ecco svelato il mistero: Attilio Fresia, nato a Torino il 5 marzo 1891, trasferitosi al Reading F.C. per 17 sterline nel 1913. Nel maggio di quell'anno, infatti, i «Royals» discesero in Italia per una tournée nel corso della quale affrontarono le più forti squadre italiane del tempo, a partire dal Genoa di Fresia. Che si mise in luce segnando una doppietta, attirando l'attenzione dei dirigenti inglesi, i quali convinsero il baffuto calciatore a trasferirsi in Inghilterra. La FIGC, però, impiegò alcuni mesi per ufficializzare il cambio di maglia, e così Fresia dovette attendere il dicembre del '13 per unirsi alla sua nuova squadra. Appena il tempo di scendere in campo con le riserve, contro il Croydon Common, quindi un mesto ritorno a casa, prima di salpare alla volta del Brasile per sedere sulla panchina del Palestra Itália, che nel 1942 muterà il nome in Palmeiras.

Fresia non fu però il primo calciatore italiano all'estero, preceduto da Francesco Calì e Vittorio Pozzo, avvistati in Svizzera agli inizi del Novecento. Il secondo non ha bisogno di presentazioni, ma di precisazioni: al Grasshoppers nel 1905-1906, poi il rientro in Italia per indossare la maglia del Torino e vincere due titoli mondiali come C.T. della Nazionale. Calì, nato a a Riposto, in Sicilia, emigrò in Svizzera con la famiglia per cercare fortuna, trovandola come calciatore. Dal 1899 al 1901 in forza allo Zurigo, giocò anche cinque partite con la rappresentativa elvetica prima di tornare in Italia per indossare la maglia del Genoa e quindi trasferirsi all'Andrea Doria, dove rimarrà per dieci anni. Nato centravanti, evolutosi in terzino, fu lui ad indossare la fascia di capitano nella prima partita giocata dall'Italia: contro la Francia, il 15 maggio 1910 a Milano, finì 6-2. Cento e uno anni più tardi, di italiani che varcano il confine per giocare al calcio ce ne sono ancora, ed il Canton Ticino è la meta più ambita: in Challenge League, la Serie B elvetica, Lugano, Chiasso e Locarno vantano la presenza di almeno un paio di italiani in rosa, ma è a Bellinzona (in Super League) che si è sviluppata la più folta colonia. Incluso l'allenatore Carlo Tebi, sono in sette ad indossare la maglia granata, tra cui spiccano Andrea Conti, figlio del grande Bruno e fratello del cagliaritano Daniele, il portiere Carlo Zotti e soprattutto Aimo Diana, cui solo la pubalgia negò un posto tra i ventitré di Germania 2006. Che, nel momento di sollevare al cielo la Coppa del Mondo, giocavano tutti in Italia.

Gli unici azzurri ad aver messo il becco fuori dal Belpaese, quel 9 luglio, erano Gattuso e Materazzi: una stagione a testa in Gran Bretagna, rispettivamente in Scozia con i Rangers ed in Inghilterra all'Everton, prima di far ritorno nella Penisola. E poi c'era Camoranesi, che aveva giocato in Argentina, Messico ed Uruguay, prima di essere naturalizzato però. Dopo quel 6-4 maturato ai calci di rigore, invece, via all'esodo. Cannavaro e Zambrotta scelsero la Spagna sotto forma di Real Madrid e Barcellona quella stessa estate, mentre dodici mesi dopo Grosso accettò le avances del Lione, e Toni andò a vincere la Bundesliga con annesso titolo di capocannoniere con la maglia del Bayern Monaco. Nel 2008-09 a conquistare il Meisterschale furono altri due campioni del mondo, Barzagli e Zaccardo, pedine del Wolfsburg che vinse il campionato proprio davanti al Bayern Monaco, in cui per sei mesi militò Oddo. Eccezion fatta per Camoranesi, tornato in Argentina al Lanús, e Cannvaro, andato a chiudere la carriera con l'Al-Ahli di Dubai, oggi hanno tutti fatto ritorno in patria.

Lippi, condottiero di quella magnifica spedizione, è al momento senza panchina, ma ha le idee ben chiare sul suo futuro: all'estero. Sulle orme di Capello e Trapattoni, cittì come lo è stato anche lui fino allo scorso - disgraziato - 24 giugno e come Zaccheroni, fresco vincitore della Coppa d'Asia alla guida del Giappone. L'alternativa è una squadra di club, seguendo l'esempio di Ancelotti, Mancini, e Spalletti. Ma gli italiani in giro per il mondo con i loro schemi non finiscono certo qui. Dario Bonetti e Roberto Landi si guadagnano la pagnotta nel continente nero, sulle panchine di Zambia e Liberia, emulati da Beppe Dossena, allenatore del Saint George di Addis Abeba. Si muove invece nella penisola araba Zenga, passato dalla panchina dell'Al-Nassr di Riyad a quella dell'Al-Nasr di Dubai.

Ma la carriera di Zenga, allenatore giramondo concessosi in Italia a Catania e Palermo, si è sviluppata prevalentemente in Romania, dove ha stabilito un primato: è infatti l'unico tecnico nella storia del calcio rumeno ad essersi seduto sulle panchine delle tre maggiori squadre della capitale Bucarest, in ordine cronologico Naţional (oggi noto come Progresul), Steaua e Dinamo. Sostituendo la Dinamo con il Rapid ed aggiungendoci CFR Cluj e Politehnica Iaşi, ecco la parentesi rumena di Cristiano Bergodi, chiusa nel luglio scorso con l'approdo in Emilia per allenare il Modena. A proposito di Cluj: la tripletta messa a segno nel 2010 (Campionato, Coppa e Supercoppa di Romania) è figlia del lavoro di Andrea Mandorlini, penultimo italiano su una panchina rumena. L'ultimo superstite è Nicolò Napoli, alla guida dell'Universitatea Craiova, squadra in cui milita Andrea Cossu. E non è l'unico prodotto dello Stivale ancora in età da tacchetti ad essere stato esportato in Liga 1: Roberto De Zerbi, Felice Piccolo e Remo Amadio difendono i colori del CFR Cluj, mentre sull'altra sponda cittadina è da poco approdato Nicola Ascoli, in forza all'Universitatea Cluj. Nel Târgu Mureş ecco un duo tricolore, composto da Luigi Lavecchia e Alessandro Caparco, mentre Simone Cavalli, Antonino D'Agostino e Riccardo Corallo giocano in Transilvania nel Gloria Bistriţa.

Giunti in Transilvania, terra di vampiri e non di calcio, qualcuno penserà di essere giunto al termine del viaggio tra gli emigranti del pallone. Viaggio che, invece, deve ancora toccare gli angoli più remoti globo terracqueo. Giuseppe Funicello, nato ad Agropoli nel Cilento ma cresciuto a Norwalk (Connecticut), dopo essere transitato nelle giovanili della Salernitana ha vestito la maglia del Thor Akureyri in Islanda, ed attualmente milita nell'IFK Mariehamn in Veikkausliiga, massima serie finlandese, così come Marco Matrone: nato a Scafati ma naturalizzato finlandese, gioca nell'Haka dopo aver speso una stagione in Italia tra Arezzo e Sansepolcro. Scendiamo in Mitteleuropa, ed ecco Marco Migliorini: dalla Primavera del Chievo alla prima squadra del Zbrojovka Brno (Repubblica Ceca) nel gennaio 2011; para invece in Ungheria Federico Groppioni, che difende i pali dell'MTK Budapest. Gabriel Sava, anch'egli estremo difensore, ha scelto il Monaghan United, seconda divisione irlandese. E sempre in seconda divisione, stavolta in Scozia, ecco Raffaele De Vita tra le fila del Livingston, mentre Manuel Pascali gioca in Scottish Premier League nel Kilmarnock.

Cambiando decisamente clima, ecco che il nostro itinerario ci conduce a Larnaca, costa meridionale di Cipro. È qui che incontriamo Marco Fortin, portiere dell'AEK. In Grecia, invece, Mirko Savini e Bruno Cirillo compongono la difesa del PAOK Salonicco in Super League, mentre dopo la retrocessione nello scorso campionato Stefano Napoleoni (un triennio in Polonia nel Widzew Łódź) ha continuato la sua avventura con il Levadiakos anche in seconda divisione. In Bulgaria ecco un quartetto italiano, equamente diviso tra CSKA Sofia (Giuseppe Aquaro e Fabrizio Grillo) e Chernomorets Burgas (Michele Cruciani e Alberto Quadri). Con Thomas Danieli (Union Saint Gilloise, terza divisione belga, presidente ed allenatore italiani) e Luca Lodetti (Marsaxlokk, Premier League maltese) si chiude la carrellata europea, volutamente incentrata sui meno noti mestieranti del pallone.

Abbandonato il Vecchio Continente, si può spaziare dall'Australia, dove Marcello Fiorentini difende i colori del Newcastle Jets, agli Stati Uniti, con Simone Bracalello, in forza ai Minnesota Stars. In Asia, dove giocava Manuel Vergori (Cần Thơ, seconda divisione vietnamita) fino a qualche settimana fa, prima di firmare con il Francavilla, possiamo incontrare Raffaele Simone Quintieri, che fa gol in Indonesia nel Semarang United. Ecco infine Fabio Firmani, passato dalla Lazio allo Shaanxi Chanba (Chinese Super League) nel febbraio 2011. Perché la Cina è vicina, così come la Finlandia e lo Zambia, per gli uomini del calcio italiano.


Antonio Giusto


Fonte: Calcio 2000

Una maglia al giorno: Cagliari 2011-12

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mercoledì 15 giugno 2011

Héctor Scarone, «el Mago» dell'Uruguay anni trenta

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Quando, nel 1927, la FIGC chiude le frontiere, i club italiani si ritrovano costretti a puntare esclusivamente sugli oriundi. Non essendoci mezzi attendibili per giudicare un calciatore attivo al di là dell’Atlantico, ci si affida a sedicenti intermediari: c’è chi pesca bene,chi male, e chi come l’Ambrosiana-Inter va sul sicuro. Nel 1931 arriva infatti all’ombra della Madonnina un famoso uruguaiano, trentadue anni, alto circa un metro e settanta. Che fa cose strabilianti con il pallone. Peppino Meazza, all’epoca poco più che ventenne ma già campione affermato, lo osserva con ammirazione: «Era il miglior giocatore del mondo», dirà poi di lui.

«Lui» è Héctor Pedro Scarone, nato (26 novembre 1898) e morto (4 aprile 1967) a Montevideo, figlio di emigrati italiani eccellenti nel trasmettere alla prole il gene calcistico: suo fratello maggiore Carlos, anch’egli attaccante, vanta 152 gol con il Nacional. E proprio con la maglia «tricolor» inizia la parabola calcistica di Héctor, che pure in un primo momento era stato scartato per ragioni fisiche, nonostante questo prodigioso quindicenne annoverasse tra i propri hobby quello di appendere un sombrero al ramo di un albero ed infilarci dentro il pallone da qualsiasi posizione e distanza. Palestra e sacrifici gli valgono un posto nella squadra riserve,
ma non è certo lì che merita di stare: cinque partite, ed è in prima squadra. Siamo nel 1916, Scarone non ha ancora compiuto 18 anni e lo chiamano «el Rasquetita», diminutivo di «el Rasqueta», soprannome del fratello Carlos: vince il campionato, da protagonista, e replica un anno più tardi, guadagnandosi la chiamata per il Campeonato Sudamericano (così era nota l’odierna Coppa America sino al 1967) del ’17, vinto dall’Uruguay grazie ad un «cabezazo» di Scarone – e chi, altrimenti? – nella partita decisiva contro l’Argentina.

Per «el Mago» Héctor si tratta del secondo gol in Nazionale, il primo segnato all’«Albiceleste», sua vittima favorita. Contro la «Selección» ne metterà a segno altri dodici, l’ultimo – da 40 metri – nel 1928, ad Amsterdam, decisivo affinché l’Uruguay salga sul gradino più alto del podio olimpico. E pensare che Scarone, il quale aveva già assaggiato l’oro a Parigi nel ’24, non avrebbe neppure dovuto prender parte a quest’edizione dei Giochi. Al tempo riservati ai soli dilettanti, pur di parteciparvi rifiutò la cospicua offerta d’ingaggio del Barcellona, ormai entrato nel mondo del professionismo.

Ma andiamo con ordine. È il 12 aprile del ’25, il Nacional (impegnato ne «La Gira de 1925», estenuante tour europeo durato 190 giorni) è di scena al «Les Corts», casa del Barça sino al trasferimento al Camp Nou nel ’57. Sugli spalti sono assiepati 50.000 spettatori, ansiosi di assistere a quello che si preannuncia essere un grande spettacolo. Vengono premiati: Josep Samitier, 326 gol in blaugrana, regala il 2-0 ai suoi con una doppietta, cui rispondono Urdinarán e Scarone. Un anno più tardi, «el Mago» lascia il Nacional dopo aver vinto 7 titoli nazionali e firma con il Barcellona, ma in Catalogna rimane appena sei mesi (segnando 6 gol in 9 partite e vincendo la Coppa di Spagna) prima di far ritorno nella sua amata Montevideo. Ci fu chi parlò di una difficile coesistenza con Samitier, ma il diretto interessato ci tenne a precisare: «Sapevo che, accettando il contratto professionistico offertomi dal Barça, avrei dovuto rinunciare alle Olimpiadi. Sarebbe stato come morire». E così, se ne tornò in Uruguay, per vestire la maglia del Nacional e… fare il postino, lavoro che prima conciliò con l’attività calcistica e proseguì poi sino alla pensione.

Portalettere sui generis, la versione calcistica del celebre tanguero Carlos Gardel non si limita a pacchi e raccomandate, ma consegna anche assist e gol. 301 in 369 partite con «el Bolso», il Nacional, meglio di lui solo Atilio García con 486, mentre le 31 marcature con la «Celeste» rappresentano tutt’ora un record. Ritoccato per l’ultima volta il 21 luglio 1930, contro la Romania, nel corso del primo campionato del mondo di calcio, che l’Uruguay si aggiudicherà sconfiggendo 4-2 l’Argentina in finale. Per Scarone, che un anno più tardi vestirà la maglia dell’Inter e poi quella del Palermo, si tratta dell’ultima partita con la «Celeste». Che mai più, probabilmente, toccherà gli apici raggiunti grazie alla sua classe.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

Una maglia al giorno: Genoa 2011-12

CASA


TRASFERTA


PORTIERE




sabato 11 giugno 2011

venerdì 10 giugno 2011

giovedì 9 giugno 2011

Matthias Sindelar: «Carta velina» canta

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Alla misteriosa morte sopravvisse la sua leggenda. Perché Matthias Sindelar, suicidatosi, eliminato dalla Gestapo o forse tradito da una stufa difettosa, fu molto più che un semplice calciatore.
Nato Matěj Šindelář il 10 febbraio 1903 a Kozlov, in Moravia, diventa Matthias quando la sua famiglia si trasferisce nel distretto di Favoriten, situato nella parte meridionale di Vienna. Qui cresce, inseguendo – scalzo – un pallone di stracci, sino alla morte del padre (caduto sull’Isonzo nel ’17) che obbliga lui e le sue tre sorelle a dare una mano nella lavanderia materna.

Ma i panni sporchi sono costretti a farsi da parte dinanzi al suo indiscusso talento. Il pallone non è che un umile esecutore delle volontà dei piedi fatati di questo prodigio del football, la cui tecnica può essere comparata esclusivamente alla sua magrezza. Esile, lo soprannominano «der Papierene», liberamente tradotto come «Carta velina». Ma a dispetto di quest’apparente fragilità fisica, Sindelar si rivela tutt’altro che facile da mandare al tappeto: nel 1925, il malandato ginocchio destro lo costringe all’asportazione del menisco, che all’epoca significava trovarsi un lavoro perché col calcio avevi chiuso; lui invece, sottoponendosi ad una dura terapia riabilitativa, diventa il primo calciatore a tornare in campo dopo tale intervento.

E così, con il ginocchio destro per sempre fasciato, Sindelar ricomincia ad incantare le folle. Gioca nell’Austria Vienna, dopo aver esordito con l’Herta – altra squadra cittadina, oggi scomparsa, che scovò «Carta velina» tra le polverose strade della capitale austriaca. Ma Sindelar, che mai svestirà la maglia biancoviola nonostante le pressanti richieste provenienti dall’estero, esprime massimamente le proprie doti nel Wunderteam. Ovvero la Nazionale austriaca che, guidata da Hugo Meisl, impone il proprio dominio sull’Europa del calcio tra il maggio 1931 ed il febbraio del ’33.

Il primo assolo di questa squadra epocale è datato 16 maggio 1931. A Vienna, proprio in casa di Sindelar, la Scozia – all’epoca squadra temibile, tra le poche ad avere l’onore di confrontarsi frequentemente con i maestri inglesi – soccombe: 5-0 è il risultato finale. La critica si spacca, c’è chi grida al miracolo e chi invece capisce immediatamente di trovarsi dinanzi ad uno dei più grandi ingranaggi calcistici di cui la storia sia stata sin lì testimone. Disposta secondo il consueto metodo, la squadra di Meisl prevede due terzini piuttosto larghi (Schramseis a destra, Blum e poi Sesta a sinistra) davanti al portiere Hiden; Hofmann è il centromediano, Braun, Gall, Mock e Nausch i mediani, ed in attacco largo all’estro delle ali Zischek e Vogl e degli interni Gschweidl e Schall. Centravanti e stella più splendente è Matthias Sindelar, che Meisl definisce «il Mozart del calcio», descrizione tra le più calzanti: Sindelar, infatti, è il simbolo calcistico di Vienna, la «città dei musicisti» dove oltre altro stesso Mozart incantarono con le note e non con il pallone di cuoio celeberrimi artisti quali Beethoven, Salieri, Schubert, Vivaldi e Brahms.

Con il Wunderteam, la squadra delle meraviglie, ecco quindi le sue più soavi melodie. Contro l’Italia, in un incontro valevole per la Coppa Internazionale 1931-1932 poi vinta dagli austriaci, «Carta velina» segna i due gol che regalano il successo ai suoi vanificando il prodigioso gol di Meazza. Un mese più tardi, nell’aprile 1932, l’Ungheria – che non è ancora l’Aranycsapat di Puskás ma resta pur sempre una delle più grandi squadre europee – viene annichilita: 8-2, Sindelar segna tre gol e dispensa cinque assist. La sua massima prodezza con indosso la maglia biancorossa dell’Austria, però, risale probabilmente alla trasferta inglese del dicembre ’32. Si tratta di una sconfitta, l’unica subita dal Wunderteam in quindici partite disputate, ma la nobiltà degli avversari conferisce enorme prestigio all’incontro, e Sindelar lo impreziosisce con uno slalom – senza sci ma con il pallone incollato al piede – che lo conduce dal centrocampo al gol.

Morto con Hugo Meisl, il 17 febbraio 1937, il Wunderteam, Sindelar si ritrova a duellare con il più ostico e scorretto degli avversari: il nazismo. Eppure «Carta velina», debole di fisico ma assai forte caratterialmente, sceglie di affrontarlo a testa alta. È il 3 aprile 1938, a Vienna si disputa l’«Anschlussspiel», la «partita della riunificazione» tra Austria e Germania che «celebra» l’Anschluss. Il «Prater» è gremito, per dare l’addio alla Nazionale austriaca – che pure si è qualificata agli imminenti mondiali di Francia – e salutare la nascita di una Germania del calcio in apparenenza destinata a dominare, in Europa e nel mondo, grazie all’innesto dei calciatori austriaci. I gerarchi nazisti, che si attendono un trionfo, si ritrovano inaspettatamente a fare i conti con due coraggiosi oppositori: Sindelar ed il suo fedele compagno di squadra Karl Sesta. Sono loro a marcare le due reti che regalano all’Austria l’ultima vittoria, ma i gol più belli li segnano al termine dell’incontro, negando il saluto nazista ai gerarchi presenti in tribuna.

Antonio Giusto

Fonte: Guerin Sportivo.it

Una maglia al giorno: Udinese 2011-12

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mercoledì 8 giugno 2011

Il Punto sull'Italia - Con la mente già in vacanza, arrivederci al 10 agosto!



Conquistata, di fatto, la qualificazione europea contro l'Estonia, il gruppo azzurro dev'essersi concesso delle vacanze anticipate. Già in spiaggia con la testa, la foga irlandese dell'immarcescibile Trapattoni e dei suoi uomini, accompagnata dallo sgradito diluvio abbatuttosi su Liegi, hanno colto di sorpreso l'ultima Italia della stagione.

COSA VA - Le idee, e quelle soltanto. Il pallone gira, o meglio ci prova: campo pesante e pressing avversario sono l'ottimo antidoto irlandese. Con l'ingresso in campo di Matri nel secondo tempo, affiancato da Pazzini prima e Gilardino poi, largo ai cross, che però non arrivano nonostante le regolari discese di Cassani a destra e Criscito (sostituito da Balzaretti al 65') a sinistra.

COSA NON VA - Se la circolazione della sfera si può considerare accettabile sino alla metà campo, i palleggiatori azzurri vanno in crisi dinanzi al pressing avversario. Ecco, quindi, le verticalizzazioni ammirate contro la mediocre Estonia diventare un pallido ricordo: i quattro attaccanti avvicendatisi sulla prima linea azzurra - Rossi, Pazzini, Matri e Gilardino - non la vedono praticamente mai, e le maggiori iniziative sono affidate ai tiri dalla lunga distanza dei centrocampisti.

TOP&FLOP - Matri e Giovinco portano vivacità alla manovra azzurra, pur peccando - in special modo il primo - al momento della conclusione a rete. Chi delude è la coppia centrale, raramente impegnata e pure colta di sorpresa da Hunt e Cox sul 2-0, e Pirlo risente in maniera tangibile della pressione portata su di lui dagli avversari.

CONSIGLI PER IL MISTER - Caro Cesare, è tempo di vacanze: lascia che i ragazzi si godano l'estate e dimentichino il mercato e lo scandalo delle scommesse. Il 10 agosto, contro la Spagna, sapranno farsi valere.

IL FUTURO - C'è la Spagna dietro l'angolo, da affrontare possibilmente con un Balotelli in più, ma soprattutto le Isole Fær Øer agli inizi di settembre per ufficializzare la qualificazione all'Europeo 2012.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

Una maglia al giorno: Inter 2011-12

CASA


TRASFERTA


PORTIERE (PRIMA MAGLIA)


PORTIERE (SECONDA MAGLIA)

martedì 7 giugno 2011

Una maglia al giorno: Milan 2011-12

CASA


TRASFERTA


TERZA MAGLIA
http://desmond.imageshack.us/Himg23/scaled.php?server=23&filename=milanthird.jpg&xsize=640&ysize=640

Una maglia al giorno...

...toglie il medico di torno.

A partire da oggi, per le prossime tre settimane, pubblicherò le foto delle maglie della Serie A 2011-12.

sabato 4 giugno 2011

Il Punto sull'Italia - Viva il possesso palla stile Barça, ma piano con i paragoni...



Il bel Barcellona di Pep Guardiola ha fatto innamorare la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori del suo calcio educato, ricco di trame offensive ed inneggiante alla sublimazione del possesso palla. Cesare Prandelli, il nostro C.T., non è certo rimasto estraneo al fascino del tiqui-taca blaugrana, ma anziché limitarsi a dei semplici apprezzamenti ha avuto l'ardita idea di metterlo in pratica. Risultato? Italia-Estonia 3-0. Piano, però. La modestia dell'avversario, comunque capace di andare a vincere 3-1 a Belgrado lo scorso ottobre, va tenuta in conto; e la purezza di gioco del Barcellona è irraggiungibile.

COSA VA - Dalla cintola in su, la cifra tecnica dell'Italia vista a Modena è considerevole: Cassano e Giuseppe Rossi, con Aquilani e Montolivo e Marchisio e Pirlo, sono una prova di coraggio prima ancora che di forza. La sapiente rinuncia di Prandelli ad un incontrista, figura tattica sino a ieri imprescindibile nella storia calcistica della Nazionale italiana, va compresa anche e soprattutto da un punto di vista psicologico: gli azzurri devono imprimersi bene in mente che contro squadra di tale caratura non c'è alternativa al successo, e per ottenerlo si può tranquillamente rinunciare al medianaccio di turno. Con un simile atteggiamento, niente più «Nuove Zelande». Il pallone, sempre tenuto conto dell'approssimativa interpretazione tattica dell'incontro da parte degli avversari, è proprietà privata dell'undici italiano, che ha piena capacità decisionale sul quando, come e perché alzare od abbassare il ritmo di una partita dominata dagli azzurri.

COSA NON VA - Per mettere a punto una macchina perfetta quale è il Barcellona odierno sono stati necessari anni ed anni di lavoro da parte dei tecnici, ed il concetto di calcio inculcato nella mente dei calciatori è un omogeneizzato somministrato loro non appena mettono piede a La Masía. Provenienti da contesti tattici assai differenti, i componenti della Nazionale italiana non posso che far fatica ad interiorizzare alcuni movimenti richiesti loro da Prandelli: ecco quindi qualche malinteso di troppo. Ma c'è ancora un anno per oliare i meccanismi d'attacco, e la sensazione è che il risultato sarà più che soddisfacente.

TOP&FLOP - Ad oggi, Giuseppe Rossi è il miglior calciatore d'Italia. Reduce da una prelibata stagione con il Villarreal (32 gol totali, 18 nella Liga ed 11 in Europa League oltre ai 3 messi a segno in Coppa del Re) e - stando a quanto riportano i giornali - ormai pronto a spiccare il volo verso Barcellona: Guardiola lo considera la miglior alternativa possibile a Leo Messi. Ad intendersi meravigliosamente con lui è stato Cassano, e non c'è da sorprendersi: parlano la stessa lingua, ovviamente quella del grande calcio, perché a Teaneck e Bari Vecchia l'idioma non è esattamente il medesimo. Ad ispirarli Montolivo, che a ridosso delle punte può liberare l'estro e rinunciare ai ripiegamenti difensivi. Maggio e Balzaretti paiono in possesso di un polmone supplementare, mentre Pazzini torna al gol in azzurro dopo oltre due anni.

CONSIGLI PER IL MISTER - Più complimenti che consigli per Cesare. Perché lasciare che Balotelli si diverta tra Cassano e Rossi è un pensiero stupendo, che potrebbe diventare realtà con il completo recupero di De Rossi: mediano sì, ma con piedi educati, e necessario per supportare quei tre tenori offensive contro avversari ben più temibili della modesta Estonia.

IL FUTURO - Martedì prossimo si conclude la stagione contro l'Irlanda del Trap, con una piacevole sorpresa: Angelo Ogbonna, difensore del Torino, sostituirà l'infortunato Aquilani.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com