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mercoledì 19 settembre 2012

Il calcio con gli occhi a mandorla

 
È obbligatorio citare la seconda regia di Bellocchio, quando il discorso orbita attorno alla Cina? No, ma visti i presupposti - partite truccate, arbitri in manette, ingaggi con troppi zeri e nomi illustri sia in campo che in panchina - pare proprio il caso di farlo: la Cina è vicina. Calcisticamente, almeno.
Un decennio fa, Beppe Materazzi, padre del Marco in gol a Berlino, faceva una capatina presso la Grande Muraglia: la sua missione, allenare il Tianjin Teda. Oggi, anno di - dubbia - gloria calcistica 2012, il canuto C.T. che quel 9 luglio 2006 sbaciucchiava la Coppa del Mondo assieme al più tatuato dei Materazzi si ritrova alla guida del Guangzhou Evergrande. Il motivo? Non uno, ma 10 milioni. Di euro. L'anno. E così, tra brasiliani panciuti e presunti fuoriclasse con gli occhi a mandorla, ecco anche il nostro Marcellone Lippi. Predicatore nel deserto? Be', non esattamente: diciamo che qualche oasi c'è, costata uno sproposito, ma c'è. Darío Conca, 900mila euro al mese per neppure centosettanta centimetri d'altezza ed un sinistro da far girare la testa, incanta le platee in Guangdong e viene quotidianamente rimpianto dai tifosi del Fluminense, con cui nel 2010 ha trionfato nel Brasileirão. Attorno a questa sorgente di limpidissima classe argentina, orbitano compagni che non sfigurerebbero nel Vecchio Continente. La punta Muriqui, brasilianissimo in gol 16 volte nello scorso campionato e destinato a migliorarsi, ha 26 anni ed è tutt'altro che da rottamare. Medesimo passaporto - non tutti i brasiliani d'oriente sono in conflitto con la bilancia - per Cléo, da Guarapuava (Paraná), che sino a un anno fa sgollava e sgomitava in Serbia, tra Stella Rossa e Partizan Belgrado. «Made in China», invece, Zheng Zhi: difensore evolutosi in mediano, numero 10 sulle spalle e fascia di capitano al braccio, ha assaggiato il calcio britannico con le maglie di Charlton Athletic (tre stagioni) e Celtic. L'ultimo acquisto - mentre scrivo - è Lucas Barrios, vagabondo in Sud America, un triennio e due Meisterschale vinte con il Borussia Dortmund, chiuso da Lewandowski, ha deciso di rimpinguare il proprio conto in banca con un'ondata di yen. Inutile girarci attorno, la stragrande maggioranza di questi contratti vengono firmati solo ed esclusivamente perché ad un'occasione economica del genere è impossibile rinunciare, e non ricapiterà di certo. Già, ma chi paga? Xu Jiayin, immobiliarista, bilionario - sì, «bi» - affamato di calcio e di vittorie. Il Guangzhou Evergrande lo finanzia lui, che s'ispira a Roman Abramovich ed ambisce a conquistare la Champions League d'Asia entro il 2015.
Gli yen piovono anche sull'altra sponda di Canton, quella del Guangzhou R&F, che si è appena assicurato Yakubu Aiyegbeni, erculeo centrattacco nigeriano autore di diciotto gol nell'ultima, sfortunata stagione disputata con la maglia del Blackburn, mestamente retrocesso.
Shanghai, affolatissima - 23 milioni di abitanti, la seconda città più popolosa del pianeta arriva terza - metropoli d'oriente, divisa in Pudong a est e Puxi a ovest dal fiume Huangpu, è stata scelta da Didier Drogba come prossima residenza. O, per meglio dire, Zhu Jun, fantastilionario, fondatore della The9 - il cui nome fa riferimento al fatto che i videogiochi siano la nona arte: credo di non dovervi spiegare in quale settore operi - e proprietario dello  Shanghai Shenhua, gli ha fatto un'offerta che l'ivoriano non ha potuto rifiutare. Pur essendo stato il miglior giocatore dell'ultima edizione della Champions League, rocambolescamente vinta con la maglia del Chelsea. Chelsea in cui, sino a gennaio, Drogba condivideva lo spogliatoio con Anelka, trasferitosi in Cina con forse troppo anticipo - va detto, il rapporto con Villas Boas era ormai putrescente - ma di certo economicamente soddisfatto della decisione presa. Ad ispirare questa coppia francofona, ecco Giovani Moreno, colombiano classe '86, fino a ieri numero 10 del Racing Club di Avellaneda. Ah, li allena Sergio Batista, che l'anno scorso spiegava a Messi e connazionali come muoversi in campo, appollaiato sulla panchina dell'Albiceleste.
Se Guangzhou Evergrande e Shanghai Shenhua fanno incetta di strapagati fuoriclasse, le altre componenti della Super League cinese non sono certo da meno. E così, ecco sbarcare in oriente attempati campioni, alla ricerca di un ultimo, remunerativo contratto. Seydou Keita, partito Guardiola, ha salutato il Barça ed il tiqui-taca, con cui aveva sensibilmente ingrassato il proprio palmarès, per andare ad ingrassare il portafogli nel Liaoning, lautamente stipendiato dal Dalian Aerbin. Ha invece scelto il Beijing Guoan, la squadra della capitale, Frédéric Kanouté, dopo aver concluso la propria, indimenticabile esperienza a Siviglia. Un altro calciatore africano, Christopher Katongo, milita invece nell'Henan Construction dal luglio 2011. «E chi sarebbe?», si domanderà qualcuno: «Il miglior giocatore dell'ultima Coppa d'Africa», rispondono gli almanacchi. Altro nome che, ai più, potrebbe non dir molto, è quello di Joffre Guerrón. Esterno ecuadoriano, sfavillante in Coppa Libertadores nel 2008, stella più brillante del torneo, vinto con la LDU di Quito in finale contro il Fluminense di Conca. E Thiago Silva, e Washington, e Thiago Neves... Classe 1985, si accasa anch'egli al Beijing Guoan, e chissà quanti cross sfornerà per il capoccione di Kanouté. Merita infine una citazione Fábio Rochemback, volante a proprio agio in Europa per quasi un decennio, con Barcellona, Sporting Lisbona e Middlesbrough, oggi in forza al Dalian Aerbin.
Enumerate le virtù tecniche del campionato con gli occhi a mandorla, e ribadito come motivazioni e condizione atletica potrebbero scarseggiare, è giunto il momento di illustrarvi le altre similitudini che accomunano il calcio cinese a quello occidentale. Sì, perché piaghe purulente come Calciopoli e le scommesse non sono toccate esclusivamente alla Serie A.
In manette, di recente, son finiti Xie Yalong e Nan Yong, suo predecessore a capo del centro amministrativo dell'associazione calcistica cinese: dieci anni (e mezzo) a testa, per aver accettato tangenti per centinaia di migliaia di dollari. In gattabuia anche diversi calciatori, quattro dei quali vantano anche un bel gruzzolo di presenze in nazionale: Shen Si, Qi Hong, Jiang Jin e Li Ming, quest'ultimo solo omonimo del recordman di presenze con la Cina (141, per l'altro Li Ming). Stessa sorte anche per quattro arbitri, e qui spicca il nome di Lu Jun, chiamato a fischiare in Corea e Giappone nel 2002, oltre che all'Olimpiade australiana d'inizio millennio. Sì, la Cina s'è avvicinata. Forse, un po' troppo.

TSU CHU, L'ANTENATO CINESE DEL CALCIO

Che il calcio, così come lo pratichiamo - e amiamo - oggi, sia nato in terra d'Albione, è fuor di discussione. Un lunedì d'ottobre del 1863, il 26 ad esser precisi, si ritrovano alla Freemasons' Tavern, sita in Great Queen Street, a Londra, i rappresentanti di alcune società calcistiche della zona: viene stilata una lista, contenente le prime quattordici regole del nostro adorato gioco. Al signor Francis Maule Campbell, tesoriere della neonata Football Association, nonché rappresentante del Blackheath F.C., la nona, la decima e pure la quattordicesima non garbano: fortuna!, nel 1871 il suo Blackheath  darà vita alla Rugby Football Union, assieme ad altri venti club, regalandoci un meraviglioso sport.
L'idea di sollazzarsi con la sfera, però, non è certo così recente. Nella lussureggiante Firenze dei Medici, piazza Santa Croce fungeva da «teatro del Calcio»: era questo il primo «capitolo» del regolamento del calcio fiorentino, redatto da Giovanni Bardi nel 1580 e composto di 33 articoli. Ventisette uomini per parte: quindici corridori suddivisi in tre quadriglie, cinque sconciatori e sette datori, quattro dei quali «innanzi» ed i restanti tre «addietro». L'obiettivo, era quello di depositare il pallone nella rete posta a fondo campo, segnando la cosiddetta «caccia». Sempre nella penisola italica, l'harpastum spopolava un paio di millenni fa. Il nome altro non è che la latinizzazione del termine greco ἁρπαστόν (harpaston), il cui significato è all'incirca quello di «strappar via»: somigliava più al rugby che al calcio, a giudicare dalle poche testimonianze, ed era evidentemente ispirato all'ellenico episkyros, che si giocava in dodici contro dodici (o 14 contro 14) ed aveva come obiettivo quello di fare meta, o l'equivalente dell'epoca.
Dopo aver passato in rassegna gli antenati europei del nostro calcio, ecco che spuntan fuori i cinesi. Che con la palla s'iniziarono a dilettare - sembra - un tremila anni fa circa. L'invenzione viene attribuita a Huang Di, il celebre «Imperatore Giallo», ma di leggende sul suo conto ce ne son più di troppe, e allora ecco il nome del gioco: tsu chu, con il primo termine che sta a significare «colpire con il piede» ed il secondo che designa la sfera, rigonfia d'aria o di piume. Di certo praticato durante gli anni contrassegnati dalla dinastia Han, cioè dal 206 avanti Cristo in poi, il gioco, originariamente praticato dai soldati per migliorare le proprie doti atletiche, si diffuse tra i civili, donne comprese. Con la dinastia Song, regnante in Cina dal 960 al 1279, ecco il professionismo: il tsu chu aveva contagiato la popolazione, dall'imperatore al servo, ed era possibile vivere di ciò. Competitivi anzichenò, i nostri amici cinesi esportarono il tsu chu nelle regioni adiacenti: in Giappone, ma anche in Vietnam e Corea. I nipponici, che lo ribattezzarono «kemari» furono anche protagonisti di avvincenti incontri con i cinesi. Chissà, forse anche loro - come gli inglesi un bel po' di lustri più tardi - sfoggiavano l'epiteto di «maestri».

Antonio Giusto
 
Fonte: Calcio 2000

sabato 16 giugno 2012

Gli altri mister: tra sconosciuti e mostri sacri


Dopo aver mancato la qualificazione all'Europeo austrosvizzero, Oleh Blochin aveva rassegnato le dimissioni. Un salto a Mosca, sulla panchina dell'FK, ed il ritorno alla guida dell'Ucraina: il C.T. dell'unica squadra debuttante sarà lui. L'altra padrona di casa, la Polonia, punta sull'esperienza di Franciszek Smuda. Gavetta in Germania e Turchia, testato su praticamente ogni panchina polacca, prima volta con una Nazionale. Dick Advocaat, invece, è a quota cinque: Olanda, Emirati Arabi Uniti, Corea del Sud, Belgio e - oggi - Russia. Il «nonno» della panchina è il nostro Trap, di cui parliamo altrove, con 73 primavere alle spalle, cui fanno da contraltare i 43 anni che Paulo Bento (C.T. del Portogallo) compirà il 20 giugno, nel bel mezzo della manifestazione. In entrambi i casi, rischio derby: sulla panchina della Grecia siede Fernando Santos, portoghese, mentre la sfida tutta italiana tra Prandelli ed il suo ex allenatore Trapattoni (Juventus, erano gli anni ottanta) è già stata decisa dall'urna, il 18 giugno. Vicente del Bosque e Bert van Marwijk sono reduci dalla finalissima sudafricana, che solo un'incornata di Puyol negò a Joachim Löw: su loro tre c'è poco da scrivere. Tutti da scoprire invece Michal Bílek ed Erik Hamrén. L'ultimo risultato ottenuto dal cittì ceco sulla panchina di un club è il quinto posto nella Superliga slovacca '08-09 con il Ružomberok, mentre Hamrén è reduce da tre campionati vinti consecutivamente: uno con l'Aalborg (2008) e due con il Rosenborg ('09 e '10). Storie tese tra Laurent Blanc e Slaven Bilić: Francia '98, in semifinale i Bleus fanno fuori la Croazia con una doppietta di Thuram, ma un fallo di Blanc su Bilić costa al transalpino il rosso e - di conseguenza - la finalissima. Per un chiarimento ci son voluti 13 anni: un'amichevole (terminata 0-0) a fine marzo, pace fatta. Infine, Stuart Pearce: mentre scrivo, è lui il titolare della panchina inglese. Ma c'è Harry Redknapp in agguato.

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

mercoledì 16 maggio 2012

Auguri Paròn


 

Con un poetico intruglio di italiano e triestino, ecco che il Paròn ci avrebbe lasciati di stucco, commentando in chissà quale maniera le cento candeline schierate su una torta che - il 20 di maggio - non potrà gustare. Perché un secolo fa, il 20 maggio 1912, a Trieste nasceva Nereo Rocco. Nipote di Ludwig, cambiavalute viennese emigrato in Italia per amore di una cavallerizza spagnola, e figlio del macellaio Giusto, Nereo fa di cognome Rock sino al '25. Quando, divenuta obbligatoria la tessera del fascio per rifornire di carne le navi del porto, un distratto impiegato dell'anagrafe lo tramuta in Rocco, anziché in Rocchi, come invece avrebbe dovuto. 

IL PICCOLO NEREO
Al calcio Nereo si appassiona, infante, per questioni geografiche: trasferitosi in Rione del Re dopo essere venuto alla luce a San Giacomo, casa sua dista da al campo di Montebello - dove gioca la Triestina - appena qualche centinaio di metri. Discreta mezzala, entra nelle giovanili dell'Unione grazie all'insistenza di Piero Pasinati, campione del mondo nel '38, nato nello stesso condominio di Rocco un paio d'anni prima. Esordisce in A diciassettenne, matura nella sua Trieste e prova anche l'ebbrezza dell'azzurro. Doppio. Vittorio Pozzo, commissario tecnico di un'Italia che pochi mesi più tardi avrebbe vinto il primo titolo mondiale della sua storia, gli offre un'occasione: contro la Grecia, il 25 marzo 1934 in quel di Milano, Rocco gioca appena 45 minuti, prima di venir sostituito da Giovanni Ferrari all'intervallo.

ROCCO AZZURRO
L'altro azzurro è quello del Napoli. Per assicurarselo, Achille Lauro, il «Comandante» appena insediatosi alla presidenza, scuce 160 mila lire, facendo della ventinovenne mezzala sinistra triestina il calciatore più pagato del mercato partenopeo. Alle pendici del Vesuvio trascorre un positivo triennio, quindi accetta l'offerta del Padova, in Serie B. In panchina trova József Bánás, che ha trascorso gli ultimi tre campionati alla guida del Milan(o, denominazione assunta nel febbraio '39 e mantenuta sino al termine della guerra), e - con Bortoletti, già compagno di squadra a Trieste che da Bánás era stato allenato a Milano - gli fa una proposta indecente: un uomo in più in difesa, il terzino Ubaldo Passalacqua. E Rocco, mezzala, s'inventa mediano, per consentire al mediano di rimpiazzare Passalacqua, ormai battitore libero.

MISTER ROCCO
Quello che sta diventando «el Paròn» pensa ormai da allenatore e, tornato nell'amata Trieste, mette in pratica le proprie idee, come allenatore-giocatore del Circolo Sportivo Cacciatore prima e della Libertas Trieste poi, nel ruolo di libero. A 33 anni appende definitivamente gli scarponi - perché tali erano all'epoca - al chiodo, pochi mesi più tardi rimpiazza Mario Varglien alla guida della Triestina, ultimissima nel 1946-47 e ripescata d'ufficio «per motivi patriottici»: un bella gatta da pelare, a cui si aggiunge il fatto che per i primi due mesi Rocco non percepisce neppure una lira. Il Paròn si rimbocca le maniche, e conduce la squadra al secondo posto (49 punti, come il Milan e la Juventus) alle spalle del Grande Torino, che quell'anno segna 125 gol e totalizza 39 punti dei 40 disponibili in casa, frutto di 19 vittorie ed un solo pareggio al Filadelfia. Essendo il calcio uno dei migliori per dimenticarsi di una maledetta guerra, in città non si parla d'altro, e Rocco viene addirittura eletto consigliere comunale nelle liste della D.C.!

ROCCO PADOVANO
L'idillio dura un paio di stagioni, poi l'addio. Il Paròn, che poi vuol dir «padrone», giura di non voler più allenare, scottato dalla burrascosa vicenda. Ci ripensa quando il Treviso, neopromosso in B, gli offre la panchina, su cui trascorre tre campionati, prima di far ritorno a  Trieste: pochi mesi, prima che un poker di Gunnar Nordahl (Triestina-Milan 0-6, 21 febbraio 1954) lo condanni all'esonero. Ecco però Bruno Pollazzi, commerciante d'automobili nonché presidente del Padova, il quale lo riporta dove aveva concluso la carriera. Con risultati sfavillanti: Rocco pesca i biancoscudati nei bassifondi della cadetteria, li salva e nella stagione seguente li conduce alla promozione. In otto anni a Padova, Rocco diventa un'istituzione: Scagnellato, Blason, Azzini e Moro sono i mattoni di un invalicabile muro difensivo, mentre Kurt Hamrin, l'«Uccellino», viene svezzato in quel 1957-1958 che vede il Padova piazzarsi terzo, alle spalle di Fiorentina e Juventus (per i bianconeri, è lo scudetto della prima stella).

LA POESIA DI NEREO
Ma non c'è solo il calcio per il burbero Rocco, che appare tale pur senza esserlo in realtà, la sua vita s'interseca infatti anche con l'arte: cinema e poesia, cronologicamente invertiti, oltre alle - incredibile a dirsi - lezioni di piano impostegli dal babbo, che per lui sognava un futuro da concertista. Anzitutto, la lirica: domenica 15 ottobre 1933 l'Ambrosiana-Inter è di scena a Trieste, Meazza sbaglia un rigore, Rocco bisticcia col mediano nerazzurro Alfredo Pitto e la partita finisce zero a zero. A far notizia non è l'errore del Peppino, che pure è rigorista infallibile, bensì un'inconsueta presenza sugli spalti: Umberto Saba, lì per caso, grazie ad un biglietto cedutogli da un amico impossibilitato a recarsi allo stadio. «Tre momenti», una delle «Cinque poesie per il gioco del calcio», nasce quel giorno, ed il quart'ultimo verso - «Nessun'offesa varcava la porta» - è un chiaro riferimento all'occhialuto punteggio. Rocco e Saba, purtroppo, non si parlarono mai, anche se il Paròn ammise di aver incrociato il poeta in più d'una occasione in un caffè cittadino. Con Fellini, che sognava di scritturarlo per «Amarcord», ci fu invece un gustoso pranzo in un ristorante bolognese, a base di tortelli e lambrusco: Rocco, però, fu costretto a declinare l'offerta. Il padre di Titta verrà quindi interpretato da Armando Brancia, mentre il Paròn, come direttore tecnico del Milan, vince Coppa Italia e Coppa delle Coppe.
Questo è stato Nereo Rocco, prima di vincere tutto sulla panchina del Milan. Che è storia nota ben più di quella sin qui narrata, e - mi auguro - per questo meno intrigante. Auguri, Paròn.

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

mercoledì 7 marzo 2012

E se Joan non avesse avuto «le palle»?


E se Joan non avesse avuto «le palle»? Be', credo che la storia più recente del calcio avrebbe ben altra fisionomia. Ma facciamo chiarezza: Joan di cognome fa Laporta, e nel luglio del 2008 riceve Guardiola nel proprio ufficio per discutere di una certa questione. Chiede il presidente: «Dì un po', Pep, te la sentiresti di rimpiazzare Rijkaard?». Risponde Pep: «Io sì, sei tu che non hai le palle per farlo».

Così Josep Guardiola i Sala da Santpedor si ritrova nuovamente alla guida del Barça, non più nel fulcro del gioco e con la fascia al braccio ma seduto in panchina. Vince tutto, e soprattutto subito. Sei-su-sei al primo colpo: campionato, Coppa del Re, Champions League, Supercoppa di Spagna e d'Europa, e pure la Coppa del Mondo per club. «Solo» questo? No, perché Guardiola vince e convince: propone un calcio lussureggiante, ricco di passaggi e movimento, estrema e perfetta sintesi di quanto appreso in carriera. Cruijff e van Gaal, Mazzone e Capello, persino l'amico Juan Manuel Lillo in Messico, l'han guidato in prima persona, mentre lui studiava Menotti, Bielsa e La Volpe.

In numeri, il primo Pep in versione allenatore ci offre un 4-3-3. Orgasmo calcistico. E così arriva, oltre a vittorie e spettacolo, anche la voglia di sperimentare. Il feticcio Busquets, con i suoi piedi malandati, inizia a scalare in difesa per consentire l'avanzata ai terzini: profumo di 3-4-3. Intanto, Eto'o e Messi si scambiano sempre più spesso la posizione: Leo si evolve in centravanti. Ibra stona. Oggi, omaggio al Dream Team: fino ad 8 centrocampisti contemporaneamente in campo e 3-4-3 che diventa una consuetudine. Domanda: Guardiola ha finito di stupire? Risposta: non credo proprio.


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

mercoledì 18 gennaio 2012

Il Grande Torino


"I campioni d'Italia. Bàcigàlupo V., Ball...", legge il mio nipotino Gianpaolo, come ipnotizzato dalla lapide che commemora il Grande Torino, perito a Superga il il 4 maggio del '49.
"Bàcigalùpo, Gianpolo. Si dice Bàcigalùpo."
Il piccolo sta imparando cos'è il Toro. Ed io, nonno dal cuore granata, sto cercando di spiegarglielo, sperando che non abbia preso da sua mamma: figlia unica, come la delusione che mi diede il giorno in cui mi confessò che ne aveva abbastanza del dannato pallone. Fortunatamente, a Gianpaolo il calcio - per ora - piace. È bello grosso per avere otto anni, gioca in difesa e dice d'ispirarsi ad Ogbonna, anche se il sinistro non lo usa neppure per scendere dal letto. Per evitare che segua le orme di sua mamma, che proprio a quell'età mi rivelò che si emozionava leggendo i libri, mica accompagnandomi allo stadio «per vedere ventidue signori che inseguono una palla con i calzoni corti anche a gennaio», ho deciso di portarlo su a Superga per una lezione di storia granata. Abituato com'è alla Serie B, ai valzer di panchine ed alle delusioni, ha il diritto - anzi, il dovere - di conoscere chi ha reso grande il Toro.
"Sta' tranquillo, comunque, il tuo è un errore comune. Anzi, è già tanto che ti sia limitato a sguinzagliare gli accenti: in molti, quel cognome neppure riuscivano a pronunciarlo. Uno su tutti? Vittorio Pozzo, o almeno così sosteneva Bacigalupo, che..."
"Nonno, nonno! Chi era questo Vittorio Pozzo? Un calciatore?"
"Giocò nel Grasshoppers, in Svizzera, ma corse dietro al pallone anche in Francia ed Inghilterra. La storia, però, l'ha fatta sedendo in panchina: è, e probabilmente resterà ancora a lungo, l'unico commissario tecnico capace di vincere due campionati del mondo, nel '34 e nel '38. Ma noi del Toro lo ricordiamo perché, oltre a dir la sua nel momento della fondazione della squadra, indossò la maglia granata per cinque stagioni. Una volta appesi gli scarpini, anche se sarebbe più corretto dire scarponi, al chiodo, fu direttore tecnico dei nostri per dieci anni, dal 1912 al 1922."
"Oh!", esclama sorpreso Gianpaolo. Di trasformare la sua sorpresa in tristezza non ho affatto voglia, quindi glisso sul fatto che l'ultima azione granata di Vittorio Pozzo fu il riconoscimento dei corpi dilaniati dopo lo schianto. Riprendo allora a parlare di Bacigalupo.
"Parlavamo del portierone, no? Che poi portierone non era, perché si era fermato a un metro e settantasei, ma l'agilità gli consentiva di far passare in secondo piano quest'aspetto. Dicevo, il buon 'Baci', ché di solito lo chiamavano così per far più presto, si era convinto che la sua più grande delusione calcistica fosse dovuta proprio alla complessità del suo cognome. L'11 maggio del '47 si gioca Italia-Ungheria, ed in campo scendono dieci calciatori del Torino ed uno - il portiere Lucidio Sentimenti - della Juventus: Baci sosteneva che Pozzo fosse entrato in campo poco prima del calcio d'inizio per richiamare Sentimenti IV (aveva altri quattro fratelli, tutti divenuti calciatori in A) e schierare lui in porta, ma dopo un paio di tentativi andati a vuoto di pronunciarne il cognome, aveva optato per la conferma di Sentimenti."
"Dieci giocatori del Toro! Accidenti, oggi c'è solo Ogbonna..."
Ogbonna, che pure ha un radioso futuro davanti, speriamo con la maglia granata ed in Serie A, è il suo idolo, l'ho già detto. Quindi, meglio evitare infelici confronti e proseguire nella narrazione.
"Sì, dieci. E nell'Ungheria, quel giorno, ce n'erano nove dell'Újpest di Budapest. Ma un 'estraneo', Puskás, che gioca nell'Honvéd e diventerà leggenda con l'Aranycsapat ed il Real Madrid..."
"Aranycosa?"
"Aranycsapat, la 'Squadra d'oro' ungherese. Magari questa storia te la racconto un'altra volta. Dicevo, Puskás pareggia su rigore al 76', segnando l'ottavo gol nelle sue prime sette partite con l'Ungheria, ma soprattutto incrocia Valentino Mazzola. Quasi vent'anni più tardi, sconfitto in finale di Coppa dei Campioni da una doppietta di Sandro, figlio di Valentino, gli farà dono della sua maglia, accompagnandola con le parole: 'Tienila, perché sei degno di tuo padre'".
"Sandro Mazzola, il signore della tivù?"
"Sì, Sandro Mazzola, il signore della tivù che ha giocato 565 partite e segnato 160 gol con l'Inter, e vinto quattro scudetti, due Coppe dei Campioni ed altrettante Coppe Intercontinentali indossando sempre e solo la maglia nerazzurra. Suo padre ne sarebbe stato orgoglioso."
"Ma suo papà era più forte, vero?"
"Gianpaolo, noi siamo del Toro. Per noi Valentino Mazzola è stato il Capitano, con la 'c' maiuscola, per noi Valentino Mazzola è stato più grande di Pelé e Maradona, di Cruijff e Di Stefano."
"Stefano?"
"Alfredo Di Stefano, un fuoriclasse argentino. Duettava con Puskás nel Real Madrid che negli anni cinquanta vinse cinque Coppe dei Campioni di fila. Dicono sia stato il primo centrocampista universale, ma tu non dargli retta: è una bugia, il primo fu il grande Valentino."
Gianpaolo annuisce, con sguardo serio: non ha mai visto un singolo fotogramma di quest'uomo di cui gli parlo, eppure ne ha intuito l'indiscussa grandezza. Proseguo: "Sai, avevo la tua età quando Mazzola fu acquistato dal Torino. Eravamo nel '41-42, in quella stagione arrivammo secondi sia in campionato che in Coppa Italia per colpa del Venezia. In quella squadra giocava, oltre a Valentino, Ezio Loik: mezzala di Fiume, diede un sensibile contributo alla maiuscolizzazione dell'aggettivo 'grande' che accompagnerà per sempre il loro Torino. Questi due, giocatori da sogno, erano però destinati alla Juventus, pensa un po'. Succede però che, nel maggio 1942, il Toro va al 'Penzo' di Venezia e si porta in vantaggio con Petron, poi i padroni di casa ribaltano il risultato, ispirati dal favoloso duo di mezzali: Ferruccio Novo, il nostro presidente, ricco grazie al cuoio e con un passato da mediocre difensore nelle giovanili granata, fa irruzione negli spogliatoi e stacca un assegno da 1 milione e 200 mila lire. Più Petron e Mezzadri: Mazzola e Loik, strappati ai cuginastri, vestiranno granata. Ecco anche Grezar, dalla Triestina, ma l'avvio è balbettante, con due sconfitte, a Milano con l'Inter ed in casa col Livorno. Alla terza giornata, però, ecco il derby: vinciamo 5-2, Loik e Mazzola firmano rispettivamente il quarto ed il quinto gol. È la svolta. Trionferemo in campionato, superando il Livorno di un punto, ed in Coppa Italia, con un perentorio 4-0 sul Venezia orfano dei suoi gioielli. Siamo i primi a fare doppietta, e - ti giuro - ci fosse stata anche la Coppa Campioni non si sarebbe dovuto aspettare il 2010 per vedere un'italiana trionfare su tre fronti nella stessa stagione."
"Etciù!", m'interrompe Gianpaolo con un poderoso starnuto. Io sorrido, e cerco di dribblare la guerra, perché lui, che ha la fortuna di non viverla in prima persona com'è capitato a me, non deve angosciarsi per colpa dei miei racconti. Quindi, largo al Toro: "Nel '45, finita la seconda guerra mondiale, il calcio si propone come antidoto per la depressione. Un popolo intero, messo in ginocchio, cerca di rialzarsi aggrappandosi alle imprese del Torino, che trionfa nell'arzigogolata Divisione Nazionale grazie anche a tre nuovi innesti: Bacigalupo, di cui hai da poco appreso la pronuncia, il terzino Ballarin e Castigliano, che pur essendo un mediano segna 13 gol in 14 partite nel girone finale che assegna lo scudetto."
"Come..." fa Gianpaolo, ed io lo interrompo prontamente: "Come nessun giocatore che tu abbia mai visto in campo all'Olimpico". Ed incomincio a raccontargli del '46-47: "Anche stavolta, partiamo maluccio, con cinque punti in cinque partite. Poi, sul finire d'ottobre, ci svegliamo a Roma: vinciamo 3-1 contro i giallorossi, e poi infiliamo nove successi ed un pareggio nelle successive dieci partite. Dieci, come i punti di distacco rifilati alla Juve." E guardo gli angoli della bocca del mio nipotino abbassarsi inesorabilmente. So cosa pensa: lui, che per questioni anagrafiche non è riuscito a godersi neppure la stagione in cui in A c'eravamo noi e la Juve soffriva tra Rimini e Frosinone, 10 punti di vantaggio sui bianconeri non li ha mai avuti.
Per risollveargli il morale, snocciolo un po' di cifre, le uniche che conosco a memoria oltre al mio numero di telefono: "65 punti, 125 gol fatti, 39 punti su 40 al Filadelfia, frutto di 19 vittorie in 20 partite, tra cui un memorabile 10-0 rifilato all'Alessandria. Questa è la storia del quarto scudetto, vinto con cinque giornate d'anticipo: devo aggiungere altro?" Gianpaolo fa segno di no con la testa.
"Il campionato successivo, quello del 1948-49, è l'ultimo del Grande Torino. Che si congeda dalla Serie A pareggiando 0-0 sul campo dell'Inter, dove c'ero anch'io per la mia prima trasferta. Quell'Inter, diretta concorrente per il titolo, era staccata di quattro punti: se fossero usciti imbattuti da San Siro, il presidente Novo avrebbe concesso ai nostri una trasferta a Lisbona, per giocare contro il Benfica di Xico Ferreira, amico di Mazzola. Non torneranno mai più." Una lacrima riga il volto di mio nipote.



IL GRANDE TORINO: UN SISTEMA INFALLIBILE
Il Grande Torino giocava benissimo, questo è assodato. Ma come giocava? Numericamente, si potrebbe parlare di un 3-4-3, anzi - a voler essere precisi - di un 3-2-2-3: il centrocampo, anziché in linea come ai giorni nostri, presentava una quadrilatero composto da due mediani (a protezione delle difesa) ed altrettante mezze ali, deputate all'ispirazione degli attaccanti. Questo particolare modulo di gioco, in Italia conosciuto con il nome di sistema, fu ideato dall'allenatore inglese Herbert Chapman, geniale nell'arretrare il centromediano sulla linea dei terzini - dando così vita allo stopper - in risposta alla modifica della regola del fuorigioco da parte dell'International Football Association Board. L'Arsenal di Chapman, utilizzando il WM (dalla disposizione dei calciatori in campo, che ricorda una W sovrapposta ad una M) conquista trofei d'ogni sorta, e ciò convince l'attaccante Felice Borel - appena giunto dalla Juventus, cui tornerà al termine del campionato - e l'allenatore András Kuttik a proporne l'attuazione al presidente Novo, che approva. E i risultati gli danno ragione, perché il Torino si guadagna sul campo l'epiteto di "Grande". Il sistema granata, però, è assai meno rigido di quanto si possa credere, dato che la levatura degli interpreti consente di sperimentare varie soluzioni: ad esempio, spesso capita - in fase di non possesso - di vedere il mediano Grezar scalare in difesa al fianco di Rigamonti, con Ballarin e Maroso sulle corsie esterne, per comporre una innovativa linea a quattro. Ciò, ovviamente, comporta la perdita di un uomo a centrocampo, cui l'ala sinistra Pietro Ferraris sopperisce arretrando in mediana. Quel Torino fu tanto grande quanto innovativo.



IL RICORDO DI ZACCARELLI
Sentir parlare del Grande Torino da chi il Torino l'ha fatto grande per ultima volta, vincendo lo scudetto nel 1976, era doveroso. La chiacchierata con Renato Zaccarelli (28 presenze e 4 gol in quel campionato) è stata quindi occasione per scoprire l'impatto col mondo del Toro di un ragazzo nato ad Ancona, transitato per Catania e torinesizzatosi nel vivaio granata: giunto all'ombra della Mole vent'anni dopo la tragedia di Superga, Zaccarelli racconta che «per apprendere cosa fosse stato il Grande Torino non bastava certo un giorno. Io fui agevolato, perché facendo parte delle giovanili ebbi la fortuna di allenarmi al Filadelfia, ma per comprendere pienamente cos'avesse rappresentato quella squadra per il calcio ed il Paese mi furono necessari anni di vita granata». Di cui il giorno più bello - sono pronto a metterci la mano sul fuoco - fu il 16 maggio '76: Torino-Cesena termina 1-1, i granata tornano a vincere lo scudetto ventisette anni dopo l'orribile schianto. Per Zaccarelli si trattò, oltre che «di una grandissima emozione: passare dal settore giovanile alla vittoria del campionato con indosso la stessa maglia è meraviglioso» anche di «una vittoria dello sport, perché il ritorno al successo del Toro dopo la tragedia fu motivo di gioia anche per chi non faceva il tifo per i granata».


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

domenica 18 dicembre 2011

11 leoni


Per chi si cimenta nella lettura di queste righe, l'11 novembre 2011 non è che un ricordo. Passato prossimo, magari fuggito via senza neppure dare un'occhiata al calendario, o più semplicemente ad un display, sul quale si sarebbe letto «11/11/11». Se a qualcuno è capitato, può darsi che si sia perso in quella marea di «1» in fila per due, e se quel qualcuno è un calciofilo - come il sottoscritto - di certo un pensierino al suo «11» preferito l'avrà fatto. Segue una rassegna di «undici 11», selezionati non per meritocrazia ma perché degni d'essere raccontati.

Gigi Riva
«Rocco Sabato! Chi era costui?», avrebbe ruminato in poltrona Don Abbondio, se Manzoni fosse stato un nostro contemporaneo ed il prete in questione appassionato di calcio. Perché Rocco Sabato, onesto difensore oggi in forza al Sorrento, è stato l'ultimo calciatore del Cagliari ad avere l'onore d'indossare la maglia numero 11, quella che appartenne a «Giggirriva». Inspiegabilmente - perché la sua patria è la Sardegna - nato a Leggiuno, in Lombardia, la morte del padre Ugo lo porta in collegio: Varese, Viggù, persino Milano, ma lui non fa che scappare. Insegue qualcosa, ma cosa? La libertà, la libertà di far gol. La trova al Legnano, in Serie C, diciottenne: segna 6 gol, cui ne aggiunge 207 con la maglia del Cagliari. In azzurro, 35 marcature, due tibie ed un perone rotti. Evidentemente, l'unico numero mai avuto in comune con Rocco Sabato è stato l'11 della maglia.

Mágico González
«Più grande di Maradona», secondo Diego Armando Maradona. Che però diceva lo stesso dello sciagurato fratello Hugo. Miglior calciatore salvadoregno di ogni epoca. Nonostante sia ancora vivo e vegeto, l'«Estadio Nacional de la Flor Blanca» di San Salvador porta il suo nome. Ecco, Jorge Alberto González Barillas, «el Mago» a casa sua, «Mágico» al di qua dell'Atlantico, è questo. E molto, molto di più. In campo dispensa tunnel, rabone e colpi di tacco, fuori si rivela discreto tombeur de femmes. A Cadice, dove dispensa classe e mattane, è considerato una leggenda. Perché? Un paio di flash: Trofeo Ramón de Carranza, anni 80, il Barcellona vince 1-0 e di González non c'è traccia. Si palesa negli spogliatoi - visibilmente assonnato - all'intervallo, entra in campo e, con due gol e altrettanti assist, ribalta il risultato. Poi - siamo nel 1984 - il Barça lo porta in tournée negli Stati Uniti dopo la retrocessione del Cadice, ma nell'hotel californiano in cui alloggia la squadra scoppia un incendio. Maradona dà l'allarme, tutti fuori! Tranne uno: Mágico González, rimasto in camera. Ovviamente, in dolce compagnia.

Pavel Nedvěd
Un mistero biondo. Calcio e scienza difficilmente riusciranno a spiegare Pavel Nedvěd da Cheb, in riva al fiume Ohře. Non ha mai vinto la Coppa dei Campioni, eppure il suo palmarès trabocca di riconoscimenti, anche individuali (leggi: Pallone d'oro 2003): tanto basta per turbare i sonni dei più accaniti calciofili. La medicina, invece, ha secondo me indagato in maniera troppo poco approfondita sulle sue doti atletiche: personalmente, sospetto che Nedvěd possieda almeno un polmone supplementare, ed anni e anni di sgroppate sulla fascia non fanno che avvalorare la mia tesi. Ora occorre però tornare seri, per celebrare la grandezza di questo fuoriclasse, sceso persino in B per amore della Juventus, il cui sogno ricorrente ha e temo continuerà - purtroppo - ad avere delle grandi, grandissime orecchie ed un colorito argenteo.

Canhoteiro
Presente Garrincha? Bene. Ora immaginatevelo mancino, all'ala sinistra, con l'11 sulle spalle - ovvio, altrimenti non sarebbe menzionato - e le gambe di uguale lunghezza. Da Coroatá, stato del Maranhão, Nordeste, José Ribamar de Oliveira regala dribbling ed emozioni ai tifosi del San Paolo per 10 anni e 415 partite, cui 103 gol fanno da contorno. Idolo di un Pelé infante, non poté condividere con il celeberrimo ammiratore la gioia del trionfo in Coppa del Mondo nel 1958 perché scavalcato da Pepe e Zagallo, tatticamente più avveduto, nelle gerarchie del C.T. Vicente Feola. Muore, neppure quarantuaduenne, a San Paolo, il 16 agosto 1974. Come Garrincha, ma all'ala sinistra, e mai con la stessa maglia: neppure la Seleção ebbe mai l'onore di schierarli contemporaneamente sulle fasce.

Preben Elkjær
«Cavallo pazzo». Perché corre, all'ala sinistra e pure in macchina. Atterrisce Briegel sfrecciando in pieno centro a Verona, replica il 14 ottobre 1984 traumatizzando Pioli e Favero: quinta giornata del campionato che vedrà gli scaligeri trionfare, Preben s'invola sulla fascia e li fa secchi entrambi, rientra sul destro ed infila Tacconi. Con morbidezza: il cuoio viene baciato dal piede nudo di Elkjær, rimasto privo dello scarpino nel contrasto con Pioli. Uno scalmanato, dentro e fuori dal campo. Come potrebbe testimoniare il suo ex allenatore Hennes Weisweiler, se la morte non l'avesse privato del fiato: anni 70 agli sgoccioli, il Colonia acquista il danese dal Vanløse e lui dà un contributo marginale alla doppietta (Campionato e Coppa di Germania) del '78, ma un suo dialogo con Weisweiler va necessariamente riportato. All'allenatore giunge voce che Elkjær abbia trascorso la notte in un night, in compagnia di una donna ed una bottiglia di whiskey. «È così, Preben?», chiede Weisweiler. «Assolutamente no: la boccia conteneva vodka, e le donne erano due», è la serafica replica Elkjær.

Siniša Mihajlović
Il numero 11, per Siniša ed il suo ammaliante piede sinistro, divenne ben presto il retaggio di un dolce passato. In Jugoslavia, vestito di bianco e rosso (Vojvodina prima, Stella Rossa poi) quel numero l'accompagnava sulla fascia sinistra. Sedotto dalla Serie A, si ritrova a proteggere la difesa sotto gli ordini di Mazzone, e Boškov lo schiera addirittura terzino sinistro. Un destino calcisticamente benevolo si ricorda del figlio di Borovo Naselje, quando Eriksson lo inventa difensore centrale: Franceschetti è stato espulso in Coppitalia, e Siniša ha l'occasione di far valere le proprie doti in quest'inedito ruolo. Che non abbandonerà più. Nonostante la nuova collocazione tattica, però, Mihajlović non perde il vizio del gol: con la Lazio, alla prima da ex contro la Sampdoria, segna tre-gol-tre su calcio di punizione, la sua specialità. Alcuni ricercatori del Dipartimento di Fisica dell'Università di Belgrado si prendono la briga di esaminare il fenomeno, giungendo alla conclusione che il sinistro di Siniša raggiunge i 165 km/h. Come ci riesce? Be', non crederete mica che siano riusciti a scoprirlo.

Marc Overmars
Al cuor non si comanda. Non è così, Marc? Raccontarne i cross, gli infortuni e i dribbling sarebbe scontato, oltre che troppo semplice. Il ritorno in pista di un trentacinquenne Marc Overmars, tornato ad indossare la maglia del Go Ahead Eagles dopo un quadriennio di inattività per amore del gioco e della squadra, si merita invece ben più di qualche goccia d'inchiostro. Eccoci quindi proiettati nel passato: Amsterdam Arena, 26 luglio 2008, Jaap Stam conclude la propria carriera con la più classica delle partite a base di baci e abbracci. Però Overmars, che s'allena una volta a settimana con l'ex compagno Paul Bosvelt (Feyenoord e Manchester City nel suo passato), la prende più sul serio del previsto, e manda in bambola Ogăraru, ai tempi terzino dell'Ajax. Il mattino dopo squilla il telefono: ci torneresti a Deventer? Ma certo! Al cuor non si comanda.

Romário
Mille? Sì. No. Chissà. La matematica non è mai stata il mio forte, quindi le discussioni sui gol effettivamente segnati dal Baixinho le lascio agli appassionati di statistiche. L'unico numero che effettivamente m'interessa - indovinate un po' - è l'11. Che, in onore di Romário de Souza Faria, è stato ritirato dal Vasco da Gama, la società che l'ha visto nascere e morire in senso puramente calcistico. Al popolo vascaíno ha regalato magie ed emozioni, ad intervalli regolari - relativamente alla controversa carriera del personaggio - con tre ritorni alla casa madre, dopo aver consumato le reti d'Europa in Olanda (PSV Eindhoven) e Spagna (Barcellona e Valencia) e, mai sazio di gol, dato un assaggino finanche a quelle qatariote (Al-Sadd), statunitensi (Miami FC) ed australiane (Adelaide United). Sempre, o quasi, con l'11 stampato sulla maglia ed il piede - così come, spesso, anche la testa - più che caldo, incandescente.

Francisco Gento
Indossò il numero 11. Forse. Perché alla velocità con cui sfrecciava sulla fascia sinistra era pressoché impossibile leggere il numero scritto sulla sua maglia. Di color bianco Real Madrid, per 428 volte in diciott'anni. Volati via, come una galerna. Cos'è una galerna? Una tempesta che si abbatte, in primavera ed autunno, sulle coste della Cantabria. Chi è «la Galerna del Cantábrico», inteso come mar Cantábrico? Paco Gento, da Guarnizo, 9 chilometri da Santander. Lì semina i primi terzini, poi lo recluta il Madrid. Con le «Merengues», Gento disputa 9 finali europee, otto delle quali in Coppa dei Campioni, salotto buonissimo del calcio europeo che frequenta per quindici anni consecutive. Di queste otto finali, record condiviso con Paolo Maldini, ne vince sei: cinque filate, più quella del '66, da capitano del Real Madrid «Yé-yé».

Ryan Giggs
Undici. 11, uno-uno. Un nome, una squadra. Be', non proprio. Perché, sino ai quattordici anni, Ryan Joseph da Pentrebane (distretto situato nella parte occidentale di Cardiff) faceva di cognome Wilson e giocava nel Manchester City. Elencarne i trofei o i recenti scandali sarebbe troppo banale, meglio quindi approfondire il discorso sull'infanzia di Giggs. Che, venuto alla luce al St. David's Hospital di Cardiff, fu costretto a trasferirsi a Salford (contea del Greater Manchester) dal passaggio del padre Danny - cognome: Wilson, ruolo: mediano... d'apertura, 5 caps con il Galles - agli Swinton Lions. Primi calci nei Deans, allenati da uno scout del City, che fiuta l'occasione e recluta l'imberbe Ryan. Accade però che, il 29 novembre 1987, giorno del suo quattordicesimo compleanno, Alex Ferguson piomba a casa sua: l'offerta è di quelle che non si possono rifiutare. Il resto è storia.

Mario Corso
Mario Corso risponde al telefono, ed io mi presento: «Sono Antonio Giusto, e, per conto di Calcio 2000, sto scrivendo un articolo sui più grandi numeri 11 che noi appassionati di calcio abbiamo avuto la fortuna di ammirare...». Lui m'interrompe: «Ah sì? Ed io cosa c'entro?». Tanto grande quanto modesto, Mariolino. Poi, si parte con l'intervista.

Iniziamo con due parole su Skoglund e Rummenigge, grandi numeri 11 con cui lei ebbe a che fare in nerazzurro: compagno di squadra ed erede di «Nacka», fu allenatore di Kalle nel 1986.
«Skoglund fu un fantasista eccezionale, tra i più grandi del suo tempo. Rummenigge era una macchina da gol, avrebbe fatto comodo a qualsiasi squadra».

Dica, è vero che «Nacka» lanciava in aria una monetina, la colpiva col tacco e questa terminava la propria parabola nel taschino della sua giacca?
«Verissimo: gliel'ho visto fare, ed in più di una occasione».

Ora, veniamo a lei. Come nacque la celeberrima «foglia morta»?
«Da ragazzo, quando giocavo nel San Michele, c'era Nereo Marini ad allenarmi: aveva intuito le mie potenzialità, e così, al termine di ogni seduta, trascorrevo un'oretta in più sul campo per migliorare in questo fondamentale. Avevo un buon piede, ma ho anche lavorato moltissimo per conseguire tali risultati».

Restando in tema di foglie morte: 7 marzo 1971, Inter-Milan 2 a 0. Lei segna il secondo gol, ovviamente su calcio di punizione, e lo scudetto inizia a colorarsi di nerazzurro, dopo che il Milan era arrivato ad avere anche 7 punti di vantaggio in classifica. Questa la sua punizione-gol più importante?
«A pari merito con quella segnata nel ritorno della semifinale di Coppa dei Campioni del '65, contro il Liverpool. Dopo il 3-1 subito ad Anfield, nella partita di ritorno vincemmo 3-0: io aprii le marcature dopo 8 minuti».

Il gol che ricorda con maggiore affetto, però, presumo sia quello segnato contro l'Independiente nello spareggio dell'Intercontinentale '64. Sbaglio?
«No, non sbagli. A quel tempo, la Coppa Intercontinentale era un trofeo prestigiosissimo, e segnare il gol decisivo in finale era un evento di cui andar fieri».


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

sabato 18 giugno 2011

Emigranti (più o meno) di successo


Mario Balotelli è certamente il più famoso, controverso, pagato e multato tra gli emigranti italiani del pallone. Di lui, per una ragione o per l'altra, si parla in continuazione. Un giorno segna la prima tripletta della carriera contro l'Aston Villa, quello dopo anziché mirare al «triplo 20» utilizza come bersaglio delle sue freccette i ragazzini del City nel centro sportivo di Carrington, ritorna in campo e cerca di emulare Bruce Lee utilizzando il malcapitato Goran Popov come sparring partner, quindi qualcuno gli prende a sprangate la Maserati. Insomma, di lui sappiamo tutto, anzi troppo. E magari, presi dal suo ultimo battibecco con Rio Ferdinand o intenti a leggere cos'abbia detto a tale Jenny Thompson (escort che pare abbia avuto a che fare con Rooney in passato) ci dimentichiamo chi è stato il primo calciatore italiano a preparare la valigia ed attraversare la Manica per rincorrere un pallone di cuoio.

Una rapida occhiata agli almanacchi, ed ecco svelato il mistero: Attilio Fresia, nato a Torino il 5 marzo 1891, trasferitosi al Reading F.C. per 17 sterline nel 1913. Nel maggio di quell'anno, infatti, i «Royals» discesero in Italia per una tournée nel corso della quale affrontarono le più forti squadre italiane del tempo, a partire dal Genoa di Fresia. Che si mise in luce segnando una doppietta, attirando l'attenzione dei dirigenti inglesi, i quali convinsero il baffuto calciatore a trasferirsi in Inghilterra. La FIGC, però, impiegò alcuni mesi per ufficializzare il cambio di maglia, e così Fresia dovette attendere il dicembre del '13 per unirsi alla sua nuova squadra. Appena il tempo di scendere in campo con le riserve, contro il Croydon Common, quindi un mesto ritorno a casa, prima di salpare alla volta del Brasile per sedere sulla panchina del Palestra Itália, che nel 1942 muterà il nome in Palmeiras.

Fresia non fu però il primo calciatore italiano all'estero, preceduto da Francesco Calì e Vittorio Pozzo, avvistati in Svizzera agli inizi del Novecento. Il secondo non ha bisogno di presentazioni, ma di precisazioni: al Grasshoppers nel 1905-1906, poi il rientro in Italia per indossare la maglia del Torino e vincere due titoli mondiali come C.T. della Nazionale. Calì, nato a a Riposto, in Sicilia, emigrò in Svizzera con la famiglia per cercare fortuna, trovandola come calciatore. Dal 1899 al 1901 in forza allo Zurigo, giocò anche cinque partite con la rappresentativa elvetica prima di tornare in Italia per indossare la maglia del Genoa e quindi trasferirsi all'Andrea Doria, dove rimarrà per dieci anni. Nato centravanti, evolutosi in terzino, fu lui ad indossare la fascia di capitano nella prima partita giocata dall'Italia: contro la Francia, il 15 maggio 1910 a Milano, finì 6-2. Cento e uno anni più tardi, di italiani che varcano il confine per giocare al calcio ce ne sono ancora, ed il Canton Ticino è la meta più ambita: in Challenge League, la Serie B elvetica, Lugano, Chiasso e Locarno vantano la presenza di almeno un paio di italiani in rosa, ma è a Bellinzona (in Super League) che si è sviluppata la più folta colonia. Incluso l'allenatore Carlo Tebi, sono in sette ad indossare la maglia granata, tra cui spiccano Andrea Conti, figlio del grande Bruno e fratello del cagliaritano Daniele, il portiere Carlo Zotti e soprattutto Aimo Diana, cui solo la pubalgia negò un posto tra i ventitré di Germania 2006. Che, nel momento di sollevare al cielo la Coppa del Mondo, giocavano tutti in Italia.

Gli unici azzurri ad aver messo il becco fuori dal Belpaese, quel 9 luglio, erano Gattuso e Materazzi: una stagione a testa in Gran Bretagna, rispettivamente in Scozia con i Rangers ed in Inghilterra all'Everton, prima di far ritorno nella Penisola. E poi c'era Camoranesi, che aveva giocato in Argentina, Messico ed Uruguay, prima di essere naturalizzato però. Dopo quel 6-4 maturato ai calci di rigore, invece, via all'esodo. Cannavaro e Zambrotta scelsero la Spagna sotto forma di Real Madrid e Barcellona quella stessa estate, mentre dodici mesi dopo Grosso accettò le avances del Lione, e Toni andò a vincere la Bundesliga con annesso titolo di capocannoniere con la maglia del Bayern Monaco. Nel 2008-09 a conquistare il Meisterschale furono altri due campioni del mondo, Barzagli e Zaccardo, pedine del Wolfsburg che vinse il campionato proprio davanti al Bayern Monaco, in cui per sei mesi militò Oddo. Eccezion fatta per Camoranesi, tornato in Argentina al Lanús, e Cannvaro, andato a chiudere la carriera con l'Al-Ahli di Dubai, oggi hanno tutti fatto ritorno in patria.

Lippi, condottiero di quella magnifica spedizione, è al momento senza panchina, ma ha le idee ben chiare sul suo futuro: all'estero. Sulle orme di Capello e Trapattoni, cittì come lo è stato anche lui fino allo scorso - disgraziato - 24 giugno e come Zaccheroni, fresco vincitore della Coppa d'Asia alla guida del Giappone. L'alternativa è una squadra di club, seguendo l'esempio di Ancelotti, Mancini, e Spalletti. Ma gli italiani in giro per il mondo con i loro schemi non finiscono certo qui. Dario Bonetti e Roberto Landi si guadagnano la pagnotta nel continente nero, sulle panchine di Zambia e Liberia, emulati da Beppe Dossena, allenatore del Saint George di Addis Abeba. Si muove invece nella penisola araba Zenga, passato dalla panchina dell'Al-Nassr di Riyad a quella dell'Al-Nasr di Dubai.

Ma la carriera di Zenga, allenatore giramondo concessosi in Italia a Catania e Palermo, si è sviluppata prevalentemente in Romania, dove ha stabilito un primato: è infatti l'unico tecnico nella storia del calcio rumeno ad essersi seduto sulle panchine delle tre maggiori squadre della capitale Bucarest, in ordine cronologico Naţional (oggi noto come Progresul), Steaua e Dinamo. Sostituendo la Dinamo con il Rapid ed aggiungendoci CFR Cluj e Politehnica Iaşi, ecco la parentesi rumena di Cristiano Bergodi, chiusa nel luglio scorso con l'approdo in Emilia per allenare il Modena. A proposito di Cluj: la tripletta messa a segno nel 2010 (Campionato, Coppa e Supercoppa di Romania) è figlia del lavoro di Andrea Mandorlini, penultimo italiano su una panchina rumena. L'ultimo superstite è Nicolò Napoli, alla guida dell'Universitatea Craiova, squadra in cui milita Andrea Cossu. E non è l'unico prodotto dello Stivale ancora in età da tacchetti ad essere stato esportato in Liga 1: Roberto De Zerbi, Felice Piccolo e Remo Amadio difendono i colori del CFR Cluj, mentre sull'altra sponda cittadina è da poco approdato Nicola Ascoli, in forza all'Universitatea Cluj. Nel Târgu Mureş ecco un duo tricolore, composto da Luigi Lavecchia e Alessandro Caparco, mentre Simone Cavalli, Antonino D'Agostino e Riccardo Corallo giocano in Transilvania nel Gloria Bistriţa.

Giunti in Transilvania, terra di vampiri e non di calcio, qualcuno penserà di essere giunto al termine del viaggio tra gli emigranti del pallone. Viaggio che, invece, deve ancora toccare gli angoli più remoti globo terracqueo. Giuseppe Funicello, nato ad Agropoli nel Cilento ma cresciuto a Norwalk (Connecticut), dopo essere transitato nelle giovanili della Salernitana ha vestito la maglia del Thor Akureyri in Islanda, ed attualmente milita nell'IFK Mariehamn in Veikkausliiga, massima serie finlandese, così come Marco Matrone: nato a Scafati ma naturalizzato finlandese, gioca nell'Haka dopo aver speso una stagione in Italia tra Arezzo e Sansepolcro. Scendiamo in Mitteleuropa, ed ecco Marco Migliorini: dalla Primavera del Chievo alla prima squadra del Zbrojovka Brno (Repubblica Ceca) nel gennaio 2011; para invece in Ungheria Federico Groppioni, che difende i pali dell'MTK Budapest. Gabriel Sava, anch'egli estremo difensore, ha scelto il Monaghan United, seconda divisione irlandese. E sempre in seconda divisione, stavolta in Scozia, ecco Raffaele De Vita tra le fila del Livingston, mentre Manuel Pascali gioca in Scottish Premier League nel Kilmarnock.

Cambiando decisamente clima, ecco che il nostro itinerario ci conduce a Larnaca, costa meridionale di Cipro. È qui che incontriamo Marco Fortin, portiere dell'AEK. In Grecia, invece, Mirko Savini e Bruno Cirillo compongono la difesa del PAOK Salonicco in Super League, mentre dopo la retrocessione nello scorso campionato Stefano Napoleoni (un triennio in Polonia nel Widzew Łódź) ha continuato la sua avventura con il Levadiakos anche in seconda divisione. In Bulgaria ecco un quartetto italiano, equamente diviso tra CSKA Sofia (Giuseppe Aquaro e Fabrizio Grillo) e Chernomorets Burgas (Michele Cruciani e Alberto Quadri). Con Thomas Danieli (Union Saint Gilloise, terza divisione belga, presidente ed allenatore italiani) e Luca Lodetti (Marsaxlokk, Premier League maltese) si chiude la carrellata europea, volutamente incentrata sui meno noti mestieranti del pallone.

Abbandonato il Vecchio Continente, si può spaziare dall'Australia, dove Marcello Fiorentini difende i colori del Newcastle Jets, agli Stati Uniti, con Simone Bracalello, in forza ai Minnesota Stars. In Asia, dove giocava Manuel Vergori (Cần Thơ, seconda divisione vietnamita) fino a qualche settimana fa, prima di firmare con il Francavilla, possiamo incontrare Raffaele Simone Quintieri, che fa gol in Indonesia nel Semarang United. Ecco infine Fabio Firmani, passato dalla Lazio allo Shaanxi Chanba (Chinese Super League) nel febbraio 2011. Perché la Cina è vicina, così come la Finlandia e lo Zambia, per gli uomini del calcio italiano.


Antonio Giusto


Fonte: Calcio 2000

domenica 15 maggio 2011

Lacrime di un Fenomeno


Diciott'anni di magie, partendo dal natio quartiere di Bento Ribeiro, e sempre con il pallone incollato al piede. I muscoli ormai a brandelli dopo mille infortuni, le articolazioni scricchiolanti e l'ipotiroidismo (causa dell'evidente sovrappeso) lo hanno costretto a dire basta. Il 14 febbraio, Ronaldo ha dato l'addio al calcio. E, durante l'annuncio, gli occhi del Fenomeno si sono inumiditi. Commozione giustificata perché, come disse Falcão: «un calciatore muore due volte, la prima quando si ritira». Il Fenomeno, poi, ha sempre avuto la lacrima facile: le ultime prima della conferenza stampa di congedo le aveva versate in seguito all'eliminazione del suo Corinthians dalla Coppa Libertadores, uno dei pochissimi trofei che non farà bella mostra di sé nella sua traboccante bacheca.


IL DOLORE

Le lacrime, dicevo. Sottile fil rouge che lega i più momenti più significativi, nel bene e soprattutto nel male, della carriera di Ronaldo Luís Nazário de Lima (così all'anagrafe, dove è stato registrato con quattro giorni di ritardo il 22 settembre 1976).
Le prime versate in mondovisione risalgono al 12 aprile 2000. Si tratterebbe della finale d'andata di Coppa Italia tra Lazio ed Inter, ma tutti gli occhi sono puntati su di lui. Il Fenomeno è al rientro in campo dopo cinque mesi d'infermeria: contro il Lecce, il 21 novembre dell'anno prima, si è parzialmente lacerato il tendine rotuleo destro. Subentrato ad un giovane Mutu, Ronie è smanioso di far presente al mondo del calcio che è ancora l'indiscusso numero uno. Ma dopo sei minuti, dodici secondi ed un mulinare di gambe sul pallone, il ginocchio destro - sempre lui, accidenti! - cede. Attoniti, compagni ed avversari, tifosi di qualunque bandiera, osservano Ronaldo uscire dal campo mentre, con i lucciconi agli occhi, invoca l'amatissima mamma Sonia. «Perché io? Perché?», chiede a Moratti, abbracciandolo negli spogliatoi: Fenomeno, anche di sfortuna. Ed il suo ritorno al calcio è tutt'altro che scontato. A crederci sono in pochi, pochissimi. La Panini lo esclude dall'album 2000-2001, ed in effetti il Fenomeno non metterà mai piede in campo nel corso di quella stagione.


IL FENOMENINHO

Lontano dal pallone, nel corso della riabilitazione successiva all'intervento del professor Saillant, Ronaldo vede scorrere davanti a sé, chiedendosi se sarà in grado di proseguirla, la propria vita calcistica. Dai primi gol sulle «peladas» (campetti senz'erba) di Bento Ribeiro, periferia nordoccidentale di Rio de Janeiro, al futsal nel Valqueire prima e nel Social Ramos poi, quindi la prima delusione: il Flamengo, la squadra del suo idolo Zico, rifiuta di pagargli i quattro autobus necessari per raggiungere il campo d'allenamento, e così Dadado (odiato nomignolo affibbiatogli dal fratello maggiore Nelio) è costretto a rimandare il proprio appuntamento con il calcio a 11. Finché Paulo Roberto e «Zillo» Correia lo notano e gli propongono di trasferirsi al São Cristóvão, dove anche Jairzinho si accorge di lui. E, assieme a Reinaldo Pitta ed Alexandre Martins lo porta al Cruzeiro. Bambino prodigio, al Mineirão incanta, guadagnandosi la convocazione di Parreira per il vittorioso mondiale statunitense quando ha appena 17 anni. Non gioca neppure un minuto, ma approda in Europa, al PSV Eindhoven.


APOTEOSI BARÇA

Due stagioni, 54 gol in 57 partite e lo compra il Barça: capocannoniere, anzi «Pichichi», ed un indimenticabile cammino verso il gol a Santiago di Compostela. Parte dalla linea di metà campo, e arriva in porta dopo essersi bevuto in pratica l'intera squadra avversaria. Sbalorditi, in Spagna propongono varie soluzioni per arginare l'extraterrestre vestito di blaugrana: César Gómez, visto in Italia con la maglia della Roma, suggerisce di pregare; Miguel Ángel Lotina, al tempo sulla panchina del Logroñés, è più cruento: «Bisogna sparargli». E così l'Inter, per preservarne l'incolumità, lo porta in Italia, e lui porta la Coppa UEFA 1998 nella bacheca dell'Inter.


LA GIOIA MONDIALE

Una storia così non può interrompersi sul più bello, e - con l'aiuto dei medici Runco e Combi e dei fisioterapisti Petrone e Rosam - Ronie torna ad inseguire un pallone sul prato verde.
Finalmente, eccolo di nuovo in campo con la maglia nerazzurra. È il 9 dicembre 2001, l'Inter va Brescia ed al Fenomeno bastano appena diciotto minuti ed una triangolazione con il compagno di baldorie Bobo Vieri per aprire le marcature. A questo gol ne seguiranno altri sei, ma Ronaldo rimarrà all'asciutto nel giorno più importante di un campionato che avrebbe potuto vedere l'Inter trionfare dopo tredici anni di astinenza. Il teatro dell'ennesima tragedia sportiva vissuta dal Fenomeno è nuovamente l'Olimpico di Roma, dove la Lazio di uno spietato Poborský gli nega il tanto agognato Scudetto. Cúper, quando manca poco più di un quarto d'ora al termine ed il risultato è di 4-2 per i padroni di casa, lo richiama in panchina. Ronie china il capo tra le mani e si abbandona al pianto, sconsolato.
Quelle lacrime gliele asciuga il cittì brasiliano, Felipão Scolari, che inserisce il suo nome nella lista dei convocati per il Mondiale nippocoreano. La Seleção, che tanta fatica aveva fatto nelle qualificazioni anche - o forse soprattutto - a causa dell'assenza del suo miglior giocatore, ritrova un Ronaldo circondato dallo scetticismo: in che condizioni, fisiche e psichiche, sarà? Risponde sul campo, a suon di gol. Ne segna otto, ed in finale buca due volte il sin lì insuperabile Kahn. Dopo la seconda rete, ecco l'abbraccio tra Ronie ed un commosso Scolari, che al triplice fischio di Collina verrà imitato dal Fenomeno. Per una volta, Ronaldo piange lacrime di gioia.



PAGLIUCA: «VINCEVA LE PARTITE DA SOLO»

Finché ha indossato gli scarpini, Ronaldo è stato il peggior nemico dei portieri. Gianluca Pagliuca, però, lo ricorda così: «È stato un onore giocare con lui. Ci faceva vincere le partite» e non solo: assieme a Ronaldo, Pagliuca ha conquistato la Coppa UEFA nel '98 «e poi - continua il portierone bolognese - con uno così là davanti c'è anche meno pressione». Pagliuca, che con Ronaldo ha condiviso lo spogliatoio dal 1997 al 1999, è stato infilato solo una volta dal Fenomeno: «Mi segnò l'unico gol in Italia-Brasile 3-3, amichevole disputata a Lione l'8 giugno 1997. Poco dopo sarebbe arrivato all'Inter».


Antonio Giusto


Fonte: Calcio 2000

sabato 19 marzo 2011

I nuovi Nakata



Nel 1994 Kazuyoshi Miura si dimezzava l'ingaggio pur di vestire la maglia del Genoa, diventando così il primo calciatore giapponese a giocare in Europa, salvo poi fare ritorno in Giappone al termine del campionato, deluso dall'esperienza italiana. Oggi, invece, ragazzi che di Kazu potrebbero essere i figli invadono l'Europa, novelli Holly e Benji scovati nel Paese del Sol levante dagli osservartori europei e destinati a far fortuna nel Vecchio Continente. Keisuke Honda ed i suoi temibili calci di punizione sono noti a tutti, così come la favola vissuta da Shinji Kagawa, passato dalla seconda divisione giapponese alla vetta della Bundesliga in pochi mesi. In Italia, Catania e Cesena si coccolano rispettivamente Morimoto e Nagatomo, mentre Daisuke Matsui dopo aver regalato prodezze in Francia (memorabile un suo gol di tacco segnato contro il Monaco quando vestiva la maglia del Le Mans) è attualmente in prestito al Tom Tomsk, in Russia. Nel Lierse, in Belgio, milita invece Eiji Kawashima, portiere della nazionale giapponese. Makoto Hasebe, campione di Germania nel 2009 con il Wolfsburg, deve aver fatto un'ottima impressione agli addetti ai lavori tedeschi, incentivandoli a puntare sui calciatori con gli occhi a mandorla: Atsuto Uchida è approdato allo Schalke quest'estate, mentre il Friburgo si è assicurato Kisho Yano. Ed in questa parentesi invernale del calciomercato ben tre giapponesi hanno fatto rotta verso la Germania: il jolly difensivo Tomoaki Makino si è accasato al Colonia; Shinji Okazaki, attaccante in gol contro la Danimarca ai Mondiali, si trasferirà allo Stoccarda al termine della Coppa d'Asia; infine, il mediano Hajime Hosogai è stato immediatamente girato in prestito all'Augusburg dal Bayer Leverkusen che lo ha prelevato dall'Urawa Red Diamonds. Akihiro Ienaga ha invece scelto la Spagna: quinquennale con il Maiorca per lui, mentre Ryo Miyaichi (1992) entrerà a far parte della rosa dell'Arsenal al termine del campionato nazionale delle scuole superiori giapponesi. Chi sarà il prossimo? Forse Takashi Usami, coetaneo di Miyaichi e fresco vincitore del premio di matricola dell'anno della J. League appena conclusasi con il successo del Nagoya Grampus.


Antonio Giusto


Fonte: Calcio 2000

lunedì 14 marzo 2011

Inter-Bayern Monaco: come a Madrid!


22 maggio 2010, Inter e Bayern Monaco disputavano la 55ª finale di Coppa dei Campioni (poi Champions League). A spuntarla sono i nerazzurri, cui una doppietta di Milito regala il terzo trionfo continentale. 277 giorni più tardi, il 23 febbraio del 2011, meneghini e bavaresi si ritroveranno di fronte per l'andata degli ottavi di finale. Le cose, in questi nove mesi, sono cambiate e non poco per entrambe: allora egemoni in patria, oggi all'inseguimento di Milan e Borussia Dortmund; i calciatori, invece, rimangono gli stessi («squadra che vince non si cambia», così decisero in estate i proprietari). L'unica novità è rappresentata dal ventunenne Thomas Kraft, che ha rimpiazzato Butt tra i pali dei biancorossi di Baviera.
Individuare gli uomini chiave in una simile partita è sempre difficile, vista l'abbondanza di campioni. C'è il fosforo di Cambiasso e l'ubriacante dribbling di Robben, c'è la visione di gioco di Sneijder ed il fiuto del gol di Gómez, ci sono i cross di Maicon ed i lunghi lanci di Schweinsteiger. Tutto questo, però, c'era anche nove mesi fa a Madrid. Franck Ribéry, invece, era squalificato a causa di un'espulsione rimediata in semifinale contro il Lione. Il fallaccio su Lisandro López gli costò carissimo, ma il funambolo francese non si farà sfuggire quest'occasione per prendersi una - seppure piccola - rivincita sulla storia. Tra le fila dell'Inter, invece, non ci si può dimenticare di Samuel Eto'o. Autentico trascinatore dei nerazzurri nel deludente primo scorcio di stagione, il camerunense ha ritrovato un feeling con il gol smarrito in seguito all'esilio sulla fascia sinistra. Numeri da favola per lui, capocannoniere della Champions League con 7 reti dopo la fase a gironi.
Volutamente celato in apertura, emerge ora il discorso relativo alle panchine. Su quella bavarese van Gaal siede tutt'ora, nonostante le divergenze con i vertici societari dovute agli scarsi risultati ottenuti sin qui. Meritevole invece di una buona quantità di inchiostro è quanto avvenuto all'Inter: essendo Mourinho rimasto a Madrid dopo la vittoriosa finale, Moratti ha scelto Benítez - sponsorizzato da Branca - per la sua successione, ma i risultati sono stati disastrosi. Due trofei in bacheca, la Supercoppa Italiana ed il Mondiale per club, ma la paurosa involuzione dal punto di vista del gioco e dei risultati rispetto all'era Mourinho ha convinto Moratti ad assecondare se stesso e puntare su Leonardo, che quel 22 maggio 2010 seguiva la finale di Champions League da allenatore del Milan. Oggi l'uomo di Niterói pare aver rivitalizzato l'Inter: ritorno al rombo, cui Benítez era ricorso solo in situazioni d'emergenza, e ad una qualità di gioco più che discreta. La verticalità al primo posto, i centrocampisti alla continua ricerca dell'inserimento e Milito ed Eto'o finalmente in coppia in attacco.

PROBABILI FORMAZIONI
Inter (4-3-1-2): Júlio César; Maicon, Lúcio, Córdoba, Zanetti; Stanković, Cambiasso, Thiago Motta; Sneijder; Milito, Eto'o. All.: Leonardo.
Bayern Monaco (4-2-3-1): Kraft; Lahm, Tymoshchuk, Breno, Contento; van Bommel, Schweinsteiger; Robben, Müller, Ribéry; Gómez. All.: van Gaal.


Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

giovedì 21 ottobre 2010

Il miracolo Cagliari



RACCONTO SCUDETTO
Anno 1970, la Sardegna entra in Italia. E lo fa prendendo a pedate una palla di cuoio. Non più pecorari, ma campioni di calcio. Il giorno della festa è il 12 aprile, quando, mentre la Juventus cade a Roma contro la Lazio dicendo addio ai propri sogni di gloria, Riva e Gori sconfiggono il Bari all'Amsicora (antenato del Sant'Elia, deve il nome al militare che guidò la rivolta delle città costiere della Sardegna contro i Romani del 215 a.C.). Le festa è grande, sa di riscatto, ed i festeggiamenti si protraggono per diversi giorni: celebrazioni pirotecniche, fiaccolate e clacson strombazzanti l'inno «Forza Cagliari». Persino i quattro mori sono in festa, Cagliari è la capitale del calcio.
Dietro il vittorioso epilogo si celano gli artefici dell'impresa. Gigi Riva, figlio adottivo della Sardegna, è la punta di un iceberg tenuto integro dalle parate di Albertosi e le diagonali di Martiradonna, parzialmente scalfito dagli inopinati autogol del prode Niccolai ma subito rimodellato da libero a sopresa Cera, inventato da Scopigno quale rimpiazzo dell'infortunato Tomasini. Il progetto, però, è tutto di Arrica: cede Boninsegna all'Inter, perché a forza di pestarsi i piedi con Riva ce li ha pieni di calli, e veste di rossoblu Domenghini e Gori e Poli. Nené, brasiliano di Sardegna, si riscopre centrocampista di qualità dopo il fiasco juventino; a fargli compagnia in mediana c'è Ricciotti Greatti. Zignoli fluidica, assieme a Mancin, mentre Brugnera sta in panchina perché, come dice Scopigno, «ha il culo stretto, e così stiamo più comodi» e fa compagnia al secondo portiere Reginato ed a Nastasio, protagonisti marginali sul campo ma rilevanti in spogliatoio: quello del Cagliari è un gruppo di cemento, forgiatosi tra poker, sigarette e cene al ristorante Corallo.
La cavalcata verso lo scudetto inizia alla quinta giornata, con il successo esterno sulla Fiorentina. I viola sono campioni d'Italia, l'anno prima si sono imposti con quattro punti di vantaggio proprio sul Cagliari, ma Lo Bello accorda prima un dubbio rigore che Riva trasforma e poi annulla un gol ai padroni di casa: l'arbitro sgattaiola via dal campo scortato dalla polizia, il Cagliari fugge in cima alla classifica inseguito da Fiorentina ed Inter. I rossoblu guidano agevolmente il campionato, in vetta al quale avevano concluso anche il girone d'andata l'anno precedente, ma in dicembre sbandano a Palermo: sconfitti 1-0 con rete di Troja, l'arbitro Monti annulla un gol su punizione a Riva per un ininfluente fuorigioco di Martiradonna; Scopigno dà di matto e ne dice di tutti i colori al guardalinee, rimedia cinque mesi di squalifica - poi ridotti - ma profetizza ai suoi: «Se non perdiamo a Bari domenica prossima, vinceremo lo scudetto». Va così, ma le peripezie del Cagliari non sono certo finite. La prima in ordine cronologico è l'infortunio del libero Tomasini, cui salta il ginocchio contro la Sampdoria nella prima di ritorno: Scopigno, saggiamente, arretra Cera in difesa al fianco dello stopper Niccolai, inserisce Brugnera a centrocampo, e la squadra riparte più forte di prima. Bonimba, nella sua nuova casa di San Siro, trova il modo di punire la sua ex squadra: 15 febbraio, Inter-Cagliari termina 1-0 e la Juventus si ritrova ad un punto. Si decide tutto un mese dopo, quando Lo Bello dà prova della propria autorità ulteriormente corroborata dalla convocazione agli imminenti mondiali messicani (cui prenderanno parte sei cagliaritani: Riva, Cera, Albertosi, Niccolai, Domenghini e Gori) fischiando a piacimento tutto e il contrario di tutto. Alla fine, è 2-2: un'assicurazione sullo scudetto. L'anno dopo c'è la Coppa dei Campioni e un titolo da bissare, ma un macellaio austriaco di nome Hof spezza tibia e perone a «Rombo di tuono» Gigi Riva ed i sogni di gloria del Cagliari vanno in frantumi come le ossa del proprio simbolo.



LA STELLA
Gigi Riva. Anzi, Giggirriva. Lombardo di Leggiuno, venuto alla luce in via San Primo 10 il 7 novembre 1944, sardo per caso e per sempre. Il padre Ugo muore quando Luigi ha 9 anni, e lui finisce in collegio: Varese, Viggù, persino Milano. Ma scappa, sempre, per indossare la maglia numero undici e scagliare bolidi mancini sul campo da calcio. A sedici anni ha messo dentro 66 gol in due anni con la squadra di Laveno, ai tempi settemila e rotti abitanti domicialiati cinque chilometri a nord di Leggiuno. Poi finisce a Legnano: una stagione appena, giusto il tempo di farsi notare. Succede che gioca all'Olimpico, con la Nazionale Juniores, e sugli spalti ci sono Silvestri, Tognon ed Arrica ad osservarlo per conto del Cagliari: nell'intervallo la firma, per 37 milioni. Perde anche la madre, Edis, e parte per l'isola. Orfano incazzato, preso a cazzotti da una vita perfida e chiuso in se stesso, in Sardegna trova un paradiso colorato di rossoblu.



IL MISTER
Filosofo, sul campo e nella vita. Manlio Scopigno, friulano di nascita ma reatino d'adozione, Platone e Socrate, Hegel e Kant li studia per davvero. Onesto terzino destro, raggiunge la Serie A. Ma, nella partita in cui segna il primo gol con la maglia del Napoli, si rompe i legamenti del ginocchio. Dice addio al calcio giocato, e pure allo studio: preferisce lo stadio. Inizia a Rieti, poi segue Lerici sulla panchina del Vicenza. Quindi il Bologna, per un solo anno, e l'approdo a Cagliari nel '66. Amante della pittura e del whisky, dei buoni libri e delle sigarette, Scopigno abolisce i ritiri e posticipa gli allenamenti al pomeriggio. Asseconda i suoi, li responsabilizza. E non lesina battute pungenti. Inventa Cera libero d'impostazione, si becca undici giornate di squalifica per aver consigliato ad un guardalinee un luogo alternativo in cui mettere la bandierina, lascia Cagliari nel 1972. Un anno sabbatico, poi Roma e Vicenza. Gli va male, perché sta male. Un infarto se lo porta via nell'autunno del '93.



IL PERSONAGGIO
Comunardo Niccolai, il difensore col vizio dell'autogol. Nato a Uzzano, in Valdinievole, i primi calci li tira nel Montecatini. È un fuscello, i compagni lo soprannominano «agonia». Lui se ne frega, fa i bagagli e parte per la Sardegna. Un anno a Sassari, nella Torres, poi la chiamata del Cagliari: debutta in A, è il 1964. Discreto stopper, 37' a Messico 1970 prima che la caviglia lo tradisca in un contrasto con lo svedese Kindvall; Scopigno, esterrefatto per la sua presenza in campo, ha modo di esclamare: «Tutto mi sarei aspettato nella vita, fuorchè vedere Niccolai via satellite». Di lui fanno storia il nome, omaggio del padre alla Comune di Parigi, e le autoreti. Ne segna sei in carriera, cinque in campionato ed una in Coppa dei Campioni. La più bella, però, gliela nega il compagno Brugnera che parando una micidiale conclusione dello stopper salva Albertosi. Già, Albertosi: vittima preferita di Niccolai, che spenderà uno dei quattro gol segnati in carriera come «avvertimento» per Ricky, ai tempi tra i pali della Fiorentina. Nulla da fare, perché Albertosi si presenterà a Cagliari qualche tempo dopo: per subire autogol, e vincere uno scudetto.



CURIOSITÀ
Finanche in galera, pur di assistere alla partita dello scudetto. Nel giorno di Cagliari-Bari sugli spalti dell'Amsicora, ribollente catino omologato per 26mila uomini, siedono persino due latitanti. Disposti a tutto pur di essere presenti nel giorno in cui la matematica cucirà idealmente il tricolore sul petto dei rossoblu, la coppia di banditi concluderà la giornata in prigione, non prima di aver reso grazie ai propri beniamini. Poi, una volta scovati e debitamente incatenati dalla polizia, i due malviventi vennero allontanati dallo stadio tra lo sbigottimento generale dei calciatori cagliaritani, a dir poco sorpresi da quest'inatteso avvenimento.



DOMENGHINI, IL RISCATTO
Angelo Domenghini, al Cagliari assieme a Gori e Poli in cambio di Boninsegna: cosa pensò appena atterrato in Sardegna?
«Ero un professionista, il mio primo pensiero fu quello di gettarmi a capofitto in questa nuova avventura con l'obiettivo di far bene e prendermi una rivincita sull'Inter, che non aveva creduto in me. Sbagliando».

Come si ambientò nello spogliatoio del Cagliari?
«Bene, molto bene. Quello era un grande gruppo, ed io contribuii con la mia esperienza e la mia voglia di rivalsa: avevo ancora fame di vittorie dopo i successi con l'Inter (due scudetti, una Coppa dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, ndr) e la Nazionale (in gol nella vittoriosa finale dell'Europeo '68, ndr). Mi misi a disposizione dell'allenatore, ed i risultati mi diedero ragione».

L'allenatore: Manlio Scopigno. Che uomo era?
«Una brava persona, senza dubbio. Grande conoscitore di calcio, ci metteva poco a capire come farci rendere al meglio in campo».

Scopigno è noto soprattutto per l'appellativo di allenatore filoso e le battute dissacranti, ma era un gran tecnico. Ci dica, come giocava il Cagliari campione d'Italia?
«Nessun tatticismo esasperato, a quei tempi il gioco era più semplice: si marcava a uomo, e chi vinceva il duello individuale vinceva la partita. Io agivo sulla destra, mentre Gori era il perno centrale dell'attacco e Riva, leggermente decentrato sulla sinistra, con i suoi micidiali tagli metteva in crisi le difese avversarie. Poi le tre mezze ali Nené, Greatti e Cera, i due stopper Niccolai e Martiradonna, Zignoli o Mancin e Tomasini libero. Quando si fece male lui, Scopigno arretrò Cera in difesa ed inserì a centrocampo Brugnera, che era un grandissimo fantasista. Un giocatore fantastico, la cui qualità giovò sensibilmente alla manovra della squadra, che era finalizzata a mettere Riva nelle condizioni migliori per far gol: ne mise dentro 21, e vincemmo lo scudetto».

Lei invece ne segnò 10. Il più importante?
«Mi lasci innanzitutto dire che quasi tutti i gol che segnai quell'anno arrivarono sullo 0-0: a quell'epoca sbloccare il risultato era davvero difficile, e per me segnare per primo era motivo d'orgoglio. Il più importante, oltre che il più bello, per me resta quello segnato contro il Brescia alla terza giornata: eravamo in dieci a causa dell'espulsione di Nené, ma in apertura di secondo tempo segnai con un bolide da trenta metri che non lasciò scampo al portiere. Poi Riva arrotondò il risultato: finì 2-0».

Quando capiste che lo scudetto lo avreste vinto voi?
«Il 15 marzo, dopo aver pareggiato a Torino contro la Juventus. Fu una partita durissima, giocata con la consapevolezza che un'eventuale pareggio avrebbe consentito ai bianconeri di raggiungerci in testa alla classifica. Pareggiammo, e quel giorno capimmo che saremmo certamente stati noi i campioni d'Italia».

Ed infatti il 12 aprile vi diede ragione anche la matematica. Cosa ricorda di quel giorno?
«Ricordo l'entusiasmo dell'Amsicora, uno stadio stupendo: piccolo, sì, ma caldissimo. Venire a giocare lì era un incubo per chiunque. La gente, vicinissima al campo, ci dava una carica incredibile: poi le partite le giocavamo noi, ovviamente, ma i tifosi diedero un contributo sensibile alla vittoria del campionato».

Il vostro ciclo, però, si chiuse lì. Quali furono le cause?
«Avremmo potuto vincere di più, questo è certo. Si trattava di un'ottima squadra, ma alcuni eventi fecero sì che quella fosse la nostra unica vittoria. Il più importante, secondo me, fu il trasferimento della squadra al Sant'Elia: troppo grande, troppo dispersivo, non sentivamo il calore della gente come nei bei momenti vissuti all'Amsicora. E poi Gigi (Riva, ndr) s'infortunò in Nazionale».



JUVE FERMATA, RIVA PROTAGONISTA
15 marzo 1970, la Juventus attende il Cagliari al Comunale. Lo stadio è gremito, sugli spalti ci sono settantamila persone in delirio per la partita che si appresta a decidere le sorti del campionato. Quando Concetto Lo Bello mette bocca al fischietto per decretare l'inizio dell'incontro piove a dirotto, ma in campo nessuno sembra rendersene conto: la posta in palio è troppo alta per preoccuparsi delle condizioni atmosferiche. Nervi tesi, e il primo gol lo segna Niccolai... nella sua porta però, anticipando Albertosi su un innocuo cross dalla destra di Furino; «Bel gol», sentenzia un per nulla scosso Scopigno. Ora appaiate in vetta alla classifica, Juventus e Cagliari continuano a darsi battaglia per il primato: Gigi Riva, in chiusura di prima frazione, s'inventa il pareggio e riporta i suoi a più due in classifica. Nel secondo tempo Lo Bello prende in mano la partita, decretando un rigore più che dubbio in favore dei bianconeri. Sul dischetto si presenta Haller, Albertosi para. Il Comunale si ammutolisce, ma ci pensa il direttore di gara a ridar fiato alla frangia bianconera del tifo: il rigore si ripete, sentenzia, e Albertosi scoppia in lacrime. Anastasi, affatto impietosito, stavolta gonfia la rete e riporta avanti i suoi. Sembra fatta per la Juventus, ma un calcio di punizione dalla destra di Domenghini trova il fischietto di Lo Bello: è rigore, fallo su Martiradonna. Gigi Riva, che pochi istanti prima avrebbe strangolato l'arbitro, adesso si presenta sul dischetto. E segna, mettendo il pallone alle spalle di Anzolin.

TABELLINO

JUVENTUS-CAGLIARI 2-2

MARCATORI: 29' Niccolai (aut.) 45' Riva, 66' Anastasi (rig.), 82' Riva (rig.).

JUVENTUS: Anzolin; Salvadore Furino; Roveta, Leoncini, Cuccureddu; Haller, Vieri, Anastasi, Del Sol, Zigoni (55' Leonardi). All.: Rabitti.

CAGLIARI: Albertosi; Martiradonna, Mancin (74' Poli); Cera, Niccolai, Nenè; Domenghini, Brugnera, Gori, Greatti, Riva. All.: Scopigno.

ARBITRO: Lo Bello (Siracusa).

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

lunedì 23 agosto 2010

La leggenda del Meazza



Nasce cent'anni fa Giuseppe Meazza, il 23 agosto 1910. I primi calci li dà ad un palla di stracci, inseguita nel natio quartiere di Porta Vittoria sognando un futuro migliore: morto in guerra il padre, litografo caduto sul Carso, tocca a sua mamma Ersilia tirarlo su con quel po' che riesce a guadagnare facendo la verduraia. Peppino - così lo chiaman tutti - ha il pallone sempre in testa, nel vero senso della parola: frequenta il Trotter, e torna da scuola palleggiando contro il muro per anche duecento metri filati utilizzando unicamente il capo.
Con gli amici mette su una prima squadretta, la Costanza, con sede in via Arconati. Entra poi a far parte dei Maestri Campionesi, ed a 12 anni compiuti, previo consenso della signora Ersilia, inizia finalmente a giocare sui campi regolari con i ragazzi uliciani del Gloria F.C. È qui che un ammiratore, ammaliato dalle sue doti di centromediano, gli regala le tanto agognate scarpette da calcio, ed è sempre qui che Fulvio Bernardini lo nota: uno così bravo, il «dottore» (per via di una laurea in scienze economiche conseguita alla Bocconi) pensa di doverlo presentare all'allenatore della prima squadra, Arpad Weisz. Detto, fatto: Meazza, a 14 anni, entra a far parte delle giovanili nerazzurre.

È NATA UNA STELLA
La vita del Peppino, grama sino a pochi istanti prima, tingendosi di nerazzurro cambia completamente: in campo si ritrova a fare il centrattacco, perché è lì che l'Inter ha bisogno, quindi lascia la fabbrica di cinture dello zio per dedicarsi anima e corpo al pallone, incoraggiato dai sciuri che compongono l'organigramma societario, i quali mai negano una bistecca a quel mucchietto d'ossa dai piedi prodigiosi. Assaggia la prima squadra appena diciassettenne, a Como, segnando tre dei sei gol (a uno) con cui l'Inter schianta l'U.S. Milanese in Coppa Volta. Prima dell'incontro, quando Weisz informa i suoi che Meazza sarà il centravanti, Poldo Conti esclama sarcastico: «Oh, bene, adesso facciamo giocare i balilla!», alludendo alla neonata Opera Nazionale Balilla, che raccoglieva tutti i bambini tra gli 8 ed i 14 anni. La strabiliante prestazione di Meazza, cui quel soprannome resterà incollato a vita, non lascia dubbi: è nata una stella.

ESORDI REGALI
Questo imberbe prodigio del fòlber già incanta l'Arena a suon di dribbling e colpi di tacco. L'esordio in campionato, il 25 settembre 1927, viene anch'esso bagnato da un gol: Peppìn mette la firma nel 6-1 contro La Dominante Genova. Quella di segnare all'esordio, per Meazza, è una piacevole consuetudine che accomuna gli esordi in campionato e prima squadra ai derby - meneghini e d'Italia, come li definirà Brera anni più tardi -, recanti il nome del «Balilla» nel tabellino dei marcatori: in gol al Milan nella prima stracittadina giovanile, stessa solfa (il 30 aprile '28) alla prima volta tra i grandi, ed un gol come regalo d'onomastico il 19 marzo del 1930 al debutto contro la Juventus di Combi, Rosetta e Caligaris. Quest'Inter-Juventus viene consentito dall'unificazione del campionato, avvenuta nel 1929 per volere del presidente della FIGC Arpinati. Ed il primo scudetto del girone unico lo vince proprio l'Inter, trascinata dai 31 gol in 33 partite di un Meazza neppure ventenne ma già decisivo: delle trentatré marcature, le più importanti sono quelle che consentono all'Inter - anzi, all'Ambrosiana: al regime fascista il nome Internazionale pare troppo esotico - di agguantare il pareggio contro il Genoa in una partita cruciale per l'assegnazione del titolo. Alla terzultima di campionato, i rossoblu sono di scena in via Goldoni per la partita che deciderà il destino del campionato: all'Inter basta un pareggio, ma dopo 45' il Genoa conduce 3-1. Lì si scatena il finimondo, con le tribune che cedono e 180 feriti portata via in fretta e furia per consentire la ripresa dell'incontro, cconclusosi sul 3-3 grazie ad una tripletta di Meazza. Ma non è certo questo l'unico exploit stagionale del fenomeno di Porta Vittoria: contro la Roma, capitanata dal suo scopritore Bernardini, segna tre gol nei primi quattro minuti spianando la strada ai suoi verso il 6-0 finale.

AZZURRO FULGIDO
Simili prestazioni non passano di certo inosservate, tanto che il selezionatore della Nazionale, Vittorio Pozzo, lo veste d'azzurro per la prima volta il 9 febbraio di quell'anno contro la Svizzera. Si tratta di una semplice amichevole, ma il pubblico partenopeo giunto a Roma per assistere all'evento storce il naso a causa della presenza in campo di quel ragazzino: invocano il loro beniamino Attila Sallustro, ricoprendo di fischi Meazza, e mamma Ersilia scoppia in lacrime. A consolarla ci pensa il suo bambino, che segna una doppietta - si tratta di un esordio, no? - e regala il successo all'Italia. Poco tempo più tardi, sempre con indosso la maglia della Nazionale, si presenta a Budapest e rifila tre gol all'Ungheria, annichilita 5-0 nonostante si tratti di una delle maggiori potenze calcistiche del tempo. Il «Balilla», che segna caterve di gol con l'Inter, quando è agli ordini di Pozzo dà sempre motivo allo spettatore di stropicciarsi gli occhi: contro l'Austria, ad esempio, s'inventa uno stop di suola che porta due difensori allo scontro e gli spiana la strada verso il gol. In Inghilterra, al cospetto dell'ingombrante superbia di coloro che si professano maestri del football, sfodera quella che a detta dei testimoni è la sua miglior partita: sotto 3-0 dopo 15' ed in inferiorità numerica a causa dell'infortunio di Monti, l'Italia rischia un tracollo che Meazza evita segnando due gol e sfiorando ripetutamente il terzo in quella che verrà ricordata come «La Battaglia di Highbury».

DALLA FAME ALLA FAMA
La fame e le scarpe bucate sono ormai un pallido ricordo per il Peppino, che adesso è il re di Milano: guida la sua Lancia Lambda, abita in un lussuoso appartamento in piazza Cairoli, e tra una pubblicità ed una delle sessanta sigarette giornaliere si fa lustrar le scarpe per apparire ancor più bello agli occhi delle sue ammiratrici, con cui condivide il letto ogni notte senza che la classifica cannonieri ne risenta. Emblematico, in proposito, un episodio legato ad Inter-Juventus del novembre 1937. Meazza rischia di non giocare perché... disperso: scovato da un massaggiatore mentre dorme profondamente in un casino alle due del pomeriggio, esausto dopo una notte di fuoco, viene caricato in fretta e furia sull'automobile e portato all'Arena, dove segna una doppietta decisiva per l'esito della partita (terminata 2-1) e dello scudetto, vinto dall'Inter con due punti di vantaggio proprio sulla Juventus.
La carriera di Meazza va a gonfie vele, ma tutt'a un tratto gli si «gela» il piede sinistro: la vasocontrizione di un'arteria non permette il regolare afflusso di sangue all'arto. I medici cercano di restituirlo al mondo del pallone con terapie innovative, ma dopo che il Peppino si è perso interamente la stagione 1939-40 (culminata con il successo dell'Inter in campionato) la decisione di operarsi viene spontanea: lui ha bisogno del calcio, ed il calcio ha bisogno di lui. Non l'Inter, però, che lo cede gratuitamente ai cugini rossoneri sul finire del novembre 1940.

IO, VAGABONDO...
Con la maglia del Milano, denominazione assunta dal Milan sotto la dittatura fascista, Meazza è costretto a giocare da interno. Questa sgradita posizione non gli impedisce di segnare un gol contro la sua tanto amata Inter all'Arena di via Goldoni, per tanti anni teatro delle sue imprese, abbandonata con le lacrime agli occhi nel momento del passaggio al Milan. C'è poi la Juventus, con cui firma il contratto sdraiato sull'erba del Comunale durante un allenamento con già indosso la tenuta bianconera, ma a Torino resta solo un anno: veste le maglie di Varese e Atalanta in tempo di guerra, poi torna all'Inter perché c'è bisogno di lui. La situazione è delicatissima, i nerazzurri rischiano di retrocedere in B: Meazza non può permetterlo, e così nella doppia veste di allenatore-giocatore scende in campo, e segna contro il Bari un gol decisivo. Non si tratta né dei celeberrimi gol «a invito» né di una qualche altra prodezza, ma è l'atto estremo d'amore nei confronti dell'Inter, e durante i festeggiamenti al Peppino tornano in mente i tempi in cui lo chiamavano «Balilla» e per le strade di Milano si parafrasava Leopardi cantando: «La donzelletta vien dalla campagna / leggendo la Gazzetta dello Sport / e come ogni ragazza lei va pazza per Meazza / che fa reti a tempo di fox-trot».



SAN SIRO, LA CASA DI PEPPINO
Morto a Rapallo il 21 agosto del '79, due giorni prima del suo settantesimo compleanno, Meazza riposa al Famedio del Cimitero Monumentale di Milano assieme ad illustri personaggi della storia meneghina quali Manzoni ed il più calcistico Candido Cannavò. Fermato dal più rude dei terzini, un tumore al pancreas, alla sua memoria viene intotolato San Siro, divenuto «Giuseppe Meazza» il 2 marzo 1980. Curiosamente, il Peppino non aveva praticamente mai giocato nello stadio edificato a partite dal dicembre 1925 dall'allora presidente milanista Piero Pirelli ed inaugurato da una stracittadina, conclusasi sul punteggio di 6-3 per l'Inter: qualche derby appena, e gli incontri casalinghi nel biennio rossonero, perché la casa di Meazza era l'Arena Civica di via Goldoni. E quando l'Inter si traferì a San Siro, nel 1947, il signore del fòlber milanese aveva appena appeso gli scarpini al chiodo.



L'UOMO DEI RECORD AZZURRI
Per la causa azzurra, cui contribuì segnando 33 gol (un record, rimasto imbattuto per oltre trentacinque anni) in 53 partite, Meazza non si tirò mai indietro. Formidabile centravanti, per la Nazionale il Peppino si sacrificò due volte, giocando da interno entrambi i Mondiali vinti per lasciar spazio a Schiavio prima e Piola poi nel tanto amato ruolo di centrattacco. Relativo al primo successo iridato un aneddoto concernente la passione per il gioco d'azzardo del campione milanese, capace di perdere la bellezza di 25 mila lire giocando a poker nel ritiro di Roveta, salvo poi rifarsi con il premio per la vittoria dei Mondiali, equivalente proprio a 25 mila lire. Al Campionato del Mondo di Francia, disputato nel 1938, è invece legato uno degli episodi che meglio spiegano la tempra di Meazza. Nella semifinale contro lo spocchioso Brasile (che aveva già prenotato i biglietti aerei per Parigi, dove si sarebbe disputata la finale) calciò il penalty decisivo reggendosi i calzoni con la mano sinistra e beffando il pararigori Walter: poteva mai un ragazzo divenuto orfano di padre ad appena sette anni ed in grado di superare la fame e la povertà farsi fermare un elastico rotto? No di certo, ed il secondo titolo mondiale era il giusto premio. Meno dolce l'addio alla Nazionale, causato dal «piede gelato» che non consentirà più a Meazza di vestire l'azzurro: recandosi ad Helsinki per un'amichevole con la Finlandia nel luglio del 1939, giurò di aver udito le cannonate della guerra, appena incominciata, mentre in treno costeggiava Danzica.



L'EREDE
Una volta dato l'addio al calcio giocato, Meazza cercò vanamente fortuna come allenatore: prima il Beşiktaş, in Turchia, poi la Pro Patria, quindi un biennio in Nazionale al fianco di Carlino Beretta. La guida tecnica, però, non faceva per il Peppino, che ben presto scelse di dedicarsi ai giovani per conto dell'Inter. A lui il merito di aver scoperto Sandro Mazzola, cui lo accomunavano la perdita del padre in giovanissima età ed una classe fuori dal comune. Il figlio del grande Valentino lo ricorda così: «Era una persona eccezionale, per cui la correttezza veniva prima di tutto. Una volta, mi lamentai perché non mi veniva passata la palla, e lui mi rimproverò dicendo che, nonostante avesse vinto due volte il Campionato del Mondo, mai si era permesso di crtiticare l'operato dei propri compagni di squadra. Quella fu, per me, un'importantissima lezione».

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000